E se a salvare i nostri conti pubblici ci pensasse il patrimonio culturale?
Antonio Leo Tarasco è un giurista a cui piace far di conto. Dirigente del Mibac e docente di legislazione dei beni culturali, ha di recente pubblicato un libro per Laterza: Diritto e gestione del patrimonio culturale. Un testo di grande utilità, pieno di cifre che raccontano di un patrimonio italiano vasto e poco redditizio, e che muove da un approccio poco ortodosso. Tarasco, come invece è d’uso fra i nostri commentatori ed esperti, non crede che i musei italiani debbano essere solamente una fonte di spesa, bensì che possano generare importanti ricavi e che sia pertanto possibile creare una sintesi «tra le esigenze, irrinunciabili, di promozione della persona umana per mezzo della cultura (art. 9 Cost.) e di rispetto dei valori, ugualmente irrinunciabili, di buon andamento, sostenibilità del debito pubblico ed equilibrio dei bilanci (art. 97 Cost.)».
Considerata la difficoltà di reperire dati, per un sistema che conta migliaia di musei fra pubblici e privati, la cui proprietà è suddivisa ulteriormente fra più soggetti , l’autore si concentra sugli istituti statali afferenti al Mibac. Centinaia fra musei e aree archeologiche, tra cui anche i nostri principali attrattori: Colosseo, Pompei, Uffizi, ecc. Si tratta di soggetti di proprietà pubblica, inalienabili, con ingenti costi legati alla loro conservazione e valorizzazione, ma che in alcuni casi costituiscono dei “marchi” conosciuti in tutto il mondo. Come vogliamo che siano gestiti?
Per rispondere a questa domanda occorre prima di tutto dotarsi dei numeri sul loro andamento e poi chiedersi quali obiettivi si vuole che vengano raggiunti. Parrebbe semplice buonsenso pensare che il lato economico-finanziario della gestione debba avere una sua importanza, invece – come fa notare Tarasco –, «il patrimonio culturale è stato così “spiritualizzato” fino a obliterarne completamente il rilievo economico e nascondere la necessità che costi e ricavi, anche in tale pur nobile settore, debbano tendere all’equilibrio». Anche perché le strade sono due: o sono i contribuenti a pagare per dare risorse ai musei oppure sono questi ultimi che cercano il più possibile di autosostenersi coi ricavi propri. La terza via sarebbe l’ulteriore indebitamento dello Stato, che però (per fortuna) per noi non è più praticabile e che per giunta presenterebbe problemi di equità fra le generazioni, essendo anch’esso (il debito) una forma di tassazione differita nel tempo.
I ricavi da biglietteria rappresentano oggi in media circa il 90% del totale delle entrate museali. Per questo è paradossale ogni dibattito che vorrebbe la piena gratuità d’accesso (ma in un Paese in cui il patrimonio è stato “spiritualizzato” può accadere anche questo, con nutrite legioni di sostenitori del libero ingresso nei musei di Stato). Ogni altra fonte di entrata è marginale, con poche eccezioni. Come si ricava dai dati pubblicati nel libro e per la prima volta accessibili al pubblico, a dispetto della mole di pubblicazioni sul tema, il prestito delle opere è tendenzialmente gratuito. Le sponsorizzazioni sono state quasi nulle fino al 2016, mentre dall’anno successivo si è invertita un poco la tendenza, ma stiamo pur sempre parlando dello 0,63% del totale degli introiti lordi. Risultati che sono poi raddoppiati nel 2018 ma con una forte concentrazione in pochi e noti istituti museali e aree archeologiche. Capitolo donazioni: se con l’art bonus dal 2015 al 31 dicembre 2018 sono stati donati complessivamente più di 300 milioni di euro, ai musei statali è stato destinato lo 0,7% del totale raccolto, con il paradosso che i costi amministrativi dell’operazione art bonus hanno superato i benefici economici avuti dagli istituti del Mibac. Infine, per completare il desolante quadro, va aggiunto che i nostri siti culturali ricavano poco o nulla dalle riproduzioni di immagini e dalle concessioni di spazi.
