Delocalizzazione e nazionalismo di sinistra
Nel Blog di Beppe Grillo, in un commento a un post di Eugenio Benetazzo, mi è capitato d’imbattermi in alcune considerazioni che rappresentano un concentrato delle molte banalità in tema di concorrenza e delocalizzazione. Le riassumo assai liberamente qui di seguito.
« Mio zio è un imprenditore bresciano che per una trentina di anni ha prodotto “resistenze elettroniche” in Italia. Da quando l’Europa ha cominciato ad aprire i propri mercati e quindi abbiamo visto arrivare merci da ogni dove, la sua azienda ha iniziato a perdere colpi su colpi, vedendo assottigliarsi sempre di più la propria clientela. Alla fine, ha dovuto chiudere bottega.
Come vive oggi? Non ha lasciato il settore, perché ha deciso di affidare a una ditta cinese le produzioni che prima realizzava direttamente. Ogni tre mesi il figlio va in Asia per realizzare il controllo della merce e definire sempre meglio le intese commerciali. Se tutto funziona bene, dall’Italia parte il bonifico e in breve la merce arriva da noi, a un costo molto basso. Così facendo, una quota rilevante dei vecchi clienti è tornata sui propri passi. Ovviamente, i 16 dipendenti italiani che prima lavoravano nella sua piccola azienda ora sono a spasso ».
Vera o falsa che sia (poco importa: perché senza dubbio vi sono in Italia molte esperienze di questo genere), questa storiella è stata riportata nel blog di Grillo con l’intento di denunciare la globalizzazione. In realtà si tratta di una vicenda tutt’altro che negativa.
Cerchiamo di non dimenticare la grande lezione di Frédéric Bastiat su ciò che si vede e ciò che non si vede: ci aiuterà a capire perché questa retorica sui disastri della delocalizzazione (condivisa dai sindacalisti, i politici e i commentatori di ogni tendenza) non sta in piedi.
Ciò che si vede è quanto l’autore di quel testo mette in evidenza: i posti di lavoro perduti nel Bresciano. Prima c’era una ditta che aveva una sua clientela, che dava di che vivere a una ventina di famiglie e che produceva ricchezza. Con l’apertura dei mercati, tutto questo non c’è più.
Ma oltre a ciò che si vede, c’è anche ciò che si non vede. O, meglio, ciò che non si vuol vedere.
Quell’azienda non ha chiuso perché è stata bombardata dai bombardieri inglesi dell’ultima guerra, ma semplicemente perché i clienti hanno ritenuto comprare altrove. Quelle aziende, d’altra parte, hanno bisogno di soddisfare i loro consumatori e per farlo devono rifornirsi da buone imprese, che diano loro prodotti ad un alto rapporto qualità-prezzo. È la libera scelta dei clienti intermedi ad avere decretato quell’insuccesso, ed essi hanno deciso così per poter servirci al meglio in consumatori finali: per poter farci acquistare buoni prodotti a basso prezzo. (A ben guardare, in fondo quel fallimento è stato deciso da noi: qui intesi come l’insieme dei consumatori ultimi).
Ma oltre al beneficio che la globalizzazione ha apportato ai consumatori e agli ex clienti dell’azienda che produceva resistenze, c’è anche il beneficio che è stato ottenuto dall’economia cinese.
Se 20 lavoratori a Brescia non producono più resistenze, è perché ci sono grosso modo 20 lavoratori in Cina che lo fanno al loro posto. Alle famiglie bresciane in (relativa) difficoltà corrisponde un analogo numero di famiglie che grazie alla globalizzazione può sperare di uscire dalla miseria. Non si capisce per quali ragione si dovrebbe sposare la logica dei “posti” invece che quella del “lavoro”, e perché ci si dovrebbe sentire più vicini a un operaio bresciano (che non si conosce) invece che a un operaio cinese e molto più povero (che ugualmente non si conosce). Personalmente non sono nazionalista, ma soprattutto non vedo come si possa esserlo: sulla base di quali argomenti.
