Econo-Etica, invece di economica etica
Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC) e volentieri pubblichiamo
Ritengo che l’economia, come scienza, dovrebbe cercare di rendere i propri argomenti più possibile oggettivi, per poter capire “cosa accade”, “perché accade”, e “cosa accadrebbe se”. In tal senso i giudizi di valore e preferenze dovrebbero finire a valle della discussione. Si dovrebbe cioè parlare in primis di “fatti economici” e non di “valori etici”, di meccaniche e non di intenzioni. In questa ottica restano delle posizione di valore riguardanti libertà e proprietà, che però non mirano a dettare positivamente fini sull’azione economica e umana, come invece si verifica nel caso dell’onda “moralizzatrice” di chi vuol dare contenuto e movente etici all’economia, subordinando così i “fatti” ai “valori”. Questo è ad esempio il caso del valore etico della “solidarietà”.
La critica che spesso è rivolta all’economia di mercato (con Stati che pesano per oltre metà del PIL, ci vuol coraggio e tanta fede per parlare di economia di mercato), e con essa alla società attuale, è il forte individualismo e la conseguente scarsa Solidarietà, un atteggiamento non paragonabile a quello dei bei tempi (rurali) andati. Incolpando l’ottica del profitto individuale, si predica che l’economia debba essere più etica, comprendere la Solidarietà come principio e fine, redistribuire un utile privato a favore dei più. Se l’economia, anche come scienza, si concentra troppo sul profitto e trascura l’aspetto etico, allora quest’ultimo va reinserito come suo scopo, come sua anima, come suo movente.
Secondo me invece la Solidarietà è un risultato dell’economia, un tipo di organizzazione utile necessaria o ottimale in certe situazioni, e come tale non può essere imposta. Il contenuto della Solidarietà non in realtà è il “dare” puro e semplice (quella è la carità) bensì il “condividere”, il “dare ad altri che, se serve, daranno a te”, un processo di mutuo sostegno. La differenza tra questo e un “do ut des” tipico dello spietato meccanismo di mercato sta nella mancanza di un corrispettivo diretto alla singola prestazione (altrimenti si tornerebbe al concetto di “mercato”); ma nella realtà viene scambiato un servizio occulto, indistinto, che rappresenta una effettiva contro-prestazione. Intendo che “contribuire” al benessere di una massa indistinta di soggetti, esercitando cioè Solidarietà verso chiunque dimostri un bisogno “importante”, nella prospettiva o consapevolezza che se vi sarà necessità si sarà oggetto delle stesse attenzioni da una non meglio precisabile parte di quella stessa massa, è in tutto e per tutto una partecipazione ad un consorzio di mutua assistenza o, come dicono gli economisti bravi, una soluzione di risk-sharing: esiste un certo grado di comunanza delle risorse perché si è tutti soggetti con non trascurabile probabilità ad eventi fortemente negativi, e nell’ipotesi che la somma delle risorse “in comune” sia sempre sufficiente per tutti, si rinuncia ad una (totale o parziale) accumulazione personale per avvantaggiarsi di una quota “compensativa” nelle situazioni negative. È un meccanismo quindi del tutto coerente con le più comuni e spietate dinamiche economiche, e se vogliamo dirla tutta è il presupposto già riconosciuto e protetto dal diritto italiano (per il concetto di mutua assistenza si dia un occhio all’art.26 D.Lgs C.P.S n.1577 del ‘74, sottostante ad istituti giuridici come cooperative e mutue assicuratrici regolate dall’art.2511 CC e segg., ed all’art.143 CC e segg. “diritti e doveri reciproci dei coniugi”).
Io direi che si sono presentate in un passato abbastanza recente le condizioni che obbligavano economicamente ad un comportamento solidale: piccole comunità agricole di basso livello tecnologico e culturale esposte a rischi magari non frequenti ma potenzialmente catastrofici: il singolo raccolto rovinato da una settimana di piogge che arriva ogni vent’anni può azzerare la produzione alimentare di una famiglia e portarla alla morte per fame; l’assenza di vere competenze edilizie immediatamente disponibili espone tutti al rischio di crollo di un granaio o di una abitazione; le condizioni igieniche e lo stato della medicina espone tutti al rischio di malattie più o meno lunghe che portano un danno enorme in un’economia domestica particolarmente labour-intensive… Solo il solidale intervento delle famiglie vicine permette il supporto alimentare fino al raccolto successivo o al termine della malattia, la ricostruzione immediata del granaio, o l’alloggio degli sfollati. In una situazione del genere dove si è tutti nella stessa barca e dove l’unica possibilità di assistenza tempestiva può arrivare dai propri “vicini” è ottimale arrivare ad un equilibrio economico di tipo solidaristico. D’altra parte le comunità nascono proprio per questo: avvantaggiarsi di un reciproco aiuto consci della fragilità come singoli.
Questa aggregazione solidale non è quindi mossa da una semplice volontà di essere solidali, bensì è il risultato di una libera e individuale analisi di costi e benefici di situazioni alternative: prestare assistenza riducendo i propri rischi o sostenere i rischi privatizzando il risultato. Siccome solo nei corsi universitari di risk management e nelle banche si guarda alla media dei rischi attesi e non alla possibilità di un rischio bassissimo ma totalmente distruttivo (i famosi “cigni neri”), in passato è stato ottimale “socializzare gli utili” e sostenere una impostazione solidaristica della società; ma i tempi cambiano, le società cambiano portando aggregazioni e organizzazioni diverse, e non è detto che certe impostazioni di fondo restino ottimali.
