Di cosa parliamo quando parliamo di trasparenza. Tra disclosure e openness.
La tentazione è di parafrasare il titolo della celebre raccolta di racconti di R. Carver per chiedersi “di cosa parliamo quando parliamo di trasparenza”.[1] Infatti, l’evoluzione che ne ha caratterizzato il contenuto e progressivamente arricchito il significato rende necessario precisare il concetto, nell’accezione in cui può essere specificamente usato. Perché, nell’ambito del pubblico agire, la trasparenza può – di volta in volta, ma anche al contempo – atteggiarsi come disclosure dell’Amministrazione o come openness dei risultati della sua operatività.
Può, quindi, realizzarsi mediante l’accessibilità a informazioni finalizzata al controllo delle pubbliche istituzioni, ma anche mediante la possibilità di libero riuso ed elaborazione dei dati in cui si concreta la loro azione, per la creazione di prodotti e servizi che generino valore per chi la effettua così come per l’intera collettività che ne fruisce. E’ nel concorso di entrambe le connotazioni – discolure e openness – che essa trova la sua più piena attuazione fino a divenire, nella forma e nella sostanza, vera ed effettiva “apertura”.[2] Ma ogni apertura, anche giuridicamente intesa, è sempre l’essenziale preludio di un’ineludibile evoluzione, individuale e collettiva, verso nuove dimensioni. Forse per questo lo Stato è piuttosto restio a perseguirla e, autoritativamente arroccato nella statica conservazione del potere, stenta a rinunciare alla propria tradizionale predominanza. Mentre la dinamica dei rapporti tra pubblico e privato, soprattutto in tempo di crisi, evidenzia sempre più l’esigenza di una reciproca sussidiarietà i cui effetti virtuosamente si propaghino dall’uno all’altro ambito, in una paritaria interazione. Il risultato di tale sfasatura è che la trasparenza in Italia è stata solo parzialmente attuata, sia come disclosure che come openness, fondamentali canali di collaborazione e partecipazione dei cittadini alla “cosa pubblica” nel perseguimento del desiderato “bene comune”, ma anche importanti strumenti di innovazione e sviluppo economico e sociale.
Del primo versante si è già trattato.[3] Da elemento connotante l’azione e la sostanza stessa dell’azione amministrativa, rinvenibile nei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento, oltre che di efficienza ed efficacia, con la l. 241/1990 la trasparenza è dapprima divenuta criterio volto a consentire al singolo portatore di un interesse “diretto, concreto e attuale, corrispondente a una situazione giuridicamente tutelata” di superare la segretezza quale regola gestionale della documentazione amministrativa, sovvertendo la stessa logica relazionale delle Amministrazioni.[4] Successivamente, è stata resa strumento atto a scardinare progressivamente la consolidata blindatura dell’attività pubblica, fino ad aprirne ambiti sempre più ampi rispetto all’angusto perimetro dell’interesse del singolo alla conoscenza dello specifico atto del procedimento a lui pertinente. Dalla prima legge, il d.lgs. 150/2009, che l’ha configurata quale “accessibilità totale” – ma pur sempre limitata ai documenti dalla stessa previsti come pubblici – e preordinata a forme diffuse di controllo della P.A., al recente d.lgs. 14 marzo 2013, n. 33, che l’ha sostanziata di sovrabbondanti contenuti, riordinando anche quelli già vigenti,[5] la trasparenza è andata giuridicamente concretandosi in un progressivo aumento di disclosure dell’attività amministrativa. La qualità dell’indubbio salto culturale così operato non ha trovato analoga corrispondenza nei modi con cui è stato attuato, tesi a privilegiare la quantità e articolazione dei dati proattivamente pubblicati[6] rispetto alla qualità e selezione di quelli che reattivamente avrebbero potuto essere concessi. Il risultato è una trasparenza tanto dettagliatamente perseguita quanto mai pienamente realizzata. Sarebbe bastato consentire a chiunque la conoscenza di quanto non protetto da esigenze di riserbo o segretezza, per non lasciare angoli bui nell’amplissimo ambito del pubblico agire. Invece, si è preteso che i suoi infiniti anfratti potessero essere illuminati con burocratici elenchi di minuziosi adempimenti, in una sorta di slalom tra legittimazione individuale vincolata e accessibilità totale, ma al contempo limitata. E così la complicazione documentale, anziché in esaustività informativa, si è piuttosto tradotta in opacità: “per confusione”. Ma tant’è.
