18
Gen
2010

Due visioni del mercato

Il precedente post di Giannino apre una serie di questioni fondamentali su cui probabilmente tornerò una volta letto Ahdieh: per il momento mi limiterò a riflettere sul rapporto tra la visione walrasiana dei mercati e quella austriaca. Il legame, tenue, è che entrambe le visioni sono totalmente individualistiche, anche se con profonde differenze, e le differenze interessanti sul piano della visione walrasiana vs visione mengeriana del mercato sono molto importanti.

Solita premessa: l’idealtipo neoclassico non esiste, esiste una retorica neoclassica e soprattutto un modo neoclassico di insegnare l’economia che fa perdere di vista alcuni temi fondamentali in nome di determinati errori teorici e metodologici. Il perfettismo traspare nelle interviste a Fama o nelle equazioni di Prescott, nei testi di Sargent o nei ragionamenti di Becker, però nessuno rispetta perfettamente la parte. L’idealtipo neoclassico, come tutti gli idealtipi, è una forzatura sociologica.

Nell’economia standard (equilibrio generale walrasiano) l’agente ha una razionalità illimitata e ha in mente una struttura completa (in genere descritta probabilisticamente) del mondo che lo circonda. La sua immagine dell’universo coincide con l’universo stesso, non c’è incertezza ma solo rischio, non c’è errore ma solo correzioni a posteriori dovute all’arrivo di nuova informazione, non c’è mancata coordinazione ma solo un aggiustamento ottimale a fenomeni che sono sempre e comunque reali. Ovviamente esistono modelli di fallimento di mercato, ma i modelli sopra descritti sono la base della visione del mondo dei “liberisti”. Ripeto: sarebbe una forzatura dire che questa è la Scuola di Chicago: gli scritti di Friedman o Phelps non mostrano nulla di questo perfettismo (al contrario, la tradizione più formalistica, per non dire manieristica, è più tipica di certi neokeynesiani). Però le equazioni formali dicono questo, e a questo punto tanto vale prenderle alla lettera e vedere l’effetto che fa.

Nell’economia austriaca ci sono agenti eterogenei con razionalità limitata, che si fanno un’idea del resto del mondo grazie al sistema dei prezzi, e cercano di coordinarsi attraverso di esso usando la propria informazione privata. Ogni novità genera un cambiamento, e lo sfruttamento delle opportunità di profitto e la rimozione delle perdite fa sì che gli imprenditori pian piano riescano a coordinarsi. Esistono gli errori, ovviamente, ed esiste anche almeno un meccanismo sistematico di creazione di errori, la manipolazione del tasso di interesse e del premio del rischio (moral hazard) che fa sì che gli imprenditori siano preda di esternalità sistematiche che portano a risultati imbarazzanti. Il mercato austriaco non è mai all’equilibrio finale, perché la coordinazione richiede tempo (richiede sia movimenti dei prezzi che movimenti delle risorse reali): esistono sempre opportunità di mutuo vantaggio dalla divisione del lavoro ed esistono problemi organizzativi (costi di transazione) che occorre minimizzare in modo da garantire che i vantaggi potenziali della divisione del lavoro siano realizzati al meglio.

Nel modello neoclassico tutto ciò manca. Una delle conseguenze è che non c’è alcun motivo a priori per credere che un politico ben intenzionato possa amministrare l’economia dall’alto. Se veramente ogni agente è massimizzante in quel modo, allora non esiste il problema del calcolo economico di cui parlavano Mises e Hayek. In un mondo dove l’equilibrio walrasiano non è una curiosità intellettuale ma una realtà, non c’è motivo di credere che la pianificazione centralizzata dell’economia sia impossibile. Esistono solo problemi di incentivi, ma i problemi di questo tipo si possono risolvere, magari disegnando qualche “meccanismo”.

In un modello del genere non c’è neanche bisogno della moneta e dei prezzi come strumento di coordinazione (la moneta è neutrale salvo trucchi modellistici ad hoc): l’economia monetaria walrasiana è superflua, perché ogni merce può essere unità di conto, e non c’è veramente bisogno di mezzi di scambio, e manipolare la moneta non ha alcun effetto. L’economia monetaria cerca di spiegare una cosa che per le sue stesse assunzioni è inutile attraverso ipotesi ad hoc riguardo le transazioni o l’utilità della moneta. Poi la Fed fa un disastro e nessuno sa perché: che sorpresa.

La visione dell’economia che viene fuori prendendo alla lettera i modelli walrasiani è poco adeguata a trattare fenomeni come la moneta o capire problemi come la pianificazione economica. Gli agenti dovrebbero essere onniscienti prima ancora di iniziare gli scambi, oppure il banditore walrasiano dovrebbe coordinare gli agenti prima che inizino gli scambi. Senza questo deus ex machina esistono solo scambi di non-equilibrio, e questi porteranno ad una dinamica diversa (come in “The complexity of exchange” di Axtell: wealth effects, path dependency…). Il sistema walrasiano è possibile solo se si conosce l’esito finale del mercato prima di iniziare ad operare sul mercato, errore su cui gli austriaci (si pensi a “Economics & Knowledge” di Hayek) hanno detto moltissime cose fondamentali.

