12
Mag
2015

Enel e banda larga: la clava Pd contro Telecom e Bolloré-Mediaset

Nel mondo delle telecomunicazioni italiane, ieri è stata lanciato un missile a più stadi. La disponibilità dell’ENEL a farsi carico della realizzazione di un pezzo della banda larga di trasmissione che manca in Italia è diventata per poche ore una scelta addittura di sistema, con il governo che secondo Repubblica avrebbe affidato all’ex monopolista elettrico il ruolo dominante per portare la fibra alle case degli italiani. Un’ipotesi impraticabile, alla quale l’Europa direbbe scontatamente no, se non lo facessero per prime l’Agcom e l’Antitrust italiani. E che infatti il governo ha dovuto nelle ore successive circoscrivere e smentire, riconoscendo che non sta certo all’esecutivo decidere il piano industriale di come si realizza la banda larga.

Ma il missile è appunto a più stadi. Parla della voglia di Stato-padrone che – al di là delle chiacchiere blairiste – è fortissima nella mente di esponenti Pd che si occupano di tlc, di consulenti di partito come Tiscar e ovviamente di Bassanini. Rivela l’insoddisfazione profonda del governo per come innanzitutto Telecom Italia, una public company privata, non si sia piegata all’offensiva di Stato lanciatagli dalla Cassa Depositi e Prestiti. E, infine, mostra anche un’ansia crescente, nel Pd e nel governo, rispetto a che cosa diventerà da fine giugno in avanti proprio la “nuova” Telecom Italia. Quella in cui sarà la Vivendi del finanziere bretone Vincent Bolloré a diventare l’azionista di riferimento al posto degli spagnoli di Telefonica, mentre tutti sanno che Bolloré e il suo fidato Tarek Ben Ammar hanno in corso contatti con Mediaset, per un’alleanza che potrebbe comportare anche scambi di quote. E chissà, carta per carta anche l’acquisizione da parte della stessa Mediaset di una quota in Telecom Italia. Vediamo di analizzare in breve i fatti salienti del mosaico.

L’ipotesi Enel. Quando a inizio marzo il governo Renzi ha meritoriamente lanciato la sua strategia per accelerare la realizzazione della banda larga in Italia per farci risalire dalla disastrosa condizione in cui versiamo nelle graduatorie internazionali, con 12 miliardi di risorse di cui 6,5 da fondi comunitari, la scelta di fondo era tra due alternative. La prima: costruire pazientemente costruire una convergenza spontanea “di mercato” tra tutti i players privati telefonici e televisivi, incentivando fiscalmente – al di là dei fondi pubblici destinati alle aree a fallimento di mercato – la convenienza di tutti gli operatori a realizzare l’auspicata convergenza tra privati. Le scadenze erano strettissime, poiché Infratel (società del Ministero dello sviluppo economico) avviava subito una consultazione per aggiornare la mappa delle disponibilità di servizi «a banda larga e ultralarga» sul territorio nazionale. Entro il 20 giugno gli operatori di tlc avrebbero dovuto dichiarare i piani di copertura attuali e quelli previsti per il triennio 2016-2018 nelle 94.645 aree in cui è stato suddiviso il Paese: gli impegni saranno successivamente tradotti in contatti con scadenze concordate da rispettare nel corso del triennio. In questo modo sarà possibile determinare quali sono le aree a fallimento di mercato dove sono ammessi gli interventi pubblici. Nel mentre, il governo avrebbe avviato con Bruxelles la verifica delle agevolazioni per non incorrere nella censura come aiuti di Stato, verificato se si potevano aggiungere altri fondi della BEI e CDP, nonché fatto il conto preciso delle disponibilità finanziarie italiane, visto che le agevolazioni vanno coperte in bilancio.

L’aspettativa vera nutrita da governo e CDP era però un’altra: non convergenza spontanea tra privati, ma che Telecom Italia accettasse di realizzare la sua quota d’investimento tramite la pubblica Metroweb, che satrebbe rimasta però controllata dallo Stato tramite Cdp e F2I. E che di fatto abbandonasse la strategia -. obbligata – che la spinge a continuare a usare la rete in rame rispetto alla fibra, perfezionandone la capacità di trasmissione secondo il modello FTTC.

