22
Gen
2014

Energia e clima: l’Ue conferma la sua leadership sulla via lastricata di buone intenzioni

La Commissione europea ha rivelato oggi il progetto per prolungare fino al 2030 la sua strategia industrial-ambiental-energetica: ridurre cioè le emissioni del 40% al di sotto dei livelli del 1990 e portare le fonti rinnovabili almeno a quota 27%.

Qui i dettagli finora disponibili. Il piano è sia esagerato, sia confuso, sia sbagliato, sia contraddittorio.

E’ esagerato perché il target di riduzione delle emissioni è assolutamente incompatibile con una prospettiva, già bassa, di crescita economica sostenuta. Nella documentazione distribuita la Commissione fornisce dati entusiastici sui risultati raggiunti finora: sono dati tecnicamente corretti, ma meriterebbero la medaglia d’oro alle Olimpiadi del paraculismo. Dice infatti l’esecutivo di Bruxelles che gli obiettivi al 2020 (emissioni a -20% rispetto al 1990) sono già stati quasi raggiunti, in quanto

Between 1990 and 2012 the EU succeeded in cutting its GHG emissions by 18%, while GDP grew by 45%. The EU is on track to meet its 2020 target of reducing emissions by 20% below 1990 levels.

Quello che la Commissione non dice è che tra il 1990 e il 2008 le emissioni si erano ridotte solo dell’11% nell’Ue27 (e del 6% nell’Ue15), mentre la gran parte del crollo è venuto dopo. La ragione ha poco a che fare con le politiche climatiche e molto a che vedere con la recessione. Nella misura in cui il piano “energia e clima” ha avuto un impatto, ce l’ha avuto nel modo peggiore: contribuendo a mantenere elevati i prezzi energetici, a fronte di un Pil calante in Europa e di una rivoluzione a basso costo negli Usa e nel mondo, ha contribuito a rendere meno competitiva l’industria europea e a favorirne la delocalizzazione. I goffi tentativi di rimedio hanno messo pezze peggiori del buco (vedere alla voce: carbon leakage).

A dispetto del negazionismo della Commissione, che approfitta anche di questo comunicato per insistere sui (presunti) benefici della strategia tacendo sui costi (dei quali non c’è quasi menzione), la realtà è che raggiungere una riduzione del 40% delle ipotesi sotto una dinamica di crescita economica è pressoché impossibile. E lo è soprattutto alla luce delle ulteriori informazioni che sono state rese note riguardo l’attuazione del piano.

Il che conduce al secondo punto: al momento, le modalità di implementazione sono quanto mai confuse. Questo vale in particolare per l’obiettivo sulle fonti rinnovabili, che viene introdotto a livello europeo ma – apparentemente – non a livello nazionale. In astratto non c’è particolare differenza, ma in concreto la questione è enorme: cosa tratterrà gli Stati membri dalla tentazione del “free riding”? E quali sanzioni verranno adottate, e con quale criterio saranno distribuite, in assenza di una definizione chiara di “chi deve fare cosa”? Insomma: a dispetto delle ripetute promesse di maggiore certezza del diritto, sembra proprio che stiamo entrando nella più classica delle notti in cui tutte le vacche sono nere.

La somma di questi elementi – che si aggiungono ai numerosi e ripetuti errori di disegno dei meccanismi europei per favorire la decarbonizzazione (vedere alla voce: backloading) – fa del piano un provvedimento estremamente costoso. Uno studio del Potsdam Institute for Climate Impact Research, che certo non può essere accusato di aver lesinato sulle assunzioni eroiche, valuta il costo della manovra nello 0,7 per cento del Pil al 2030. Provate a cumulare un simile impatto su 15 anni che si annunciano caratterizzati (e speriamo non sia così) da tassi di crescita non esaltanti, e fate i conti. Questo rende il progetto profondamente dannoso e viziato da un’incomprensione di fondo: stiamo infatti parlando di politica ambientale o di politica industriale? L’insistenza sulle rinnovabili spinge in quest’ultima direzione: in fondo, ammesso e non concesso che l’interesse ambientale sia la riduzione delle emissioni, perché la Commissione deve preoccuparsi di normare ex ante le tecnologie da impiegare?

Il piano è, infine, contraddittorio, in particolare in relazione al suo impatto sui mercati elettrici. Secondo la Commissione, la quota rinnovabile nella generazione elettrica dovrà crescere al 45%, rispetto all’attuale 21% (a livello europeo). Ora, ciò implica che quasi la metà del mercato sarà dominato da fonti caratterizzate da obblighi di ritiro dell’energia prodotta, tariffe politiche, e una serie di altri sussidi espliciti e impliciti. In quale modo ciò si coniuga con la competizione nel mercato?

La sensazione, insomma, è che siamo di fronte a un piano dettato ora da interessi (industriali e nazionali), ora dalla cocciutaggine di un’Europa che continua a proclamarsi leader su una strada nella quale non sembra avere follower. La Commissione dimostra così di non aver imparato alcuna lezione dal passato, se non quella della retorica e del cerchiobottismo, col risultato di produrre una strategia che delude tutti e che farà male a ciascuno. Non si può pensare di andare a velocità smodata senza casco e poi stupirsi quando ci si fa male.

(post pubblicato anche su Strade)

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