La matematica è una tecnica di trasformazione di tautologie. L’economia walrasiana parte dalla tautologia che esseri onniscienti riusciranno a coordinarsi in maniera efficiente. L’economia keynesiana parte dalla tautologia che se i prezzi non si muovono allora dovranno muoversi le quantità reali (i neokeynesiani sono diventati sofisticati, abbastanza da chiamare i NAS, direbbe Frankie Hi-NRG, ma l’idea è rimasta fondamentalmente la stessa), a meno che un governo onnipotente, onnisciente, infinitamente buono e misericordioso (Nirvana fallacy, si direbbe) non governi la domanda aggregata.

L’economia walrasiana ha superato la sua utilità: esistono fenomeni che si possono comprendere assumendo che certi problemi non esistono, che la moneta è superflua e che gli agenti sanno tutto ciò che è rilevante, ma usare una teoria così limitata e specifica per capire ogni fenomeno economico non ha granché senso, a meno che non viviamo veramente in un mondo walrasiano, cosa del tutto assurda.

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7 Responses

  1. Pietro Monsurrò

    OT. Ho visto il sondaggio della TAV: Penso che se tutte le politiche fossero pubblicizzate così, gli elettori voterebbero sempre no. L’illusione di vivere a spese degli altri sparirebbe e la politica dovrebbe ammettere di essere un gioco a somma negativa. Fantastico. 🙂

  2. Per quanto rigurda il sondaggio della TAV faccio presente che molti di noi possono fare degli investimenti a debito se si pensa o si riesce a capire il beneficio su tale investimento, come al solito bisogna capire il valore del beneficio.
    Personalmente, non avendo sufficienti dati e tempo a disposizione per una analisi più approfondita, preferirei investire in trasporti su rotaia che su gomma, se sono a perdere non investirei su alcuno.
    Potendo anche scegliere farei anch un bel sondaggio sul ponte dello stretto di messina rispetto alla TAV.

  3. Luciano Pontiroli

    I commenti che precedono si riferiscono a qualche altro scritto, mi pare. Non c’è nessuno che controlli il funzionamento del sistema?

  4. Pietro M.

    Il commento uno è un off topic dell’autore al suo stesso articolo, non un errore di sistema. 🙂

  5. Eccezionale articolo che spiega in modo ordinato quanto ho cominciato io a pensare, disordinatamente e non organicamente, sui modelli economici che mi hanno insegnato all’università: la supposizione che tutti siano perfettamente razionali è la cavolata più grossa che abbiano inventato gli economisti dei tempi recenti, forse sullo stesso piano dell’ “homo sovieticus”/stakanovista dei teorici del socialismo reale e del “comunismo realizzato”.
    Entrambe prescindono da una cosa fondamentale: le caratteristiche intrinseche dell’uomo, che per natura sbaglia, si corregge, sbaglia ancora, è affetto da pigrizia e non è quasi mai capace (o desideroso) di prendere la decisione “tecnicamente migliore” per sé.
    Un esempio è dato dalle possibilità di lavorare all’estero o fuori dalla sua città/paese: in molti casi si guadagnerebbe di più e quindi, se uno fosse “perfettamente razionale”, dovrebbe buttarcisi a bomba; spesso invece uno preferisce un lavoro più comodo, ma meno retribuito, alla faccia della razionalità!

  6. Pietro M.

    Sul piano austriaco non c’è nulla di irrazionale nell’avere preferenze soggettive riguardo lo stare o meno all’estero: non contano solo i soldi. E’ impossibile dare un giudizio di irrazionalità ad una cosa solo in base al valore monetario delle scelte.

    Per quanto riguarda la razionalità neoclassica, io ho una visione diciamo a matrioska della teoria economica. Esistono casi in cui si possono trascurare determinati fattori: nel lungo termine posso trascurare il disequilibrio e l’irrazionalità, ad esempio, e fare una teoria dell’equilibrio generale walrasiana, magari per studiare l’effetto della tassazione del lavoro sul tasso di risparmio all’equilibrio. D’altra parte, esistono casi in cui assumere via un problema è un problema perché ciò che è assunto via è parte integrante del problema da analizzare: e così è del tutto sterile usare la costruzione dell’equilibrio generale in un’analisi dinamica di breve-medio termine, perché non è neanche concepibile che una tale dinamica possa essere ottenuta. Quindi l’homo oeconomicus è un caso particolare, adeguato per certi fini ma non altri, di una teoria economica più generale.

  7. Silvano_IHC

    Hai perfettamente ragione: estremizzando, raggiunto uno stato di equilibrio da attori completamente onniscenti anche il comunismo diventa razionalmente ammissibile e lo stesso concetto di libero mercato un non sense o meglio un’espressione vuota.

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