Dopo questa spietata analisi, giuridica ed economica al tempo stesso, Tarasco prova a misurare il valore del patrimonio culturale pubblico e a individuare indicatori di redditività e di performance economica. Con tutte le cautele del caso, le approssimazioni dovute alla difficoltà di produrre tali stime e le inevitabili semplificazioni, se si arrivasse per i musei statali ad un indice di redditività del 5,5% (che è il tasso medio rilevato da Mediobanca nel 2017 per le aziende pubbliche) ne deriverebbero ricavi pari allo 0,6% del PIL: «Se generato, esso avrebbe consentito, nel 2017, di ridurre il rapporto deficit pubblico/PIL dal 2,3% all’1,8%; e il rapporto debito pubblico/PIL dal 131,8% del PIL al 131,2%». Margini di crescita del rendimento del nostro patrimonio culturale quindi ce ne sarebbero, e anche parecchi. A beneficio non solo dei beni culturali ma anche della salute dei conti pubblici.
Per andare in questa direzione è utile una riflessione sulle regole e sulle forme di gestione, soprattutto alla luce della trattazione separata che l’autore fa tra musei-organi e musei-enti, intendendo con questi ultimi quei musei istituiti con leggi ad hoc che hanno dato vita, ad esempio, a fondazioni autonome di diritto privato, come il Museo Egizio e Venaria Reale di Torino: «Non solo questi riescono a ricavare dai visitatori degli utili nettamente superiori (in percentuale) rispetto a quanto riescono a fare i musei-organi del Mibac, ma in tali soggetti giuridici cresce notevolmente la capacità di sviluppare introiti a partire da voci diverse e ulteriori rispetto alla semplice biglietteria». Un altro caso virtuoso da richiamare, non affrontato nel libro che – come detto – approfondisce “solamente” la galassia dei musei statali, è quello dei Musei Civici di Venezia, viceversa analizzato sempre da Tarasco, nell’ormai lontano 2006, nel volume La redditività del patrimonio culturale (Giappichelli). Anche in tale frangente si tratta di una fondazione di diritto privato che gestisce undici musei cittadini, capace di autosostenersi con proventi propri.
La strada da seguire sarebbe pertanto quella dell’autonomia organizzativa e della pluralità dei modelli gestionali da scegliersi in base ai tratti specifici della istituzione stessa e del territorio su cui risiede: una considerazione, questa, che esce rafforzata dai numeri e dall’analisi prodotta nel libro. Tranne rare circostanze, invece, in Italia si è scelta – soprattutto per i musei statali – una configurazione calata dall’alto, che, nonostante la recente riforma del sistema museale, sconta ancora una eccessiva rigidità.
L’approfondimento dei modelli stranieri – nel volume vengono ben trattate le situazioni presenti in Francia, Regno Unito e Stati Uniti – mostra inoltre che diverse sono le opportunità, sia in termini di scelta fra le migliori forme di gestione e fra le regole che sovrintendono il funzionamento del settore dei musei pubblici, che sul versante del buon andamento economico nella conduzione dei musei stessi.
Nella parte finale, Tarasco avanza alcune proposte, tra cui quella dell’istituzione di un’Agenzia indipendente per il patrimonio culturale, avente lo scopo della gestione dei musei statali sulla base di una missione chiara, definita, affidata dal decisore politico, cui dovrebbe essere affidato unicamente il compito di definire obiettivi di promozione culturale e valorizzazione economica. Così, pur mantenendo gli attuali musei nell’alveo della Pubblica amministrazione, si potrebbe conferire loro vera autonomia gestionale e tensione verso “l’equilibrio del bilancio”, che ad oggi manca del tutto nelle istituzioni culturali in mano pubblica. Se tale idea muove da giuste considerazioni, ossia sottrarre l’aspetto gestionale al corpaccione ministeriale e dotarlo di una sua autonomia, rischia però di perpetuare una visione unidimensionale e uniforme delle modalità con cui si potrebbero organizzare le singole istituzioni museali, precludendo loro la facoltà di “autodeterminarsi”.