Quanto al secondo versante, non si può dire che i risultati in termini di opennes siano più soddisfacenti. Mentre la trasparenza andava evolvendosi e sostanziandosi come sopra accennato, il progresso informatico ne portava in evidenza un’altra dimensione, di tipo tecnologico primo ancora che giuridico: perché se per realizzare disclosure basta la pubblicazione, purché sia, sui siti web di documenti e informazioni, per attuare opennes servono dati liberamente accessibili, tecnologicamente fruibili, gratuitamente disponibili, a qualunque fine riusabili.[7] Due parole: open data.[8] Un metodo, open government.[9] Un obiettivo: un nuovo modello culturale e trasversale, che dall’ambito amministrativo a quello economico affermi un’amministrazione sempre più aperta all’interazione con la collettività che della sua azione è non solo destinataria, ma anche compartecipe. Ecco allora che gli open data divengono funzionali non solo alle finalità di controllo, collaborative, politiche ecc. che per il loro tramite si vogliono perseguire, ma anche a quelle ulteriori di tipo “commerciale” che, pur nascendo dall’iniziativa personale, si traducono comunque in innovazione e, quindi, in crescita economica e sviluppo sociale.
Purtroppo, il legislatore nazionale non mostra sempre troppa coerenza tra intenzioni proclamate e risultati prodotti. E se ha sempre meglio connotato giuridicamente, fino a renderla in una certa misura cogente, l’openness, dall’altro l’ha relegata entro gli stessi limiti della disclosure.
Nel d.lgs n. 36/2006[10] (novellato dalla l. n. 96/2010), da un lato l’ha introdotta come “finalità” delle pubbliche amministrazioni, affrettandosi nel contempo a ribadire la libertà di queste ultime di non adottarla. Nel d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, CAD, modificato dal d.lgs. n. 235/2010) l’ha resa oggetto di un compito da attuare, individuandone le modalità[11] ed esplicitandone il fine.[12] Nella l. n. 35/2012, in materia di semplificazioni, ha previsto la promozione del paradigma dei dati aperti (open data)[13] e nella legge 179/2012 (c.d. decreto sviluppo), modificando di nuovo il CAD (art. 52), ha disposto, ma senza il supporto di mezzi di efficace cogenza, la pubblicazione del catalogo dei dati, dei metadati e delle banche dati in possesso delle Amministrazioni. L’ha finalmente resa oggetto di un obbligo, anziché di indicazioni programmatiche, solo con il d.l. n. 83/2012 (c.d. decreto crescita 2.0), ove ha imposto, se pur limitatamente ai provvedimenti attributivi di vantaggi economici,[14] che i relativi dati siano “resi di facile consultazione, accessibili ai motori di ricerca ed in formato tabellare aperto che ne consente l’esportazione, il trattamento e il riuso” (art. 18). Infine, con il d.lgs. 33/2013 (c.d. decreto “trasparenza”) ha dettato che venga pubblicata in formato aperto (ai sensi dell’art. 68, comma 3, del CAD)[15] e sia riutilizzabile (ai sensi del d.lgs. n. 36/2006) quella massa di documenti, informazioni e dati oggetto di pubblicazione obbligatoria (art. 3). Di conseguenza, quelli che spontaneamente queste ultime ritengano comunque di pubblicare (art. 4, comma 3), o comunque fornire, restano soggetti alle norme del CAD, sprovviste di un’effettiva sanzionabilità. La circostanza che questi ultimi vengano resi come open data rimane così un mero auspicio. Né pare rinforzarlo la previsione per cui i dati e i documenti che le amministrazioni pubblicano senza l’espressa adozione di una licenza si intendono rilasciati come dati di tipo aperto e l’eventuale adozione di una licenza deve essere motivata ( c.d. open by default, art. 52, comma 2, CAD).
Per l’openness è stato in questo modo replicato il medesimo paradigma della disclosure. E’ riutilizzabile e, quindi, rielaborabile, quella stessa complessa congerie di dati che – autoritativamente e proattivamente – è sancito sia pubblica. Ciò perché il legislatore non ha – più semplicemente e reattivamente – consentito, fatti salvi i limiti del segreto e della riservatezza, la generalizzata legittimazione dei soggetti interessati al soddisfacimento di ogni loro richiesta di trasparenza: non solo conoscitiva, ma anche tecnologica. Ma quanto con complessità e discrezionalmente viene elargito è difficile possa essere facilmente compreso e, dunque, proficuamente riutilizzato. E’ evidente come la trasparenza ne risulti, in ogni sua accezione, depotenziata: essendo, innanzi tutto, il risultato della percezione di coloro i quali ne sono destinatari, essa viene rafforzata dall’ascolto delle esigenze e dal soddisfacimento delle istanze.[16] E, solo quand’è effettiva, ne genera altra, in un inesauribile circolo virtuoso. E’ così che l’informazione da pubblica diviene chiara e, quindi, comprensibile e, poi, rielaborabile e, infine, effettivamente utile.[17] E’ così che dati di concreto e facile accesso, a livello cognitivo prima ancora che tecnologico, quando variamente studiati, analizzati, messi a confronto ed elaborati anche mediante nuovi database, sono in grado di creare valore aggiunto. Dati “open”, in ogni senso: che possano cioè essere agevolmente reperiti, con semplicità capiti e, di conseguenza, efficacemente usati.
