Dove finisce lo Stato? Ce lo spiegano tre libri
In questi giorni il catalogo della IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni che a breve festeggerà il suo primo compleanno, si arricchisce di due nuovi volumi. In linea con un filone tematico da sempre indagato con attenzione, i due saggi in questione vertono sulle alternative alla produzione di beni e servizi da parte dello Stato, attraverso reti decentrate, comunità contrattuali e associazioni volontarie.
Per la collana Mercato, Diritto e Libertà, è fresco di stampa Beni pubblici e comunità private, di Fred Foldvary, docente di economia presso la Santa Clara University in California, il cui solo sottotitolo – Come il mercato può gestire i servizi pubblici – è già in grado di anticipare al lettore il contenuto del lavoro.
«La tesi centrale del libro – spiega nella sua prefazione Stefano Moroni, già da tempo prezioso riferimento per l’IBL in tema di pianificazione e regolamentazione urbanistica, come in occasione del ciclo di seminari dal titolo La città rende liberi – è che la teoria tradizionale dei beni pubblici trovi un’applicazione assai più limitata di quanto generalmente presupposto. Le comunità contrattuali sono l’esempio lampante di come numerosi “beni” spesso e a torto ritenuti “pubblici” nel significato ortodosso – ad esempio, strade, piazze, parchi, illuminazione degli spazi comuni, raccolta dei rifiuti, ecc. – possano essere invece perfettamente forniti da strutture private».
Il lavoro, che si snoda in quattordici capitoli è idealmente diviso in una prima parte teorica – in cui si offre una robusta critica alla teoria dei presunti fallimenti del mercato, un’indagine accurata sui beni territoriali collettivi, la governance su base volontaristica per arrivare alla spiegazione di cosa sono e come funzionano i “club territoriali” e le “comunità di proprietà e associazioni di comunità” – e una seconda parte più empirica, in cui si ripercorrono i casi di fortunata applicazione degli schemi spiegati partendo da Walt Disney World (un classico, per chi si occupa di questi temi) per arrivare alla città di St. Louis, senza tralasciare il caso di Arden e i suoi “land trust”, dei condomini di Fort Ellsworthe della Reston Association, un altro case study di grande interesse.
Per la collana Policy, il nuovo titolo è Governare con la rete e, anche in questo caso, l’efficace sottotitolo scelto per l’edizione italiana – Per un nuovo modello di Pubblica amministrazione – riassume sinteticamente le ambizioni del testo, la cui uscita è accompagnata dai buoni auspici del Ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta, il quale nella sua prefazione all’edizione si augura «che il volume costituisca uno strumento di crescita complessiva nel rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione».
Il libro è scritto a quattro mani da Stephen Goldsmith, ex sindaco di Indianapolis, e William D. Eggers, stimato esperto in materia di pubblica amministrazione, e direttore della Deloitte Research. Goldsmith spiega a fondo quella stessa «rete di partnership, appalti e alleanze» con cui, rinnovando la pubblica amministrazione, ha potuto far rinascere una città, fornendo servizi migliori e a minor costo, recuperando e creando nuovi spazi e infrastrutture il tutto senza chiedere un dollaro in più ai cittadini, ma anzi, dimostrando concretamente la possibilità di quantificazione del “guadagno” derivante da una pubblica amministrazione che sia appoggia al privato e ai mercati con ben quattro riduzioni delle imposte.
Il saggio – che nonostante la complessità del tema è scritto e tradotto in modo da rendere agevole la comprensione anche al neofita, senza per questo rinunciare a un rigoroso tenore scientifico – vede i suoi otto capitoli divisi in due parti. I primi tre spiegano «la nascita della gestione con la rete», gli ultimi cinque spiegano come avvalersene al meglio, trovando il modo di avvalersi di ogni informazione e potenzialità dispersa, e trattando in profondità il tema della responsabilità del proprio operato e l’importanza della formazione del capitale umano, perché tutto questo sia possibile.
Inoltre, è già da qualche giorno in libreria La città volontaria, una raccolta di saggi curata da David T. Beito, Peter Gordon, Alexander Tabarrok (in questo caso l’editore è ancora Rubbettino/Leonardo Facco) a cui hanno collaborato, fra gli altri, anche James Tooley e ancora Foldvary.
«Un libro interessante, che metterà alla prova chi ritiene che lo Stato sia la risposta alla maggior parte dei bisogni della società», scrive Vito Tanzi nella prefazione, in cui sottolinea come il tema del free riding (secondo cui i beni “pubblici” devono essere necessariamente prodotti dallo Stato e finanziati con la tassazione dati gli asseriti caratteri di “non rivalità” e “non escludibilità” nel consumo che contraddistinguerebbero tali beni) sia stato artatamente esacerbato dai teorici del ruolo totalizzante in ambito economico dello Stato.
Colpisce in modo particolare come la produzione privata di beni pubblici sia stata sempre più messa in discussione, in coincidenza con l’espansione dello Stato che ha contraddistinto il Novecento, fino al punto che – fa eco lo storico Paul Johnson nella sua introduzione all’edizione originale – «il ruolo statale non è mai stato definito da alcuna ragionevole considerazione di cosa esso dovrebbe fare, quanto dalla sua capacità. Se lo stato può, quasi sempre fa».
Così, pagina dopo pagina, si ripercorrono – e si evidenzia lo schema teorico che ne ha permesso il funzionamento – i casi storici in cui istituzioni, enti e associazioni contrattuali si incaricavano di fornire legislazione (particolare attenzione è dedicata al caso classico della lex mercatoria), protezione dal crimine, assistenza sanitaria, istruzione, pianificazione urbana. Particolarmente denso il capitolo dedicato alla tradizione del mutuo soccorso delle società americane prima del ventesimo secolo.
A chiunque sia disposto ad accostarsi all’argomento senza pregiudizi, questo tris di libri offre l’occasione di approfondire e confrontarsi con tesi “controcorrente” spiegate in una maniera chiara e ragionata, attenta non fornire soluzioni che risultino troppo cervellotiche da non poter trovare applicazione nel mondo reale o, ancora meno, utopistica. Prendendo in prestito ancora le parole di Johnson, un motto ideale che unisca l’indagine tutti e tre i lavori potrebbe essere: «Ogni idea è degna di essere indagata. Il solo criterio di valutazione deve essere: Funziona? Può essere fatta funzionare?».
Ed è proprio nella convinzione che le idee spiegate in queste edizioni possano funzionare che ci farebbe piacere discuterne – perché no? – anche sulle pagine Facebook (qui Foldvary, qui Goldsmith ed Eggers), che anche in questo caso, in conformità allo spirito dei tempi, gli abbiamo voluto riservare.