Essere onesti non è inutile: il rating di legalità.
La corruzione è zavorra non solo per l’economia, ma per qualunque ambito da essa contaminato, come si è qui esposto. La lotta a tale fenomeno è stata affrontata nel settore pubblico, quale ineludibile esigenza collettiva, con una serie di recenti provvedimenti. Strumento e fine di questi ultimi è, da un lato, la “trasparenza”, volta a illuminare gli angoli bui di una burocrazia nelle cui pieghe possono annidarsi illegalità e malaffare; dall’altro, l’accountability, vale a dire la responsabilità di chi, gestendo la “res publica”, ai cittadini è tenuto a “rendere conto”. I risultati normativi, com’è stato qui esposto, non sembrano efficaci: perché il regolatore non riesce a emanciparsi da quella sorta di peccato originale che marchia ogni ambito pubblico, cioè da un’impostazione anche legislativamente burocratica, che finisce produrre opacità anche là dove vorrebbe far luce.
Ma la corruzione è problema molto grave anche nel settore privato. E se, di recente, qualcuno, ha parlato di una “evasione per sopravvivenza”, c’è chi parimenti ha rilevato l’esistenza di una corruzione motivata dalla “pressione per generare buone performance finanziarie” e, così, permanere sul mercato. E’ quanto emerge da una recente indagine, (qui riportata), la Fraud Survey 2013, svolta della Ernst & Young, una delle “big four” mondiali della revisione contabile, che ha intervistato 3.459 dipendenti (il 30% dirigenti e top manager) di imprese di 36 Paesi nel mondo, al fine di rilevare “la risposta delle aziende alle difficoltà derivanti dall’attuale contesto economico”. Detta indagine evidenzia la portata del fenomeno corruttivo, come percepito all’interno delle strutture imprenditoriali, dimostrando che, ove la crisi economica è più sentita, più diffusi sono comportamenti connotati da illegalità, al fine di produrre, nonostante la crisi, buoni risultati.
L’Italia si colloca circa a metà della classifica generale, con un indice di corruttibilità dei manager pari a 60 punti, ma è tra le nazioni peggiori in ambito europeo. La classifica è guidata da Svizzera (10), Finlandia e Svezia (entrambe a 12), Norvegia (17) e Paesi Bassi (23). La Francia è a 27, mentre la Germania è a 30. Dietro il nostro Paese sono la Spagna (65), l’Ungheria (70), il Portogallo (71) e la Grecia (83), mentre la peggiore in assoluto è la Slovenia (96). Il 17% dei soggetti coinvolti nella ricerca, che divengono il 28% se si considerano solo i manager che lavorano nelle vendite e nel marketing, ritiene che offrire regali personali sia un comportamento lecito al fine conservare un business in un periodo di crisi. La maggioranza degli intervistati (52%) disapprova comportamenti non etici, ma solo il 27% degli stessi reputa che il malaffare interessi anche il proprio settore.
Ciò premesso, è noto che la concorrenza trova un ambiente favorevole in un sistema di regole conosciute, condivise e rispettate, ponendo tutti gli operatori sullo stesso piano: essa non può certo dispiegarsi là dove vigano comportamenti di tipo corruttivo, che distorcono la competizione. Da un lato, inducono costi aggiuntivi, comprensivi anche della possibilità di sanzioni, col tempo maggiormente onerosi per le imprese più spregiudicate; dall’altro recano ad esse benefici immeritati a danno di quelle più oneste, che rischiano così di essere escluse dal mercato o comunque, in periodo di crisi, di venire oltremodo penalizzate. La conseguenza non solo è l’instaurarsi di un circolo vizioso, in cui l’azienda rispettosa della legge risulta svantaggiata rispetto a quella che agisca in maniera scorretta, ma altresì il danno all’immagine del Paese e di chi vi faccia parte, con ricadute negative sull’economia nazionale. Il sistema repressivo del malaffare fino a questo momento praticato si è visto essere non idoneo a una deterrenza effettiva. Perciò a esso si è ritenuto di aggiungere altre misure, di tipo premiale, mirate a favorire chi si avvalga di pratiche improntate a legalità, sostenibilità, etica: quindi, in una parola, a responsabilità.
Così nel nostro ordinamento è stato introdotto l’istituto del “rating di legalità delle imprese”. L’articolo 5-ter del d.l. n. 1/2012 (c.d. “cresci Italia, come modificato dal d.l. 29/2012, convertito con modificazioni dalla l. 62/2012) prevede, in particolare, che al fine di promuovere “principi etici nei comportamenti aziendali”, all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) è attribuito il compito di elaborare, in raccordo con i Ministeri della Giustizia e dell’Interno, un rating di legalità per le imprese operanti nel territorio nazionale, del quale si debba tenere conto in sede di concessione di finanziamenti da parte delle pubbliche amministrazioni, nonché in sede di accesso al credito bancario, secondo le modalità stabilite con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze e del Ministro dello sviluppo economico. Gli istituti di credito che omettano considerare detto rating al momento della concessione dei prestiti alle aziende sono tenuti a trasmettere alla Banca d’Italia una dettagliata relazione sulle ragioni di tale decisione.