Chi sta a Brescia e deve fronteggiare la crisi deve ora darsi da fare per produrre qualcosa che interessi la gente, che risponda a esigenze altrui e, quindi, che stia sul mercato. L’integrazione economica (quanto è stato citato non è altro che un piccolo episodio di tale processo) è ciò che ha fatto uscire l’uomo dalle caverne e dalle piccole tribù, oltre che dalla miseria. Quando negli anni Cinquanta le multinazionali americane hanno investito da noi – dove c’era manodopera a basso costo – l’America non è crollata. Se quindi ora dovessero andare i rovina – ipotesi che non va scartata – non sarà perché gli imprenditori fanno il loro mestiere (produrre al meglio e ai minimi prezzi), ma semmai perché lo Stato non li lascia lavorare come vorrebbero, distruggendoli con un debito pubblico stellare, tasse da rapina e regole di ogni tipo.
Che larga parte della destra sia ottusamente nazionalista e protezionista non sorprende. Ma è curioso che da sinistra non si sappia vedere come il processo di delocalizzazione si basi su una riduzione dell’area del potere – la circolazione dei beni deriva da questo – e produca molti più benefici che danni. L’integrazione economica tra l’economia europea e quella asiatica non fa che sviluppare la divisione del lavoro e la specializzazione. Siamo davvero all’abc dell’economia, ma evidentemente bisogna fare i conti con un analfabetismo di dimensioni preoccupanti.
Ancor meno si comprende come una parte rilevante della cultura progressista, avversando la globalizzazione in nome dei posti di lavoro persi a Brescia e guadagnati in Cina, non si avveda di pescare nel torbido nel risentimento tra culture, dell’odio tra paesi diversi, del conflitto tra civiltà.
Perchè lei definisce la paura della delocalizzazione come di una paura di sinistra? L’alitalia “italiana” da chi è stata voluta? Il protezionismo è di sinistra? Credo che antimercato da lei descritti con il suo interessante articolo siano molto più trasversali di quanto sostenga. Non la metta però su di un piano di parte politica in questo punto, me lo lasci dire, sbaglia.
ho corretto 2 errori!
Perchè lei definisce la paura della delocalizzazione come di una paura di sinistra? L’alitalia “italiana” da chi è stata voluta? Il protezionismo è di sinistra? Credo che le visioni antimercato da lei descritte con il suo interessante articolo siano trasversali agli schieramenti. Non la metta però su di un piano di parte politica, me lo lasci dire, purtroppo qui sbaglia.
Gent. Calro Lottieri,
così va il mondo. Non è certo colpa del mio vicino di casa, che pur possiede il diritto di voto, il non conoscere l’abc di economia.
I milioni di persone che non conoscono nemmeno Smith e Ricardo come possono essere colpevoli se votano per rappresentanti che pure non conoscono questo abc?
I politici (destra, sinistra, centro, ecc..) sono in corto circuito non solo perchè non conoscono nemmeno le basi di economia, ma anche perchè non hanno una sufficiente indipendenza di pensiero che li porti ad indipendenza d’azione.
Uomini piccoli, sia pur rispettabili come persone, non possono decidere di aggiungere valore alla loro azione politica mettendo a rischio la loro personalissima carriera e la carriera dei loro discendenti contrastando un sistema di relazioni che ha attribuito loro la posizione che occupano.
Per gli economisti vale la medesima valutazione(purtroppo).
Gli economisti sono in corto circuito proprio perché per poter emergere ed incidere necessitano del consenso di relazione non solo dei colleghi (simpatiche canaglie), ma anche dei politici.
Non intendo minimamente generalizzare. E’ possibile trovare un politico che voglia esercitarsi nel rischio di cambiare qualcosa ed è parimenti possibile trovare un economista che, nella solitudine che si e’ guadagnata grazie alla sua aconvenzionalità, catturi e formalizzi concetti scomodi ai più.
Tale ricerca purtroppo rimane più una curiosità di ricerca antropologica che servirà ai posteri per capire ed inoltre a confortarli circa il loro stadio evolutivo, completando la dimostrazione che l’umanità non si è poi cosi evoluta negli ultimi tot anni.
Viviamo quindi in un epoca in cui le banalità assurgono al rango di ragionamento evoluto? Dico di no! Almeno non più di quanto nel continuo delle epoche precedenti si possa considerare avvenuto.
