Esportare lo Stato in Africa è stato una follia. Nota sulla Costa d’Avorio
Anche se il mondo è sempre più piccolo e globalizzato, è pur vero che le distanze permangono: e basta trascorrere una settimana in Costa d’Avorio per percepire con nettezza come il nostro abituale modo di vivere non sia affatto normale (ma proprio per nulla) nell’Africa sub-sahariana.
Da una decina di anni, la Costa d’Avorio è un paese al centro di difficoltà particolarmente gravi, poiché la ribellione scoppiata nella parte Nord del Paese rende quasi impossibile il ristabilimento di un’esistenza ordinaria. Dopo mezzanotte, ad esempio, per entrare ed uscire da Abidjan (la capitale, che conta circa 6 milioni di abitanti) è necessario disporre di speciali autorizzazioni. Non bastasse questo, chi deve muoversi in questa parte del mondo è costretto a superare vari posti di blocco, dove ogni volta è costretto a mettere mano al portafoglio. In un Paese in cui il reddito medio annuo si aggira intorno ai mille dollari, non ci si può stupire se questo taglieggio è divenuto parte della quotidianità.
Se sono stato in Costa d’Avorio è perché tra fine luglio e inizio agosto l’Institute for Economic Studies ha deciso di organizzare a Grand Bassam (antica capitale coloniale, a breve distanza da Adidjan) un seminario di introduzione ai temi del liberalismo, a cui hanno preso parte una cinquantina di studenti provenienti – oltre che dalla Costa d’Avorio – dalla Guinea, dal Burkina Faso e dal Camerun. A volere con forza questa iniziativa e a sostenerla personalmente in tutti i modi è stato Mamadou Koulibaly, economista uscito dalla scuola di Aix-Marseille e ora presidente dell’Assemblea Nazionale: uno studioso di limpidi convincimenti liberali, che sta in tutti i modi sforzandosi di fare il possibile per strappare l’Africa dal fatalismo pessimista che ne ostacola lo sviluppo e dallo statalismo che è all’origine di tanti suoi problemi. (Qui è possibile ascoltare un’intervista, in lingua francese, all’economista ivoriano.)
Perché in Africa come ovunque, una società più libera e più prospera è possibile, ma solo se si comprendono le cause del disastro attuale e si interviene con decisione.
Quello che infatti colpisce un europeo, quando giunge ad Abidjan, è la debolezza della società civile e del mercato, cui invece si contrappone uno Stato tendenzialmente onnipotente. È sufficiente seguire i programmi della televisione (pubblica) locale – catene private non esistono – per cogliere come si abbia un’informazione quasi esclusivamente dedicata a ministri, agenzie di Stato, funzionari, piani di sviluppo ecc. Lo Stato è ovunque e pretende di gestire al meglio ogni cosa: la produzione come i trasporti, l’istruzione come la cultura. Ma quello che è (quasi) sopportabile dove vi è comunque una società mercantile organizzata – e cioè da noi, nel mondo occidentale -, si rivela devastante in un quadro tanto afflitto dalla miseria.
In due parole, il dramma principale dell’Africa può essere così sintetizzato: abbiamo a che fare con società economicamente molto fragili e socialmente ancora poco integrate (data la storica difficoltà a sviluppare un mercato aperto: anche a causa dei problemi di comunicazione) su cui è stato calato un apparato, lo Stato moderno, uscito da una storia tutta peculiare quale è quella dell’Europa. Un mantello di piombo del peso di trenta chili, che un uomo robusto può comunque portare (anche se a fatica), è stato buttato addosso a un bambino ancora gracile, bloccandone in tal modo lo sviluppo.
Basti pensare che in Costa d’Avorio la pressione fiscale e parafiscale sulle imprese è intorno al 45% e che l’espletamento dei propri doveri fiscali esige ben 66 pagamenti e 270 ore per il disbrigo delle pratiche (si vedano i dati messi a disposizione da questo sito).
Mentre il potere è onnipresente e oppressivo (e questo spiega sia l’instabilità cronica di tanti regimi politici africani che il persistere di dittature decennali), il diritto latita. I titoli sui terreni e sulle abitazioni sono mal definiti e spesso del tutto assenti. La conseguenza è un immenso agglomerato di slums collocati su spazi demaniali, dove micro-imprenditori impegnati a produrre e a vendere ogni sorta di bene e servizio cercano di guadagnarsi di che vivere.
In linea di massima, gli studenti universitari riuniti a Grand Bassam hanno compreso che per poter affermare il diritto, la proprietà, la pace e lo sviluppo è necessario che lo Stato si ritiri e che il mercato trovi più spazio. Una settimana di studi può essere solo un inizio, ma c’è la speranza che possa produrre risultati di un qualche rilievo.
