E’ difficile decidere
Secondo l’economista Richard Koo, il Giappone non è entrato in depressione negli anni Novanta, ma ha soltanto sperimentato una crescita nulla, perché aveva capito dov’era il problema. Possiamo, con linguaggio colorito, chiamare il problema lo «sciopero del debitore». In altre parole, nessuno in Giappone voleva del credito, qualunque fosse il tasso d’interesse praticato, perché doveva rendere il troppo debito che aveva cumulato.
Nel caso giapponese erano le imprese non finanziarie a non volere il credito, e se nessuno vuole il credito l’economia non funziona. In questo caso, non sono i tassi, per quanto bassi, che possono ravvivare la richiesta di credito. La politica monetaria dunque è spiazzata. Resta la spesa pubblica per salvare le cose. La s’incrementa fino ad assorbire la riduzione di quella privata. I finanziamenti che andavano al settore privato ora vanno a quello pubblico. Il fabbisogno finanziario dello Stato non spinge al rialzo i rendimenti delle obbligazioni, perché il settore privato non chiede più, fin tanto che deve ridurre il proprio debito, capitali al mercato.
Secondo Koo, basta sostituire al settore delle imprese giapponesi quello delle famiglie americane per capire la situazione statunitense. Koo sostiene che non bisogna tentare di ridurre il deficit pubblico fino a quando non si è sicuri che l’economia torni a chiedere credito. Se si cerca di controllare prima del tempo il deficit pubblico, contando – o sperando – che al minor credito chiesto dal settore pubblico corrisponda automaticamente un maggior credito chiesto dal settore privato, si rischia di peggiorare le cose – proprio come avvenne in Giappone nel 1997 e nel 2001.
La scelta degli europei (si vedrà poi che le posizioni sono più sfumate) e degli statunitensi oggi è – sempre secondo Koo – quella di lasciar correre il debito pubblico per evitare la depressione. L’alternativa, ossia portare sotto controllo il debito pubblico qui e ora per evitare che «scappi di mano», rischia di peggiorare le cose. Secondo Koo, il bilancio pubblico va portato sotto controllo solo quando si è sicuri che è ripartita la domanda di credito del settore privato. Allo stato le imprese e le famiglie non sono tornate a chiedere credito né in Europa né negli Stati Uniti.
Come si vede, viviamo in tempi di decisioni difficili. Per chiarire che non si tratta di «accademia»: la decisione tedesca di portare in pareggio il bilancio pubblico nel 2016 sembra una mossa nella direzione sbagliata, soprattutto se l’economia mondiale stenta a crescere e quella dei paesi europei minori indebitati, acquirenti di merci tedesche, entra in recessione per portare sotto controllo il debito pubblico. Per chiarire che non si tratta di «accademia»: prima della crisi i redditi delle famiglie statunitensi non dipendevano dai trasferimenti pubblici, mentre dal 2009 i redditi delle famiglie senza l’ARRA (=American Recovery and Reinvestment Act) sarebbero stati appena più della metà di quanto non siano stati effettivamente. Dunque la tenuta dei consumi è dipesa in maniera cruciale dalla politica fiscale. Prima di asserire che le cose stanno andando meglio, che «sta tornando in pista il consumatore», bisognerebbe sapere se la ripresa potrà o meno andare avanti senza il sostegno pubblico.
Se si lascia correre il debito pubblico, poi bisognerà aggiustare le cose e congelare per anni il tasso di crescita. Se lo si ferma qui ed ora, si rischia l’avvitamento. Quale sarà la scelta? Quella giapponese è stata – anni fa – di lasciar andare il debito. Quella statunitense sembra ancora quella di lasciar andare il debito. Quella tedesca sembra quella di volerlo fermare. Si noti che il problema del debito pubblico non emerge appieno, esso sembra un problema astratto, perché i rendimenti richiesti per sottoscriverlo (con l’eccezione della Grecia) sono ancora bassi.
Il fatto che non esista una teoria dell’investimento vera e propria (una teoria cioè di quali ragioni microeconomiche spingano ad investire) rende difficile se non impossibile l’analisi macroeconomica di situazioni com quelle giapponesi.
Tutti i paper sulla situazione giapponese, in genere new-keynesiani, PARTONO dal presupposto che il tasso reale di interesse sia non solo negativo ma persistentemente negativo, o perlomeno così basso che basta una deflazione die prezzi miserrima (-0.5%/y) per fermare gli investimenti. Partendo da questa assunzione, fanno un po’ d’algebra e danno consigli di policy.
L’elasticità della domanda di investimento è però la risultante dei differenziali di prezzi tra beni finali e beni di produzione, nel senso che la domanda è forte quando i profitti lordi sono elevati. Si può quindi concepire una domanda di investimenti inelastica soltanto se si ritiene che i beni di produzione siano sopravvalutati rispetto a quelli finali, in modo da annullare il rendimento (c’è un po’ di noia da aggiungere tipo il rischio, ma poco cambia).
Ne risulta anche che un’economia può tornare a crescere semplicemente svalutando i beni produttivi rispetto a quelli finali. Siccome nei boom i primi si sopravvalutano, è normale che un boom lungo (Giappone 1950-1989) finanziato da follie creditizie (Giappone post Plaza Accord: 1982) finisca in una stagnazione.
Ovviamente si può creare inflazione e generare tassi di profitto reali positivi, ma questo non è possibile quando il sistema finanziario è broke, come quello giapponese e quello attuale americano.
Non serve a niente né la politica fiscale né quella monetaria: basta un po’ di recessione e tutto si mette a posto. Purtroppo il Giappone ha provato il New Deal e si ritrova con un debito mostruoso e nonostante ciò con gli stessi problemi da 20 anni…
Solo il governo può creare un problema così grande e solo il governo può renderlo eterno…
Il Giappone, chiuso nel suo feudalesimo industriale è, secondo il mio sillabante pensiero, uno dei pochi casi di stato doppiamente socialista nel senso austriaco del termine.
Si somma il socialismo di stato con un socialismo imprenditoriale.
Spero che qualche cosa sia cambiato, ma l’impresa in giappone è totalizzante e per cultura i giapponesi sono fedeli alla causa imprenditoriale fino alle estreme conseguenze.
Tutto è gerarchicamente organizzato ed i meriti individuali vengono riconosciuti, nulla da eccepire, ma l’abdicazione della capacità imprenditoriale individuale in favore dei fini superiori e collettivi di mamma impresa danno al lavoratore nipponico la stessa libertà che gode un’ape operaia in un alveare. Questo sistema rende impossibile il calcolo economico per rinuncia ed annienta la diffusione e l’allenamento della perspicacia imprenditoriale nonostante la abbondante disponibilità di moneta.
Le catene distributive sono complesse di dimensioni considerevoli e spesso di proprietà di gruppi industriali talmente verticalizzati e contemporaneamente orrizzontalizzati da occuparsi di tutto e di tutti. Con il licenziamento un giapponese sprofonda non solo nella miseria economica ma anche nella miseria dell’emarginazione sociale.
Manca la biodiversità sia nella numero sia nella dimensione delle imprese.
Il ciclo economico e la teoria austriaca del capitale può spiegare anche il caso Giappone partendo dall’analisi sempre delle azioni umane.
Il Giappone è un grande paese. Il Giappone è un grande alveare socialista a sua insaputa e nonostante la presenza di tutti gli istituti di una economia avanzata.
mario fuoricasa