Se consideriamo infatti una società molto più ampia e interconnessa di quella antica rurale, una società di tipo “cittadino” attuale in cui i componenti sono per lo più tutti finalmente raggiungibili diventa opportuna una tendenziale specializzazione del lavoro e delle attività economiche. Così come non esiste più il bazaar che vende verdure detersivi chiodi e lenzuola lasciando il posto a quattro diversi negozi dislocati magari in luoghi diversi, anche il lavoro si specializza, e l’individuo può soddisfare il proprio bisogno alimentare e altre situazioni potenzialmente rischiose anche se il prodotto del proprio lavoro è solo uno scooter o un servizio di contabilità. La maggior connessione tra le varie specializzazioni produttive, lontane da pochi chilometri a distanze continentali permette inoltre di ridurre drasticamente le dipendenze delle singole vicende locali riguardanti le varie produzioni, cosicché ad esempio l’allagamento del campo vicino casa non pregiudica il mio approvvigionamento alimentare che può infatti pervenire da molti altri fornitori. In una situazione simile, tipica dei paesi sviluppati, il “mutuo soccorso” dei compaesani, compresi familiari senza vincoli affettivi particolarmente forti, diventa superfluo: nessuno o molto pochi rischiano veramente una situazione di indigenza tale da pregiudicare la propria esistenza (parlo di cose serie, del bisogno “importante” di cui sopra, come alloggio vestiario e salute, non del “senso di indigenza” che alcuni provano per non potersi permettere un mega-televisore-stellare-iperpiatto o il mese di ferie sul Mar Rosso); esiste anche un sistema di welfare, con tutti difetti che può avere, che fornisce alcuni servizi a prescindere dal richiedente; esiste tutta una serie di possibilità di fronteggiare i possibili rischi individualmente, con la possibilità pertanto di tener propri gli eventuali utili derivanti dai propri successi, il che comporta l’inutilità in molte fattispecie del costo legato al Solidarismo. In altre parole, l’evoluzione e il miglioramento dell’organizzazione del lavoro nelle società hanno permesso soluzioni economiche individuali, e perché no individualistiche, che superano i molti casi la soluzione solidaristica.
Chi ha vissuto il passaggio dal disastroso dopo-guerra italiano alla tranquillità attuale (crisi in corso a parte) ha certamente avvertito con forza il mutamento socio-economico dal Solidarismo all’individualismo, e sente la mancanza di quella rete di rapporti umani che, come visto economicamente sopra, forniva calore e sicurezza. Di solito questo diventa un rimpianto, una nostalgia, oppure una proposta politica (si pensi al “valore della convivialità” sostenuto da Latouche), ma perché ne è ricordato l’aspetto esteriore e nostalgico, l’aspetto “valoriale” etico e magari personale, e non le ragioni d’essere oggettive. Voler che l’economia e la società volgano al Solidarismo perché “etico” è come voler alzare per decreto gli stipendi perché “etico” (l’etica di “tutti con il mega-televisore-stellare-iperpiatto” magari) senza guardare le cause e le coerenti ragioni del loro livello attuale, con tutto quel che segue in termini di disequilibri insostenibili.
L’attuale “individualismo” è probabilmente una condizione nella maggior parte dei casi ottimale rispetto al generale Solidarismo dato il corrente momento storico, il che non vieta che in alcuni casi più specifici circoli più ristretti di persone possano dar vita a ambienti “solidali” con riferimento ad alcune precise attività; d’altra parte alla base c’è sempre un calcolo individuale (quanto rischio – quanto ricavo) ed è sempre una libera scelta individuale il partecipare o meno ad un ambito solidaristico: nessuno lo vieta, quindi se va in disuso deve essere per la attuale mancanza della sua convenienza. L’errore sta nella generalizzazione della Solidarietà, nel “benaltrismo”, e nella sua tendenziale confusione con l’equalitarismo.
La lotta dei sostenitori della Solidarietà come “valore fondamentale” è viziata in partenza, perché in un ambito “libero” nessuno prima imponeva la Solidarietà come nessuno dopo ha imposto l’individualismo, e siccome è il bisogno che comanda la scelta, se le condizioni non cambiano non cambierà la scelta; questo a meno che non riescano ad imporre politicamente certe scelte, nel qual caso forzerebbero verso assetti sub-ottimali con danno per tutti.
Ma il problema fondamentale dei sostenitori della Solidarietà come “valore fondamentale” è che stravolgono la logica: la Solidarietà è un risultato economicamente giustificato; il fatto che a qualcuno piaccia tale assetto per motivi romantici (nella brutta accezione sentimentalistica del termine) comporta che la Solidarietà diventi un “valore” (individuale, e non generale), ma questo non rovescia i nessi causali. Non c’è etica senza fatti a motivarla, e i fatti restano, che li giudichiamo o meno.
Una cosa è l’economia, una cosa è il wishful thinking. Per il primo lasciatemi la libertà, per il secondo chiedete a Babbo Natale.
La solidarietà è un valore etico: se diventa un dovere giuridico, non lo è più.