Favoriscono il controllo dell’operato della P.A., responsabilizzandone vertici e base e concorrendo alla loro accountability; consentono ricerche e analisi a fini di collaborazione e interazione tra le amministrazioni e i cittadini utenti, nonché di partecipazione di questi ultimi alle decisioni che li riguardano, emancipandoli da una situazione di passivi destinatari a una dimensione di soggetti attivi, selettivi e propositivi; costituiscono un incentivo alla concorrenza e alla competizione tra amministrazioni che svolgano attività omogenee, facendo luce sui fattori distorsivi e aumentando la qualità delle prestazioni rese; rappresentano miniere di informazioni per la creazione di servizi e lo sviluppo di applicazioni utili all’intera collettività, fonti di impulso all’economia e di stimolo alla creazione di posti di lavoro.
Solo un legislatore miope può avere una visione di trasparenza così limitata da comprimerla in una congerie di oneri adempimentali per le P.A. e in una mole di informazioni e documenti spesso criptici e intricati, anche se in formato open data, per la collettività. Un’effettiva “liberazione” dei dati, salvo segreto e riservatezza, non può tollerare limitazioni, né tecnologiche né di legittimazione, nella piena armonizzazione tra disclosure e openess. Tanto più perché quei dati appartengono alla collettività dei contribuenti che con denaro pubblico li ha finanziati e, a maggior ragione, se essi possono costituire un mezzo per produrre ricchezza, sia essa informativa o economica, per chi li usa e li elabora e per chi, poi, dei risultati così prodotti si avvale.
Ma lo Stato, forse, non sa di cosa parla quando parla di trasparenza se, limitando normativamente l’obbligo di open data ed essendo scarsamente disponibile a fornire quanto non gli venga imposto di pubblicare[18], ne penalizza la realizzazione. E in questo modo – non favorendo la collaborazione collettiva, la partecipazione politica, lo sviluppo sociale e la crescita economica – penalizza se stesso. Ma forse anche questo lo Stato non lo sa: del resto, la piena trasparenza genera ritorno di amplificata conoscenza anche per chi la consente. Sarà per questo che lo Stato, spesso, ignora.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)
[1] Il riferimento è al libro di Raymond Carver “Di cosa parliamo quando parliamo d’amore”, pubblicato negli Stati Uniti nel 1981 e in Italia nel 1987.
[2] “È bene differenziare sin da subito il concetto di trasparenza da quello di apertura. Il concetto di apertura include quello di trasparenza, ma non necessariamente è vero il contrario. In altri termini, non è sufficiente la trasparenza così come definita nel nostro ordinamento giuridico perché si possa parlare di Open Data”. http://www.funzionepubblica.gov.it/media/982175/vademecumopendata.pdf .
[3]http://www.leoniblog.it/2013/06/06/in-un-sistema-corrotto-lo-stato-spreca-i-migliori-talenti/, http://www.leoniblog.it/2013/06/13/trasparenza-quando-la-quantita-nuoce-alla-qualita/ .
[4] In questo senso, G. Napolitano, “Manuale di diritto amministrativo”, 2008, p. 267.
[5] Al riguardo, v. i risultati di un’indagine svolta dalla Civit (Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle Amministrazioni Pubbliche) in ordine agli obblighi di pubblicazione vigenti al luglio 2012 http://www.civit.it/wp-content/uploads/Rapporto-semplificazione-della-trasparenza.pdf .
[6] La Civit ha così schematizzato i vigenti obblighi di pubblicazione http://www.civit.it/wp-content/uploads/Allegato-1-lista-obblighi-di-pubblicazione.pdf .
[7] “Make a beautiful website, but first give us the unadulterated data, we want the data. We want unadulterated data. OK, we have to ask for raw data now” (Sir Tim Berners-Lee, inventore del World Wide Web).
[8] Una definizione comunemente accettata è quella dell’Open Knowledge Foundation (fondazione no profit, costituita nel 2004 al fine di promuovere la conoscenza aperta), che definisce gli open data come ““data that can be freely used, reused and redistributed by anyone – subject only, at most, to the requirement to attribute and sharealike”, specificandone poi le caratteristiche (http://okfn.org/opendata/).
[9] I principi della dottrina dell’Open Government sono stati valorizzati dall’amministrazione Obama, che ne ha declinato i contenuti nel 2009 nell’Open Government directive, incoraggiando l’utilizzo degli open data e impostando l’archivio Data.gov. Nel maggio 2013, con un executive order, il Presidente USA ha imposto che i dati delle amministrazioni, qualora passibili di accesso da parte dei cittadini, debbano essere in modalità predefinita come open data e in formati utilizzabili dalle macchine: http://www.whitehouse.gov/the-press-office/2013/05/09/executive-order-making-open-and-machine-readable-new-default-government-.