L’AGCM ha emanato il provvedimento di propria competenza (qui la la delibera 14 novembre 2012, n. 24075), contenente i criteri e le modalità per il conferimento del citato rating (qui le aziende che l’hanno già ottenuto). In particolare, riassumendo, quest’ultimo può essere richiesto da ogni impresa (in forma individuale o collettiva) avente sede operativa in Italia, che abbia raggiunto un fatturato minimo di due milioni di euro nell’esercizio chiuso l’anno precedente alla richiesta e che sia iscritta nel registro delle imprese da almeno due anni. Il rating, misurato da un minimo di una a un massimo di tre stellette (come qui indicato), è attribuito dall’AGCM sulla base delle dichiarazioni rese dalle aziende, verificate tramite controlli incrociati con i dati in possesso delle pubbliche amministrazioni interessate. Una stelletta viene assegnata a quelle i cui imprenditori “o altri soggetti rilevanti ai fini del rating (direttore tecnico, direttore generale, rappresentante legale, amministratori, soci)” non siano stati oggetto di provvedimenti inerenti, tra l’altro, reati tributari e non abbiano procedimenti in corso per reati di mafia; che, oltre a ulteriori requisiti, nel biennio precedente non siano state condannate “per illeciti antitrust gravi, per mancato rispetto delle norme a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, per violazioni degli obblighi retributivi, contributivi, assicurativi e fiscali nei confronti dei propri dipendenti e collaboratori”; che dichiarino di “effettuare pagamenti e transazioni finanziarie di ammontare superiore alla soglia di mille euro esclusivamente con strumenti di pagamento tracciabili”. Il regolamento prevede ulteriori condizioni[1] che, se rispettate, consentono alle imprese il punteggio massimo di tre stellette. Esse sono tenute a comunicare all’Autorità ogni variazione dei dati riportati nei propri certificati camerali e qualunque evento incida sul possesso dei requisiti in base a cui il rating sia stato loro concesso. Il Ministero dell’Interno e le altre pubbliche amministrazioni, per quanto di loro competenza, non appena ne siano venuti a conoscenza, comunicano all’Autorità ogni variazione di detti requisiti. In caso di perdita di uno di quelli base, necessari per ottenere una stelletta, l’AGCM dispone la revoca del rating. Se invece viene meno uno di quelli grazie ai quali l’azienda ha ricevuto un punteggio più alto, viene ridotto il numero di stellette. Il rating di legalità ha durata di due anni dal rilascio ed è rinnovabile su richiesta.
Il Ministro dell’economia e delle finanze e quello dello sviluppo economico hanno provveduto a predisporre il decreto previsto dall’art. 5-ter, che è stato approvato, con alcuni rilievi[2], dal Consiglio di Stato (qui il relativo parere). A detto decreto le pubbliche amministrazioni dovranno adeguarsi entro centoventi giorni dalla sua entrata in vigore, mentre le banche dovranno definire e formalizzare apposite procedure interne. L’impresa richiedente, al fine di poter fruire delle agevolazioni che il rating comporta, dovrà fornire informazione di esserne in possesso, impegnandosi a comunicare tempestivamente l’eventuale revoca o sospensione del medesimo disposta nei suoi confronti dall’AGCM. La Banca d’Italia pubblicherà annualmente le statistiche sui casi di mancata considerazione del rating nella concessione dei prestiti da parte del sistema bancario.
