Dopo la lettura di Deirdre McCloskey e Bruno Leoni— di Max Del Papa
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Max Del Papa.
I libri di Federico Rampini li ho tutti e li ho sempre letti con interesse, non sono mai noiosi e lui è indiscutibilmente notevole quando fa il cronista del mondo. In alcuni ultimi, improntati all’economia, Rampini adotta senza esitare una linea keynesiana, interventista dello Stato, e sia, è una impostazione da rispettare che lui peraltro puntella con dati di fatto, cronache recenti; in particolare illustra come, con questa leva, l’America di Obama sia uscita dalle secche di una crisi globale rimettendosi a correre. Però anche Rampini, arrivato a un certo punto del suo ragionamento, non può non riscoprirsi non tanto liberal, o liberale di sinistra, quanto liberista. Ovvero finisce per convergere con la tesi di Deirdre McCloskey: c’è troppa invadenza delle istituzioni statali e sovrastatali e, oltre un certo limite, non ha più senso parlare di libertà, neppure in forma residua, quanto se mai di moderna soggezione, per non dire oppressione.
Qui c’è da precisare un punto. “Zia Deirdre”, nel suo “I vizi degli economisti, le virtù della borghesia”, non si spinge mai, ed è un “mai” che non ammette speculazioni, un “mai” nettissimo, ad esaltare il Mercato fine a se stesso come forza taumaturgica, stregonesca. Quindi è necessario sgombrare il campo da questo equivoco, destinato a spostare una eventuale analisi sul terreno di polemiche strumentali e fuorvianti. “Zia Deirdre” dice tutt’altre cose (il libro è disponibile anche in formato ebook, ad un prezzo irrisorio), e in particolare punta il dito contro l’assurdità di una libertà in allevamento, la stessa che hanno i polli di razzolare in un’area e consumare pastone che altri, e solo altri, hanno stabilito per loro. Io non sono un pollo. E non capisco in cosa una istituzione sovrastatale come l’Europa mi abbia agevolato in questi anni coi suoi parametri deliranti e la sua mistica di una sacrificio, rectius di una sofferenza che non accetto più, perché non ne scorgo l’utilità e perché, come individuo, come cittadino, come professionista, non la merito. Chi li ha decisi, quei parametri? Così come non posso capire, e mi rifiuto di capire, la logica di una burocrazia che è da tempo una metastasi e che, inarginata (le chiacchiere non sono neppure omeopatiche), continua a crescere.
Dietro la trovata delle multe da 700 euro per chi non specifica a furia di bolli e di timbri chi guida la sua automobile, c’è solo e soltanto il proposito perverso di vessare per vessare, tassare per multare e multare per tassare. In base al solito presupposto: serve denaro allo Stato per mantenersi e per crescere ancora. È solo un esempio, la casistica è infinita. Ma, non essendo io un pollo d’allevamento, non posso accettare una simile logica. Il governo sostiene, senza vergogna, di puntare a incamerare alcune centinaia di milioni di euro da questa ennesima estorsione. Destinata dove, a cosa? A mantenere altri sprechi, altre automobili, quelle blu, esenti da ogni obbligo? Ecco, cosa sostiene zia Deirdre: che questa non è libertà, se non di subire. E l’ottimo Federico Rampini, se ne preoccupi o meno, alla fine delle sue splendide cronache economiche, partendo da posizioni liberal, sul veleno di questa foresta nera di burocrazia, che intossica di parametri esoterici, che paralizza ogni crescita, che vanifica ogni sforzo, finisce, forse suo malgrado, per convergere.
C’è, insomma, un paradosso (apparente) per il quale molti giornalisti, analisti e perfino ultimamente industriali, tutti votati al ruolo dello Stato e al suo intervento, si riscoprono di colpo scettici verso la mistica dei parametri, delle percentuali autoreferenziali, del pensiero unico dei conti in ordine; e, pur camminando sulle uova, ammettono che, sì, è ora di abbandonare certo dirigismo esoterico e restituire ossigeno all’individuo. Non arrivano al punto da rimangiarsi la loro impostazione originaria: ma questa è una impasse che dovranno risolvere loro stessi, se la loro coerenza glielo richiederà. Qui basta prendere atto di un pensiero che, mentre ha l’aria di difenderla, comincia a deviare dall’ortodossia statalista. In due parole due: si sostiene che il ruolo dello Stato deve restare centrale, però non se ne può più che resti centrale (si potrebbe anche dire, da una prospettiva inversa: si sostiene che l’individuo non può agire al di fuori del controllo dello Stato, però lo si esorta a farlo). Allora? Allora scoprite Deirdre McCloskey, e riscoprite Bruno Leoni.