Ma Telecom Italia più che comprensibilmente ha detto no, visto che al rame resta appeso il più del suo EBITDA cioè dei suoi margini di utile. E l’azienda pensa più che giustamente di presentare esposti in sede comunitaria, per tutelarsi rispetto a reiterate e concrete ipotesi che la mano pubblica italiana intervenga in violazione della concorrenza. Al governo questa “resistenza” di Telecom non è piaciuta, a CDP e Bassanini – ricordate le sue sprezzanti dichiarazioni di un mese fa, su Telecom Italia che avrebbe portato la banda larga sì e no a qualche quartiere italiano – tanto meno. Ecco perché il governo ha calorosamente invitato l’ENEL a esprimere ufficialmente la propria disponibilità a usare la rete elettrica per passare la fibra, fino alle case visto che l’ex monopolista elettrico ha in corso una massiccia campagna di sostituzione dei vecchi contatori con “macchine intelligenti”. Una notizia che due settimane fa fu lanciata dal Messaggero. E che ieri Repubblica ha trasformato, pigiando il pedale sull’acceleratore, nell’impossibile affidamento a Enel del ruolo prevalente di tutta l’operazione banda larga. Impossibile perché lo stesso Renzi, resosi conto della portata insostenobile dell’annuncio, ha dovuto subito precisare che non spetta al governo fare piani industriali, il presidente dell’Agcom Cardani ha osservato che se l’ENEL si fa avanti va bene ma a patto che si rispetti la concorrenza, e lo stesso presidente dell’ENEL Grieco ha dovuto chiarire che la disponibilità dell’azienda non può mutare in nulla la sua missione, occuparsi di energia elettrica. Ricordiamoci che l’ENEL ha in corso una massiccia campagna di dismissioni da 5 miliardi di euro per rientrare di un debito che in questo 2015 ammonterà a 39 miliardi. Non sarebbe una passeggiata, addossarsi altri investimenti in un’area di business estranea alle sue priorità. Infatti, ieri in Borsa il titolo ha perso.

Il retroscena. E’ ovvio che il governo e la CDP preferirebbe che il più degli investimenti avvenisse in fretta e tramite una forte mano pubblica: si venderebbe meglio la cosa al paese, sottolineando il ritardo dei privati, e keynesianamente gli effetti sarebbero più concentrati nel tempo ai fini del sostegno a breve del PIL. Ma c’è un punto del piano lanciato ieri da Repubblica che svela il retroscena politico della forzatura avvenuta su Enel. Nel piano, si parla anche di un’ipotesi di rastrellamento pubblico delle torri di trasmissione delle società televisive, quelle Rai e Mediaset, e delle telefoniche di Wind e anche di Telecom Italia. E’ la risposta pubblica alla fallita manovra di Mediaset sulle torri della Rai. Ma non ha molto senso in sé, visto che se sui considerassero le torri strategiche- e non complementario, come sono –  per la banda larga, allora ne occorrerebbero molte di più. E tuttavia, il particolare “televisivo” non è la solita difesa della RAI da parte della politica. Dice invece molto dell’ansia con cui Pd e governo guardano a uno sviluppo in corso, che potrebbe modificare sostanzialmente a breve l’intreccio tra tlc e tv nel nostro paese. E che spiega l’irrituale riunione a porte chiuse avvenuta la settimana scorsa alla sede del Pd, con un partito politico che ha convocato le Autorità di settore, il governo e le aziende perché ciascuna dichiarasse riservatamente su due piedi che cosa era disposta a fare. La ragione di tanta disinvoltura istituzionale? Perché a fine giugno la Vivendi di Bolloré diventa l’azionista di riferimento della public company Telecom Italia, al posto degli spagnoli di Telefonica e della Telco bancaria italiana ormai scioltasi. E Bolloré ha in corso contatti seri con Berlusconi non solo per rilevare una quota della sua pay tv, ma per un accordo che rafforzi strategicamente in Italia la sinergia tra produttori di contenuti tv e tlc. In altre parole, è l’ipotesi di uno scambio di titoli tra Mediaset e Vivendi che Bolloré potrebbe anche realizzare attraverso una quota azionaria di Telecom Italia girata a Mediaset, ciò che non fa dormire la politica italiana. A quel punto, la Rai sarebbe nell’angolo. E Telecom Italia non sarebbe solo l’ex incumbent pubblico della telefonia che rifiuta di piegarsi alla guida pubblica dei suoi investimenti, e del suo stesso modello industriale basato sulla rete in rame. Diventerebbe la reincarnazione moltiplicata per dieci della presenza di Berlusconi, o quanto meno di suoi forti alleati, in una delle partite decisive dell’economia italiana. Il vero avvertimento insito nell’ipotesi Enel forzata ieri è in questa direzione. E’ un avvertimento rozzo, nello stile ormai degli interventi governativi nelle aprtite economiche. Rozzo anche perché sottovaluta che Bolloré non è proprioop il tipo, di assumere presenze forti in Italia per inimicarsi tutti. Solo che, facendo perdere valore al titolo Telecom in borsa, paradossalmente chi nel Pd o al governo pensa di ostacolare eventuali intenti dei due mister B – Bolloré e Berlusconi – sta facendo loro un piacere. Perché con gli stessi soldi potrebbero rilevare una quota maggiore di una Telecom Italia svalutata…