[10]“Le pubbliche amministrazioni o gli organismi di diritto pubblico perseguono la finalità di rendere riutilizzabile il maggior numero di informazioni, in base a modalità che assicurino condizioni eque, adeguate e non discriminatorie” (art. 1, comma 4), ma dei documenti di cui abbiano disponibilità “..non hanno l’obbligo di consentire il riutilizzo (..) La decisione di consentire o meno tale riutilizzo spetta all’amministrazione o all’organismo interessato, salvo diversa previsione di legge o di regolamento” (art. 1, comma 2). Al riguardo, v. anche http://www.indiritto.it/2010/10/03/la-normativa-relativa-ala-riutilizzo-dei-dati-il-commento-al-d-l-24-gennaio-2006-n-36-e-modifiche/.
[11] “Lo Stato, le Regioni e le autonomie locali assicurano la disponibilità (…) dell’informazione in modalità digitale e si organizzano ed agiscono a tale fine utilizzando con le modalità più appropriate le tecnologie dell’informazione e della comunicazione” (art. 2, comma 1), intendendosi per disponibilità “la possibilità di accedere ai dati senza restrizioni non riconducibili a esplicite norme di legge” (art. 1, lett. o)).
[12] “I dati delle pubbliche amministrazioni sono formati, raccolti, conservati, resi disponibili e accessibili con l’uso delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione che ne consentano la fruizione e riutilizzazione, alle condizioni fissate dall’ordinamento, da parte delle altre pubbliche amministrazioni e dai privati…” (art. 50, comma 1), laddove per “fruizione” è da intendersi “la possibilità di utilizzare il dato anche trasferendolo nei sistemi informativi automatizzati di un’altra amministrazione” (art. 1, lett. t)), mentre per riutilizzazione occorre rifarsi al citato d.lgs n. 36/2006 che, all’art. 2, lett. e), la definisce come “l’uso del dato (…) a fini commerciali o non commerciali diversi dallo scopo iniziale per il quale il documento che lo rappresenta è stato prodotto nell’ambito dei fini istituzionali”.
[13] In particolare, il fine è quello della “valorizzazione del patrimonio informativo pubblico, al fine di creare strumenti e servizi innovativi” (art. 47, comma 2 bis, lett. b).
[14] Dati da pubblicarsi nella sezione “Trasparenza, valutazione e merito” di cui al citato decreto legislativo n. 150 del 2009.
[15] “..si intende per: a) formato dei dati di tipo aperto, un formato di dati reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei dati stessi; b) dati di tipo aperto, i dati che presentano le seguenti caratteristiche: 1) sono disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato; 2) sono accessibili attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti ai sensi della lettera a), sono adatti all’utilizzo automatico da parte di programmi per elaboratori e sono provvisti dei relativi metadati; 3) sono resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, oppure sono resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione”.
[16] Interessanti, al riguardo, i risultati della ricerca Formez http://www.formez.it/sites/default/files/monitor_2013.pdf. In particolare, da essi emerge la disaffezione diffusa nei riguardi di una P.A. che pecca per la scarsa chiarezza delle risposte e per gli ostacoli che frappone fra sé e i cittadini utenti: solo il 17,6% dichiara di averne fiducia.
[17] “La trasparenza implica che tutti i dati resi pubblici possano essere utilizzati da parte degli interessati. Non è, infatti, sufficiente la pubblicazione di atti e documenti perché si realizzino obiettivi di trasparenza. Di contro, la pubblicazione di troppi dati ovvero di dati criptici può opacizzare l’informazione e disorientare gli interessati”. http://www.civit.it/wp-content/uploads/Delibera-n.-2.2012.pdf.
[18] Dal sito www.dati.gov.it, “I dati aperti della PA”, emerge che sono solo 73 le amministrazioni che attualmente hanno provveduto a liberare dati dalle stesse detenuti.
Dopo l’analisi di Cantieri http://www.magellanopa.it/kms/files/Proposte.pdf non è stato fatto molto. Esiste https://secure.avaaz.org/it/petition/Eliminare_gli_abusi_di_potere_nelle_PMI/ Quando? Potrebbe, iniziando, risolvere il problema delle PMI 18M di lavoratori. Si avrebbe risolto compiutamente il problema della trasparenza. Non solo risparmi ,ora così necessari per indirizzali al rilancio produttivo, nell’organizzazione delle strutture Statali e Private. Tribunali meno carichi di lavoro.Fisco impegnato con i controlli, solo con tutte le attivitò al di fuori di queste perchè trasparenti. Respireremo tutti una vivibilità migliore sapendo di percorrere la strada del rinnovamento da sempre e tutti annunciata e mai iniziata se non con delle pezze che hanno aumentato i problemi.