Quanto a noi, che questo abbiamo fatto, ne abbiamo tratto conferme, al punto da poter dire che lo studio di Bruno Leoni non ci ha rivelato quasi niente che non sapessimo già: solo che non sapevamo di saperlo. Mi si dice, mi spiega invariabilmente che ogni intervento dello Stato è per ripristinare la giustizia sociale. Posso, io che sono sempre stato sottoprecario, che non ho mai goduto (sono famigerata partita Iva) di alcuna tutela, posso gentilmente rifiutare questa attenzione? Io, non pollo ma individuo, non credo alla giustizia sociale, men che meno di Stato. Per ragioni personali, culturali, non oso dire “filosofiche”, ma pure per volgari, meschine constatazioni private: da quando lavoro, infatti, e sono ormai 25 anni, ho inesorabilmente constatato che la giustizia sociale in effetti nasconde un ventaglio di ulteriori e irriferibili valenze, per mantenere le quali si promuove una ingiustizia sociale che tuttavia passa inosservata e si stratifica nell’accettazione. Scusate se è poco, scusate se chi non è pollo d’allevamento in questo Paese non ha mai potuto neppure provare a razzolare altrimenti che nel recinto che lo Stato ha deciso per lui. Un recinto sempre più stretto, malsano, ingiusto. E costoso.
Se si tratta di sfogarsi, e’ un conto. Altrimenti sembra solo che vi sia troppa carne al fuoco per poi arrivare, come al solito, a che ve ne sia troppo poca, e sempre la solita.
Da piu’ di trent’anni , e prima dell’Inghilterra proprio a partire dall’Italia, oramai lo statalismo e’ il nemico numero uno. E non nelle quisquiglie delle multe, ma nella struttura economica di fondo, e cioe’ nella proprieta’ privata dei mezzi di produzione. Sono piu’ di trent’anni che gli Stati nazionali vengono depauperati in nome di sovrannazionalita’ moralmente piu’ alte e nel nome del piu’ equipaggiato mercato globalizzato delle multinazionali . E tutto andrebbe bene se non fosse che questo nuovo, presunto, liberismo non avesse riprodotto esattamente la stessa catastrofe degli anni 20, una crisi di sovrapproduzione. Non c’e’ piu’ lavoro, e soprattutto per i giovani, non per colpa degli stati, che non contano piu’ un cavolo, e da un bel pezzo, ma perche’ l’attuale struttura economica globalizzata non funziona, e in maniera alquanto vistosa.
A Canossa gli Enrichi Quinti fanno la fila sol perche’ sperano che gli si risolva il rebus disperato, ma cosa mai puo’ dare piu’ la vacca munta dello Stato e’ un mistero piu’ fitto di quello di Fatima.
A me uno stato che mi preleva il 50% del mio reddito per spenderlo con criteri spesso oscuri e imperscrutabili e mi dice come devo spendere il rimanente 50% sembra che conti ancora qualcosa, no? Non voglio che mi dia niente, mi basta prenda un po’ di meno; più che vacca sembra un vorace Minotauro.
La UE, con un bilancio, in gran parte riversato direttamente agli Stati mediante i fondi regionali e la politica agricola al confronto seùra piuttosto una zanzara. Quanto ai parametri, deliranti o meno, la UE è solo uno specchio che riflette i voleri degli stessi stati, un grammofono che ripete “la voce del padrone”: quando i politici nazionali non hanno il coraggio o la voglia di porre rimedio agli sprechi che essi stesso hanno deciso e eseguito, se lo fanno imporre dalla UE, in modo da non assumersene la responsabità politica: “Camilla, rimetti in ordina la tua camera, è l’Europa che ce lo chiede – Pierino lavati anche dietro le orecchie, lo prescrivono i parametri europei”.