6
Gen
2022

Don’t look up

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Cesare Giussani

Si fa un gran parlare di Don’t look up, film prodotto e diretto da Adam McKay. La pellicola narra della scoperta da parte di due astronomi di una cometa in corsa verso la terra, in grado di annientare l’umanità alla scadenza di sei mesi. La drammaticità della scoperta viene sottovalutata da una opinione pubblica ormai interessata solo  ad avvenimenti fatui  e nascosta dai politici che temono ripercussioni negative in sede elettorale. Quando poi i responsabili politici decidono per l’intervento, consistente in un bombardamento del meteorite con razzi che ne facciano deviare la traiettoria, l’operazione viene fermata dalla lobby dell’industria tecnologica, che persegue l’obiettivo di frantumare la cometa così da poterne  recuperare il contenuto una volta caduto a pezzi sul nostro pianeta.

La cometa risulta infatti  costituita da materiali utili per i cellulari, le batterie e i sistemi informatici in quantità tale da risolvere il problema dell’approvvigionamento di tali materiali, al momento quasi esauriti. La lobby, che vede in prospettiva grandi profitti, presenta la soluzione da essa imposta come tale da arricchire l’umanità e da consentire l’eliminazione della povertà nel mondo.

Mi sembra che l’obiettivo dichiarato dalla lobby di trovare una ricchezza, in questo caso nel cosmo, da distribuire nel mondo in modo da rendere la vita di tutti più equa assomigli al tema posto quotidianamente dagli economisti: c’è una ricchezza concentrata e dobbiamo togliere questa concentrazione di ricchezza dalle mani di Bill Gates e compagni e consentire così il miglioramento egalitario delle condizioni di tutti gli abitanti nel pianeta. Nessuno però dice che la ricchezza di Bill Gates e compagni è costituita da asset finanziari che sono la attualizzazione dei profitti futuri generati dalla tecnologia e dai brevetti  in loro possesso, tutte cose che non si mangiano e non si abitano.

Se, per semplificare, consideriamo la ricchezza del mondo come costituita da quattro componenti: case, animali commestibili, vegetali commestibili e telefonini, per risolvere il problema della fame è necessario produrre case e prodotti da mangiare, non distribuire proprietà di telefoni cellulari. Un po’ meno falsa è la soluzione prospettata dai cattivi del film: con maggiori disponibilità di litio e altri minerali sofisticati  si possono alimentare le batterie e, anche se indirettamente, cambiare le sorti dei poveri rendendo più agevole la produzione dei beni necessari alla sopravvivenza.

Se la ricchezza complessiva è una torta con le quattro componenti citate, non è indifferente quale delle componenti cresce; certo che se crescono i telefonini il benessere dell’Africa e del Bangladesh non cambia molto. Il problema è semmai un altro: come aumentare le diverse componenti del prodotto (o della ricchezza) senza causare un aumento dell’inquinamento. Gli animali domestici e l’energia per gestirci e costruire inquinano, quindi occorrono scelte e sacrifici. Non ultime quelle sul numero degli abitanti: un conto è l’inquinamento prodotto dai consumi di un miliardo di esseri umani un secolo fa, un conto è quello di 8 miliardi di esseri di oggi.

Ne dovremmo concludere che, da un lato, non possiamo ostacolare  troppo la denatalità, dall’altro, che dobbiamo fare in modo di creare una produzione di beni che migliorino in modo diffuso le condizioni di vita con tecnologie non inquinanti, rispolverando ove possibile il nucleare e rinunciando alla pretesa di salvaguardare ad ogni costo bellezze ambientali (queste in certi casi dovranno subire ad esempio la presenza delle pale eoliche). In tale prospettiva,  anche i cattivi del film potevano trarre qualche giustificazione alla loro posizione, purché questa si traducesse in beni utili e non nei risultati fittizi che l’oro delle colonie portò secoli addietro alla Spagna, facendo credere che fosse ricchezza quella che alla fine era inflazione o consumo transitorio.

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