Interessante l’articolo, ma credo che di fondo buona parte dell’Africa sia nelle condizioni della Costa d’Avorio, magari in misura diversa.
La colpa, se vogliamo definirne le responsabilità, non è dello stato che come osservato è ancora come un bimbo piccolo, ma della fragile ed inconsapevole cultura africana. Se da noi, nel moderno occidente, molte cose sono date per scontate, ma non è vero, poiché basta vedere cosa hanno fatto le istituzioni e come sono finite defraudate dalla base del loro valore intrinseco, lì in Africa le cose non vanno certamente meglio, anzi.
La cultura africana è una subcultura coloniale che le grandi compagnie e le grandi nazioni hanno lasciato al mondo nuovo occidentale. Altro che indipendenza e giochi di potere delle etnie locali; i giochi, e ben si sa, avvengono esclusivamente in presenza di risorse che altrimenti, se non presenti, lascerebbero il paese nel loro caldo limbo africano.
Ma l’Africa non è un limbo, in ogni luogo che si vada l’interesse e la strategia della nazione lì esistente è comunque preda delle mire espansionistiche ed ingorde sempre delle solite grandi compagnie.
L’affrancamento africano non sarà mai possibile se non in virtù di un equilibrio dei poteri locali e dello sfruttamento delle eventuali risorse. Ma tutto questo non sarà mai possibile, nemmeno nelle migliori intenzioni, finché il virus dell’espansionismo e della profonda eredità di quel gene che ha macellato il mondo per una manciata di grani d’oro non avrà reso sterile qualsiasi landa africana.
Credo pertanto che solo la presenza di una vera coscienza esente e scevra dalle influenze esterne abbia la capacità di metabolizzare quasi 3 secoli di sfruttamento, privazioni, depauperamenti. Ma a quando? Forse i nostri figli non lo vedranno, magari i nipoti e forse nemmeno loro se prima non accadrà qualche cosa di irrimediabile.
Paolo_PD, una vera coscienza esente e scevra dalle influenze esterne è, purtroppo per il continente africano, completamente impossibile. Ogni regime post – coloniale sorto in Africa, per quanto rigettasse il dominio coloniale occidentale, attingeva ad esso per simbologie politiche, apparati burocratici centralizzati, ecc. traendone profonda ispirazone.
Il problema è che, come spiega l’articolo, concetti tipicamente occidentali inerenti a cosa dovrebbe essere o fare lo Stato, risalenti peraltro a concezioni per lo più nocecentesche, funzionano assai male in contesti che non gli sono propri. La questione non è lo Stato in sè e per sè, che come concetto è anche tutt’ora vagamente definito (è una forma di Stato, sociologicamente parlando, anche il totemismo e il sistema patriarcale tradizionale), ma quale tipo di stato.
E il tipo di stato presente in parecchi stati africani sorto dopo la colonizzazione è un fantoccio del moderno stato occidentale, un tentativo di ricrearlo “dall’alto” con tutte le sue classi economiche novecentesche (borghesia commerciale, proletari, latifondisti) in un contesto in cui ci sono già classi “di prestigio” (clan, gruppi etnici) che aspirano al controllo delle risorse economiche mediante la lotta politica. Fatto in sè e per sè non sbagliato, ma incompatibile con il modello moderno che è stato innestato.
Il risultato di quest’incompatibilità di fondo è che il modello moderno funziona male, è instabile, costretto a ribadire la sua omnipresenza davanti a una comunità che altrimenti lo rigetterebbe come un organo impiantato. Io sono favorevole a lasciare che siano gli africani (poi sarebbe meglio dire ivoriani, kenioti, senegalesi, congolesi, ecc.) a decidere cosa fare delle loro risorse, ma non aspettiamoci che lo farebbero necessariamente come intendiamo noi. E in un economia globalizzata, dove una singola incentivazione al bioetanolo ha provocato un rialzo mostruoso dei prezzi degli altri cereali, linfa vitale di molti paesi poveri, questo porterebbe a grossi cambiamenti.
Un altro tipo di soluzione potrebbe essere di tipo etico, cioè che aziende di un certo tipo si pongano davvero il problema di considerare lo stato africano come un partner economico, e non come un misero serbatoio.
Il cambiamento, nella storia, non arriva mai all’improvviso, è più che altro frutto di una serie di ‘scintille’ concatenate. Un cambiamento di questo tipo, cioè nell’approccio che abbiamo con altre realtà sociali, nel lungo periodo potrebbe fare davvero la differenza.