L’istituto sopra esaminato rappresenta un importante strumento operativo, in quanto metro di valutazione legislativamente riconosciuto dell’affidabilità dei protagonisti del mercato. Ciò a condizione che le relative istruttorie, in particolare per i profili di collaborazione con le pubbliche amministrazioni, da un lato, vengano svolte con quella tempestività che di norma non caratterizza i soggetti espressione di burocrazia, mentre concorrerebbe all’efficienza generale; dall’altro, siano connotate dalla trasparenza che, insieme all’accountability sopra richiamata, deve riguardare tanto i controllati quanto i controllori. Nell’analisi di costi e benefici, si rileva come le imprese, per ricevere il rating e così godere dei vantaggi che esso può arrecare in sede di concessione di finanziamenti pubblici e privati, devono assolvere agli obblighi previsti dal regolamento: dall’adesione al Protocollo di legalità (art. 3, c. 2, lett. a), all’adozione di un modello organizzativo aziendale ex d.lgs n. 231/2001 (art. 3, c. 2, lett. c), all’informativa da fornire all’AGCM nei casi predeterminati. Al riguardo, non può ritenersi trascurabile la potenziale perdita di stima reputazionale per le aziende il cui rating venisse ridotto, sospeso o revocato. La denominazione delle stesse sarebbe resa pubblica in quanto ricompresa in un elenco che l’Autorità tiene aggiornato sul sito. Si tratta di una previsione la cui natura sembra essere non solo informativa, ma anche sanzionatoria. Basti pensare alle conseguenze che possono derivarne per la credibilità di coloro cui si applica e, dunque, per l’eventuale maggiore difficoltà di questi ultimi, a seguito del downgrade, nel conseguire quei finanziamenti che la concessione del rating mira invece ad agevolare. Quanto ai benefici derivanti dal sistema di certificazione della legalità, coloro i quali interagiscano con le imprese che ottengano il rating vengono, attraverso esso, garantiti sul rispetto da parte di queste ultime di principi etico-giuridici nei comportamenti aziendali. Di conseguenza, si può ragionevolmente ritenere che saranno portati a preferire tali imprese, certificate quali soggetti la cui azione è improntata a principi anticorruttivi, rispetto ad altre controparti i cui standard comportamentali non siano stati oggetto di verifica ovvero abbiano un punteggio meno elevato. Ai benefici sopra evidenziati devono aggiungersi quelli rilevati da una recente ricerca in tema di Corporate Social Responsibility, concetto espressamente menzionato nel regolamento AGCM tra i requisiti per il rating. La CSR viene qui definita dalla Commissione Europea come “la responsabilità delle imprese per il loro impatto sulla società”. L’87% dei cittadini afferma di tenere in considerazione i comportamenti dell’impresa quando decide di acquistare i suoi prodotti e il 93% ammette di essere più fedele alle aziende che attuano politiche di responsabilità sociale: quest’ultima, quindi, in ogni senso, “paga”. Tra i benefici derivanti dal rating devono altresì citarsi quelli esposti in un’altra ricerca in materia di “sostenibilità”, concetto pure ripreso nel regolamento AGCM ai fini del punteggio: essa rappresenta “un fattore di successo sul mercato”, “contribuisce alla generazione di profitto e alla creazione di un vantaggio competitivo” ed è “una leva per attrarre talenti e creare consenso”, se riesce a produrre “valore per gli stakeholder e integrare le attività di business nella società”. Dunque, la sostenibilità per più di un profilo conviene alle imprese.
Quanto sopra esposto dimostra che la legalità, soprattutto se attestata da un rating che la renda riconoscibile e misurabile, giova a tutti: ai soggetti che la pratichino, e non solo in sede di accesso a finanziamenti pubblici o privati, nonché a quelli che con essi si relazionino, meglio tutelati. In una parola, essa induce fiducia. E quanto più numerosi ne saranno i destinatari, valorizzati attraverso il rating e quindi preferiti agli altri da un pubblico che si orienti verso i loro beni o servizi, di maggiore fiducia godrà il mercato nazionale. In esso, infatti, se reso contesto di competizione trasparente, emergeranno i soggetti più validi, quelli che fanno leva sulle proprie capacità, che non necessitano di scorciatoie o sotterfugi, che in concorrenza operano e in quest’ultima, praticandola lealmente, credono. A buon diritto, può dunque dirsi che le stellette della certificazione quantifichino, oltre alla legalità, anche il merito. “La disperazione più grande che possa impadronirsi di una società è il dubbio che essere onesti sia inutile”, scriveva Corrado Alvaro. Forse, con il rating, il dubbio che l’onestà possa non essere inutile è stato, almeno per certi versi, instillato: e, dati i tempi, non è poco.
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[1] Specificamente, il rispetto del Protocollo di legalità sottoscritto dal Ministero dell’Interno e da Confindustria; l’utilizzo di sistemi di tracciabilità dei pagamenti anche per importi inferiori a quelli fissati dalla legge; l’adozione di una struttura organizzativa che effettui il controllo di conformità delle attività aziendali a disposizioni normative o un modello organizzativo ai sensi del d.lgs. 231/2001; l’adozione di processi per garantire forme di Corporate Social Responsibility; l’iscrizione in uno degli elenchi di fornitori, prestatori di servizi ed esecutori di lavori non soggetti a tentativi di infiltrazione mafiosa; l’adesione a codici etici di autoregolamentazione adottati da associazioni di categoria.
[2] Tra gli altri, i rilievi riguardano il concetto di “sede operativa” in Italia, con riferimento alle società estere che siano esercitate sul territorio nazionale; i criteri di premialità adottati dalle amministrazioni pubbliche cui vengono richiesti finanziamenti (vale a dire, preferenza in graduatoria, attribuzione di punteggio aggiuntivo o riserva di quota delle risorse finanziarie allocate), che devono essere esplicitati già nel bando che mette a disposizione i fondi, non nella decisione finale; l’applicabilità del decreto in tutta Italia, incluse quindi regioni e province dotate di autonomia speciale.