Distribuzione locale gas: se il decreto liberalizzazioni protegge gli incumbent pubblici
Con la conversione in legge del decreto “cresci Italia“, anche la distribuzione locale del gas può trovare un assetto compatibile con le regole della concorrenza o, viceversa, potrebbe riprecipitare in un contesto di fatto monopolistico. Lo sapremo tra pochi giorni, quando il Senato avrà deciso se votare a favore o contro gli emendamenti presentati dal senatore Nicola Latorre e altri e dal senatore Enrico Musso e altri, che consentirebbero di bandire gare anche per “sub ambiti”.
La distribuzione locale del gas è un “monopolio tecnico”, nel senso che non sarebbe fisicamente possibile, o economicamente sensato, “duplicare” tubi e stazioni di compressione per creare concorrenza tra infrastrutture diverse. Di conseguenza, per impedire che il gestore possa approfittare di questa condizione per estrarre una rendita monopolistica, si assegna al regolatore (l’Autorità per l’energia) il compito di determinare le tariffe e fissare gli standard minimi per la qualità del servizio, oltre a produrre tutte le norme tecniche di cui c’è bisogno. Nello svolgere questo compito, il regolatore si trova però in una situazione di asimmetria informativa: egli non può veramente sapere quali siano i costi di gestione e investimento, specie in un business così legato a variabili locali (come la morfologia del territorio). L’asimmetria informativa può essere superata “costringendo” il gestore a “rivelare” i suoi costi. Questo processo, chiamato di concorrenza per il mercato o “alla Demsetz“, presuppone che il gestore sia individuato attraverso una procedura di asta: il miglior offerente sarà quello in grado di garantire il servizio al prezzo più basso. La normativa italiana si ispira, correttamente, a questo principio: il gestore deve essere selezionato con procedure a evidenza pubblica e sulla base di bandi che sempre più convergono verso modelli standard tali da limitare l’organizzazione di meri “concorsi di bellezza”.
Ma c’è un ma. Storicamente, la distribuzione locale del gas soffre in Italia di una incredibile frammentazione, legata al fatto che ogni comune voleva controllare direttamente la propria rete. Questo era ed è ovvia fonte di enormi inefficienze. La via scelta per uscirne, sulla base di una proposta dell’Autorità per l’energia e poi attraverso il decreto ministeriale 19 gennaio 2011, è quella di imporre le aggregazioni sulla base della scelta di “ambiti” di dimensioni relativamente grandi. Poiché la frammentazione è inefficiente – questo il ragionamento – e poiché i merger non avvengono per resistenze politiche o localistiche, allora bisogna passare attraverso il letto di Procuste per arrivare a gestori che abbiano una “dimensione ottimale”.
Il ragionamento in teoria sembra filare, ma in pratica no, e non fila perché in realtà è teoricamente infondato. Sono infondate, in particolare, sia la sua premessa esplicita, sia quella esplicita. La premessa esplicita è che vi siano forti economie di scala. In realtà, l’evidenza sul punto è molto debole, nel senso che esistono chiare economie di densità (cioè i costi sono molti sensibili al numero di punti di riconsegna per metro lineare di tubo) mentre la scala (cioè il numero complessivo di punti di riconsegna gestiti) incide relativamente poco. La premessa implicita, ancora più discutibile, è che sia possibile trovare una “dimensione ottimale” buona per tutti. Questo non è proprio vero, e le ragioni sono intuitive: gestire “n mila” clienti in un contesto metropolitano è ben diverso dal gestire lo stesso numero di consumatori in un contesto rurale. C’è poi un’altra questione ancora: che senso ha affidarsi al mercato, se poi tutto viene deciso per via normativa? Perché se le tariffe sono regolate, la qualità è regolata, e la dimensione d’impresa è nei fatti regolata, cos’altro resta da decidere? Perché non risparmiarsi la noia delle gare e andare direttamente ad affidamenti inhouse?
Logica vorrebbe che le gare venissero bandite su ambiti, se non piccolissimi, relativamente piccoli, e che poi fosse il mercato a trovare (sulla base delle condizioni specifiche, delle tecnologie in uso, della regolazione di qualità e tariffaria, eccetera) la dimensione ottimale d’impresa. Aver compiuto una scelta differente, definendo un numero di ambiti relativamente ristretto (177) non può essere privo di conseguenze. In particolare, una delle conseguenze di tale decisione è particolarmente spiacevole: è prevedibile che, alzando la soglia dimensionale dell’ambito per favorire il consolidamento del settore, il consolidamento avverrà a favore dei gestori più grossi, che già oggi controllano la maggior parte dei punti di riconsegna all’interno dei nuovi grandi ambiti. Come ho sostenuto in un paper IBL e, assieme a Federico Testa, in un articolo sulla rivista Management delle utilities, e come ha mostrato Lucia Quaglino in relazione al caso piemontese, nella maggior parte degli ambiti esiste un incumbent con più della metà dei punti di riconsegna, e la larga maggioranza degli incumbent è pubblico. Ne segue che il livellamento dimensionale verso l’alto avrebbe il probabile effetto di estromettere dal mercato i newcomer privati. In quale modo ciò possa favorire la ricerca di efficienza, è un mistero.
In conclusione, c’è da sperare che gli emendamenti che consentono la nascita di subambiti vengano approvati, perché solo in questo modo si potrebbe creare una competizione autentica nelle gare ed evitare che esse finiscano per essere concorsi di bellezza con un solo partecipante. Naturalmente, consentire i subambiti non può diventare una scusa per mantenere gestori più o meno fintamente inhouse. La quadra sarebbe quella di consentire ai comuni (o a gruppi di comuni) la possibilità di un “opting out” dagli ambiti a patto che alle gare da essi banditi non possano partecipare società partecipate da loro stessi. Qualcuno avanza un’obiezione tecnica – che in questo modo bisognerebbe ulteriormente ritardare le gare per consentire ai comuni di organizzarsi – ma a me pare molto pretestuosa. Ammesso che sia necessario un ritardo, non si tratterebbe comunque di anni, ma di pochi mesi (anzi, ritardi eccessivi andrebbero impediti e sanzionati). Semplicemente, se c’è la volontà politica, le cose si possono fare perbene. Se non lo si fa, è perché non c’è la volontà, o perché c’è una precisa volontà in senso contrario. Sarebbe paradossale se, nel decreto intitolato alle liberalizzazioni, non trovasse ascolto la richiesta di creare condizioni perché la concorrenza possa svolgersi proprio dove c’è, oggi, la massima opacità.