Nel dubbio amletico tra essere o non essere quindi riterrei già sufficiente una pratica operazione di amministrazione basica ed operativa basata sulla efficienza e la equità numeraria dei valori in gioco.
Insomma roba da ragionieri.
Tutto questo in attesa che le masse si illuminino ed arrivino a conoscere non solo l’abc, ma anche Hayek e Mises e, giusto per evitarlo quanto basta, Keynes.
All’economia bresciana (come del resto alle altre) basterebbe poter gestire i fattori della produzione con il diritto e l’onere di decidere della propria gloria o del proprio declino.
Nessun politico e’ disposto oggi ad ingaggiare una battaglia, a qualunque costo, per questo.
Con stima.
mario fuoricasa
Lottieri caro, tutto vero. Però, i 20 operai bresciani che restano a casa smetteranno di essere consumatori e la loro difficoltà sociale si riverserà nello stato in cui viviamo noi e loro. E francamente, noi come sistema Italia, non siamo attrezzati per accettare e vincere la sfida. Certo che è colpa nostra. Ma invocare il taglio del ramo su cui siamo seduti nel nome di un liberismo teorico che alla fin fine traduce cittadini in consumatori, democrazia in elettori disinformati, diritti in assenza di doveri e via lamentando, è una operazione altrettanto ideologica di quanti commentano il post di Benetazzo da lei citato. Inoltre, riferendomi a Benetazzo, mi piacerebbe che alcune sue considerazioni fossero valutate e approfondite perché mi paiono molto credibili. Mi riferisco non a ciò che propone ma alla sua (di Benetazzo) analisi della crisi, nella sua genesi e nei suoi sviluppi.
Grazie per l’attenzione
Alex
permettete?
il problema è che la cina è da 10 anni nell’organizzazione mondiale del commercio e ci fa concorrenza selale con stipendi da fame e i prigionieri politici che lavorano 16 ore al giorno per un piatto di minestra. dunque o la cina cambia metodo o la dobbiamo ributtare fuori per non ridurci noi alla fame mentre loro escono dalla miseria ( più o meno…)
Mai lette tante stupidaggini.
La concorrenza è alla base dell’economia, ma quella sleale asiatica ci distrugge e falsa il sistema.
Guardiamo agli USA , se non fossero geopoliticamnte potentissimi e seduti su una montagna di armi sarebbero falliti da tempo.
Parole nobili ma che non tengono conto del fatto che è in atto non tanto uno scontro tra civiltà ma di un confronto fra un sistema di produzione di mercato e un sistema dirigista, e in questa lotta il mercato libero stà perdendo.
@marco
Dove hanno prodotto la scheda madre e le periferiche del computer con il quale ci rendi edotti delle tue consapevolezze?
Quindi mi tacio.
mario fuoricasa
Ottimo articolo.
Inoltre i comunisti del piffero dicono sempre di stare dalla parte dei piu’ poveri e dalla parte degli immigrati: allora che male c’e’ a creare posti di lavoro tra i poveri in Cina o in Nord Africa o in Ucraina ed aiutsare i poveri di quei luoghi ad uscire dalla poverta’?
Mistero del marxismo!
premetto che in linea di principio sono contrario al protezionismo e favorevole alla libera circolazione delle merci, non concordo assolutamente sul fatto che la perdita di 10 posti di lavoro italiani con la contemporanea creazione di altrettani altrove, sia neutra. noi viviamo nel sistema italia, la perdita di posti da noi comporta riduzione di consumi, aumento di spesa pubblica e aumento di tensioni sociali. Tutti fattori negativi per la vita di ognuno di noi.
Il libero scambio è essenziale per il progresso umano, ma deve essere una competizione ad armi pari. Orami la Cina si sposta verso produzioni a più alto contenuto tecnologico, ma ci sono numerosi stati che ancora hanno basso costo del lavoro, perchè usano semplicemente parametri inaccettabili.
Non concordo nemmeno sulla visone stato cattivo privati buoni.Tralasciando i trasferimenti da stato ad aziende e l’enorme evasione (comodo gridare alle tasse elevate), la classe dirigente, specie quella attuale, è diretta emanazione della classe imprenditoriale. Non ha senso separarle.