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4 Responses

  1. Roberto

    Comprendo che Telecom Italia voglia difendere il suo unico bene ma visto l’Italia ha bisogno da ieri di una rete in fibra ottica capillare il governo cosa deve fare? Attendere che Telecom fra trent’anni decida che il rame non è più adeguato o spingere affinché finalmente qualcuno getti un macigno nella palude che con la privatizzazione di Telecom Italia, e il regalo della rete pagata con le tasse dei miei nonni e dei miei genitori, si è venuta a creare in tutto il settore. Prima della privatizzazione Telecom Italia aveva cablato con la fibra ottica, grazie al progetto SOCRATE, molte medie città italiane, quello era il futuro ella strada da seguire poi sono arrivati i privati che evidentemente di futuro non ne capiscono nulla e si sono arroccati sulla difesa dello status quo, il risultato lo vediamo oggi con tutti i Paese avanzati che viaggiano ad almeno 100 Mbit e con punte da 1 Gbit in Asia e noi che arranchiamo quando va bene a 20 Mbit fasulli e mai garantiti e nella maggioranza dei casi a 2-3 Mbit.

  2. DM

    I confronti con gli altri paesi europei non tengono conto del fatto che all’estero si considerano ultrabroadband anche le connessioni TV via cavo, che da noi non esistono perché la politica ha optato per il digitale terrestre anziché per la fibra ottica. Sul banco degli imputati va messa la politica, non Telecom: non è compito di Telecom fare politiche industriali per il paese. Inoltre, la regolazione dell’AgCom è stata certamente pregevole per quanto concerne il controllo dei prezzi e l’abbattimento dellla rendita da monopolio: infatti Telecom non ha alcuna libertà di fissare il prezzo del rame della rete di accesso secondaria, perché in sostanza lo decide l’AGCom. L’idea che con il rame Telecom lucri su una rendita da monopolio non è sostenibile. Invece l’AGCom ha una grossa responsabilità per l’assenza degli investimenti nella rete di accesso; si è occupata solo di prezzi (cioè del controllo di Telecom), ma si è completamente disinteressata dell’aggiornamento tecnologico delle reti, che è una delle sue competenze.
    Prima di flagellare Telecom, occorrerebbe frustare i politici e i regolatori insipienti; in questa vicenda sono stati così abili nel manipolare le informazioni da apparire come mammole innocenti, quando invece hanno le colpe principali dellla nostra arretratezza tecnologica. La campagna mediatica dei giornali compiacenti ha narrato ancora una volta la favola del lupo e l’agnello di Fedro, in cui l’agnello-Telecom è colpevole di sporcare l’acqua del lupo-Governo che non ha gradito il no all’ingresso in Metroweb.

  3. gianni

    Mi pare che dimenticate tutti una cosettina basiliare: Telecomitalia è piena di debiti, ed i debiti sono garanti dal valore della sua rete in rame. Per fare investimenti in F.O. dovrebbe indebitarsi ulteriormente, chiedendo prestiti garantiti da quella infrastruttura che sarà resa obsoleta e priva di valore proprio dall’investimento che dovrebbe effettuare.
    Inoltre, siamo seri, lo abbiamo già visto con le compagnie di telefonia mobile: più operatori in concorrenza nel pianificare e installare infrastrutture di rete generano forti diseconomie di scala: ognuno ha il suo backbone, la sua rete di ripetitori, le sue centrali… Uno spreco enorme. E’ come se ogni gestore autostradale si costruisse la sua rete di autostrade.

  4. DM

    Non sono molto d’accordo sul prolblema del debito di Telecom Italia. Se ne parla moltissimo, ma non sembra che i mercati finanziari se ne preoccupino più di tanto. Il gruppo genera quasi 9 miliiardi di liquidità con le sole attività operative, qualcosa grande 5 volte il tesoretto sbandierato urbi et orbi un mese fa dal governo. In poche parole, Telecom ha 26,6 miliardi di debito netto e 8,8 miliardi di EBITDA. Proporzionalmente, è come una famiglia che deve pagare un mutuo di 150.000 euro con un reddito annuo di 50.000 euro: pura normalità.
    Per inciso, Enel ha 39 miliardi di debito netto e 15 miliardi di EBITDA: proporzionalmente, come una famiglia che ha un mutuo di 120.000 euro e 50.000 euro di reddito. Eppure nessuno si strappa le vesti per i debiti di Enel.
    Invece, sono d’accordo con il sig. Gianni sulle diseconomie di scala: è da anni che i commenti internazionali puntano il dito contro la politica regolatoria dell’UE come causa primaria dell’arretramento del continente nel settore ICT. In USA esistono soltanto tre grandi operatori di TLC, in Cina due. In Europa abbiamo 27 ex monopolisti nanerottoli (più un centinaio di unbundlers), che erano l’avanguardia del mondo negli anni 90, e oggi sono ridotti a follower a causa della colpevole insipienza della regolazione comunitaria. In pratica, abbiamo ridotto i prezzi al lumicino, con il bel risultato di aver depauperato il mercato al punto che le aziende non riescono più a generare cassa sufficiente per investire, garantire la qualità del servizio e gestire i debiti.

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