Diritto alla salute: il banco di prova della mobilità sanitaria
Il 12 maggio scorso, la Lombardia ha fissato un tetto al rimborso delle prestazioni a bassa complessità erogate dalle strutture private per i pazienti fuori regione. Per motivi di revisione della spesa in materia sanitaria, avallati dalla legislazione nazionale, si è deciso in sostanza di compensare i costi derivanti dalla mobilità sanitaria per prestazioni di alta specialità con una riduzione di quelli per prestazioni di bassa complessità.
Una scelta, in teoria, comprensibile per diminuire la spesa sanitaria. Ma, nella realtà, paradossale.
Sentiamo dire continuamente che la salute è un diritto fondamentale e che, perciò, lo Stato deve garantirla coprendo tutte le prestazioni necessarie. E’ l’approccio universalistico che non ci si stanca di vantare rispetto a alternative diverse. Basti pensare a quante volte si ripete, dalle nostre parti, che il sistema assicurativo all’americana non garantisce la salute a tutti.
Però non basta dichiararli, i diritti, per garantirli.
Un sistema che decide quali prestazioni pagare e quali no è un sistema che garantisce una parte soltanto del diritto alle cure, a dispetto delle asserzioni di rito.
E’ tristemente ironico che a farne le spese siano i pazienti che vivono in regioni dei cui sistemi sanitari non si fidano, al punto da intraprendere un viaggio per farsi curare altrove.
Si può pensare che le prestazioni ordinarie siano meno importanti di quelle complesse. E’ vero, sempre che ci si accordi su quali siano complesse e quali no. Ma la preoccupazione per la salute propria e dei propri cari non è una formula matematica. E’ del tutto comprensibile e legittimo, se il diritto alla salute ha un senso oltre le parole, che anche per prestazioni non complesse ci si voglia mettere nelle mani di strutture e personale che ispirano maggiore fiducia. Si tratta della nostra salute e delle nostre condizioni di vita.
La mobilità sanitaria ha un costo molto alto, sia economico che organizzativo, e rischia di innescare un circolo vizioso a carico delle regioni passive, che da un lato contraggono debiti verso quelle a migliore performance e dall’altro non hanno la forza e la volontà di offrire un servizio migliore, a prova di fuga degli assistiti. Ciò non toglie che sia un diritto fondamentale, se vogliamo che il diritto alla salute non cada nella retorica rinnegante dei diritti.
Limitare la possibilità di scelta degli assistiti in mobilità, dopo averla riconosciuta a parole, è lederli nell’equità e nell’universalità del diritto alla salute, in primo luogo perché non potrebbero usufruire di strutture e assistenza sanitaria equiparabili a quelle delle regioni a miglior performance, e, in secondo luogo, perché non avrebbero una piena libertà di scelta del luogo verso cui “fuggire”.
E’ noto che, come tutti i diritti che costano, anche quello alla salute può essere finanziariamente condizionato. Ma il paradosso per cui il diritto alla salute diventa obbligo su dove curarsi è un costo molto alto, che mette in discussione, ancora una volta, l’esistenza di questo stesso diritto.