Il solito progressismo del “si son socialista vanno aiutati, ma non coi soldi miei”. La barriera tra realtà e ideale si chiama interesse personale. La concorrenza “sleale” cinese ormai è un mito da sfatare, la differenza di costo del lavoro c’è sempre stata, e la cina produce per l’occidente da 50 anni, non 10, solo che da 10 comincia ad investire fuori, per questo se ne parla.
tutto vero in teoria ma….
Mi sia permesso fare l’avvocato del diavolo partendo da un postulato su cui credo tutti possano essere d’accordo. Ovvero:”non tutte le 60 milioni di persone residenti in Italia possono lavorare in settori high-tech e/o ad alto contenuto scientifico al riparo dalla concorrenza”.
Dimostrazione empirica:”mio figlio è una rapa e, per quanto gli faccia concoscere il bello, non sarà mai capace di creatività ad alto livello” (condizione, ahimè, comune a molti papà).
Bene, se è vero quanto sopra:
1) per adesso, il mercato di fatto non esiste. Non è possibile produrre in Italia alle stesse condizioni cinesi perchè sarei fuori legge. Quindi i cinesi fanno concorrenza sleale, pur non volendolo, perchè non lo sanno. Si potrebbero fare delle riforme per consentire di lavorare in Italia alle stesse condizioni cinesi. Lascio a voi i commenti…
Il citato esempio americano non regge; basta guardare la diminuzione della manifattura americana in questi anni accompagnato con l’incremento del deficit statale (forse loro se lo possono permettere visto che hanno il dollaro, noi no).
2) per adesso, il mercato di fatto non esiste. Nel caso specifico della Cina, di fatto, il Governo totalitario e non democratico attua politiche e direttive fuori dalle concezioni di mercato. Un esempio su tutti è l’artificioso mantenimento dello yuan a livelli eccessivamente bassi con effetti pericolosi sul credito. Bene ha detto Marco qui sopra.
3) o ci raccontiamo delle favole o dobbiamo ammettere, se non altro per semplice verifica empirica, che le aziende delocalizzando spesso eludono fiscalmente lo Stato di origine. Semplicissimo esempio. Produco in Cina; fatturo al costo in una società di carta alle Cayman; rivendo con margine tassato al 0.5% in Italia. Questo, alle aziende, dovrebbe essere vietato perchè di fatto viene a mancare il vincolo ad un bene essenziale e primario rispetto al profitto e che va al di là del mercato…ovvero la sicurezza. Questo punto meriterebbe ben altro spazio (chi scrive, proprio per lo stesso motivo, è invece favorevole ai paradisi fiscali per i beni privati).
4) alex sopra di me ha citato gli effetti nocivi sulla crisi dei consumi nei Paesi d’origine. Spesso si controbbatte, a ragione, che l’importazione di merce a basso costo ha però l’effetto benefico di calmierare l’inflazione (anche questo è difendere i consumi). Ancora una volta si evidenzia come non sia tutto nero e bianco ma tutto ha infinite sfumature di grigio di cui bisogna tener conto caso per caso. L’efficientismo mercatista non va in questa direzione.
Ci sarebbero altri punti da sviluppare, come l’impatto ambientale del commercio globale oltre all’eticità di certi tipi di consumi. Ma li lascio da parte perchè ammetto che non sono temi ancora maturi per avere una completa obiettività (presto lo saranno).
