8
Giu
2010

Di Stipendi e Bilancia dei Pagamenti

Riceviamo da Leonardo Baggiani (IHC)  e volentieri pubblichiamo.

Prendendo le mosse dall’articolo di Monsurrò sulla volontà di Hu Jintao di ridurre la dipendenza della crescita cinese dal suo export, è possibile intrecciare la vicenda cinese, quella tedesca, e le relative problematiche salariali.

Il caso Cina-Usa è stato, direi, adeguatamente inquadrato con riferimento alla contabilità nazionale: qualsiasi posizione creditoria netta nei conti con l’estero è un riflesso del proprio status di risparmiatore netto. Nel caso particolare la Cina esporta copiosamente perché i suoi abitanti consumano “poco” rispetto alla produzione realizzata; parallelamente gli USA esprimono una domanda insostenibile per la produzione interna. Il tasso di cambio non è, in questa ricostruzione, la determinante del commercio internazionale, bensì una variabile che equilibra posizioni di domanda-offerta sia domestiche che internazionali con i flussi di capitali che si muovono in senso opposto, giacché gli USA non possono negare la loro “necessità” di finanziamento a buon prezzo permesso dai capitali asiatici. Il potere della politica economica cinese sull’orientamento “demand-” o “export-driven” dell’economia è pertanto alquanto ridotto. La contabilità nazionale ci insegna che incrementare il consumo privato cinese può ben essere insufficiente quando questo discende da maggior reddito e non da una riduzione del risparmio assoluto (i dettagli qui); oltretutto la gestione del consumo privato può essere molto difficile, quindi diventerebbe “necessario” incrementare la spesa pubblica in deficit avendo cura di evitare effetti collaterali di maggior risparmio privato e di spiazzamento degli investimenti privati (quindi con l’appoggio di una politica monetaria accomodante, che però agisce anche sul tasso di cambio in direzione pro-export!). Il “peso” della riduzione del surplus commerciale cinese ricade in modo maggiore sul partner USA, la cui politica monetaria espansiva incide sì sul tasso di cambio creando un vantaggio per il proprio export, ma contemporaneamente stimola la domanda interna e deprime il risparmio, ricreando continuamente le condizioni per una posizione di importatore netto.

Creare le condizioni interne per cui divenga a livello microeconomico conveniente risparmiare negli USA e consumare in Cina, eliminando così la fame di capitali americana, è l’unica vera via per avere USA meno importatori e una Cina più autonoma. Creare queste condizioni passerebbe anche da una manovra sugli stipendi, che consisterebbe in realtà in un ritorno al “mercato”. Il controllo dello Stato è infatti tale da aver “bloccato” la dinamica salariale creando un (forzato) vantaggio comparato sulle produzioni più labour-intensive. Permettere che gli stipendi salgano sulla semplice spinta della domanda di lavoro causata dalla domanda americana di merci è un ottimo modo perché i cinesi si “riapproprino” del valore prodotto acquisendo così un potere d’acquisto verosimilmente convertibile in consumo interno (magari proprio di merci altrimenti destinate all’export). Virtualmente questo processo può rinnovarsi finché esiste un vantaggio della produzione cinese fino ad annullarlo, cioè fino ad azzerare (salvo il concorso di altri fattori) il surplus commerciale.

La Cina è però ancora relativamente poco urbanizzata e dispone ancora nelle campagne di un rilevante esercito di “lavoratori di riserva” il cui impiego potrebbe rinnovare il vantaggio comparato sulle produzioni labour-intensive. Da questo appunto segue che l’accusa di manipolazione cinese del tasso di cambio è pretestuosa: la pressione della domanda internazionale dovrebbe spingere i prezzi cinesi “aggirando” la sostanziale fissità del tasso di cambio; se questo non accade è perché il vantaggio comparato iniziale permane, grazie a questa “riserva” di lavoro, e quindi resta solo il fattore “risparmio netto” come determinante della bilancia commerciale. Nei fatti però la Cina è attraversata da molti casi di scioperi (tutti autonomi e spontanei, perché il sindacato unico cinese non li ammette) cui sono seguiti rialzi degli stipendi oltre il 20% e revisioni a due cifre anche sullo stipendio minimo legale; questo testimonia l’effettività di una regolamentazione centrale che incide sulle ragioni di scambio internazionale e contrasta con l’obiettivo, centrale esso stesso, di un’economia “demand-driven”.

Attorno allo status di esportatore netto nella UE della Germania si è fatta strada una posizione simile: alzare gli stipendi tedeschi così da deprimere il loro export e stimolare quello dei partner comunitari. La situazione europea riflette molto di quella sino-americana, infatti anche qui abbiamo un Paese esportatore verso Paesi “inflazionati” (in senso austriaco). Nel caso USA l’inflazionismo è stato “perseguito”; nel caso dei Paesi europei “periferici” è una condizione indotta (e auspicata) dall’adozione della moneta unica, che ha uniformato i tassi di interesse verso il più basso livello tedesco (un “dividendo dell’euro” chiaramente speso e non risparmiato, altrimenti non potremmo regolarmente divertirci con cicli boom-bust austriaci!). Ritengo che il parallelo finisca qui, perché la Germania viaggia già su elevati e crescenti livelli di disoccupazione, pertanto potrebbe avere un problema di minimi salariali  troppo alti che non permettono l’assorbimento di tutta l’offerta di lavoro, cioè l’esatto contrario del caso cinese. Mi chiedo come sia possibile pretendere una sostanziale eutanasia tedesca attraverso il rialzo legale degli stipendi (Achtung: in Cina il riequilibrio passa, nella mia idea, per una de-legislazione della contrattazione, mentre nel caso tedesco si chiede un intervento legislativo diretto, quindi l’opposto!), per riequilibrare le bilance dei pagamenti di un’Europa che non può esistere senza la Germania stessa. L’esempio tedesco rinforza le considerazioni ricavate dal caso cinese: esiste un vantaggio competitivo indipendentemente dal livello salariale (elevato nella Germania capital-intensive, basso nella Cina labour-intensive) e dalla politica sul tasso di cambio (il caso tedesco è tutto infra-eurozona), il cui tratto comune sono i rapporti commerciali con Paesi “ad elevato tasso di inflazionismo” (USA e “periferici” UE).

Come ho concluso altrove, è diffuso un errato concetto di “equilibrio”: Germania e Cina non sono “squilibrate” perché hanno un elevato export, bensì i loro conti trovano un “equilibrio naturale” in relazione alle spinte dei vari tassi di risparmio netti, che dipendono in misura significativa anche dallo squilibrio dei conti pubblici dei partner. Un certo rigore fiscale e un minor interventismo legislativo risolverebbero da soli un po’ di problemi.

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