ciao
azimut72
Salve a tutti,
bell’articolo forse un po’ infelice nella parte sul non nazionalismo: credo sia pacifico che ci si interessi più degli operai bresciani che di quelli cinesi, ma questo é un mero giudizio soggettivo. Trovo tuttavia una grande verità il fatto che ci siano cose che spesso non si vogliano vedere. Tanto per essere chiari, in salotto ho un televisore a non so quanti pollici, credo 24, che ho pagato 99€…non aggiungo altro. Voglio dire, l’Italia, ma forse più in generale l’Europa, si trovano in una condizione difficile dal punto di vista culturale: non é una novità sapere che l’Europeo continentale sia molto più conservatore dell’anglosassone…lo si vede in molti aspetti (tedeschi e francesi fanno scuola). Non mi meraviglia quindi che sulla globalizzazione, politici del calibro di Voltremont sparino banalità degne di Cetto Laqualunque. Si tratta di accaparrarsi i voti di una società mediamente anziana, molto conservatrice, abituata ad una economia manifatturiera export-oriented (qualche termine in inglese fa sempre figo) che vuole “tornare al vecchio manufatturiero” (dove fossimo andati poi non si capisce…). Spiace che molte persone non si rendano conto dei cambiamenti che avvengono nel mondo e non capiscono come sia più importante rendersi flessibili piuttosto che chiudersi a riccio e sbraitare contro chi sa che cosa. Bisogna andare all’università, istruirsi al meglio, fare la ricerca e metterlo “in tasca” a cinesi e indiani (in senso buono ovviamente). I tempi dei calzini e magliette prodotte in Lombardia o Veneto sono finiti. La formazione deve o meglio dovrebbe essere il punto focale di un buon governante, invece i soldi li usiamo per il punto sullo stretto…il ritorno che uno stato ha dalla formazione é straordinariamente superiore a quello che ottiene da un ponte del piffero, o opera che sia. Si sa benissimo poi che l’Italia ha altri e molti problemi (vedi la scellerata legislazione sul lavoro…chissà che uno dei 4 disegni di legge in parlamento passi!), pero’ non sottovalutiamo la nostra deleteria e costante bassissima produttività…la formazione fa il paio con quest’ultima.
Concludo quindi dicendo che se veramente riuscissimo a liberare la crescita, far risalire la produttività e magari abbattere un po’ di debito, discorsi come quelli sui 20 lavoratori bresciani lascerebbero il tempo che trovano…quindi poco.
Ossequi.
E un grazie anche al buon Bastiat che ho finito di leggere giorni fa e merita di essere (ri)scoperto.
l’ignoranza dotta è una brutta cosa, anzi come direbbe un mio amico, la GNoranza con la GN maiuscola.
di grandi economisti ce ne sono a bizzeffe ed ognuno puo’ cercare quello che dice cosa a lui più vicine.
una grande liberale diceva a proposito del libero commercio:”se il portogallo produce del buon vino e l’inghilterra dei buoni filati il libero mercato deve fare in modo che gli inglesi possano vendere i loro filati ai portoghesi ed quest’ultimi i loro vini agli inglesi”
mica diceva: “poichè i lavoratori portoghesi costano meno portiamoli a lavorare nelle nostre aziende o prendiamo le nostre produzioni di filati e portiamole in portogallo”
il commercio internazionale si è sviluppato nela seconda metà del secolo tra paesi che fondamentalmente condividevano lo stesso sistama, quello DEMOCRATICO, con i relativi costi, come quelli derivante dal rispetto dei lavoratori, dell’ambiente, della salute, e quello dei processo democratico stesso.
l’apertura alla cina fascista è solo un lento suicidio, adesso inizia a sentirsi solo un po’ la mancanza d’aria, fra un po’ non ci sarà più che respirare
io vorrei solo sapere se quei 16 operai li deve mantenere il governo italiano o quello cinese
Se fosse per il blancio della sede provinciale Inps di Brescia i 16 dipendenti si manterrebbero da soli per il tempo necessario giacchè dal dopoguerra questa sede in attivo ha raccolto i contributi (pagati dalle aziende) per il fondo CIG dai lavoratori interessati e dai loro colleghi.
Il problema caro Armando e’ che il bilancio dell’Inps viene poi fuso a livello nazionale. Sarà colpa dei cinesi anche questo? Scusate sono bresciano non militante.
La considerazione sull’Inps e la cassa integrazione è interessante, perché attesta – una volta di più – che statalismo chiama statalismo. Insomma, dal momento che si è fatta la fatta la scelta socialista di legare tutti gli italiani in un unico sistema assistenziale (previdenziale), ora si sarebbe indotti a fare la scelta protezionistica di chiudere le frontiere alle merci cinesi e/o impedire ai capitali degli italiani di andare dove sono più produttivi.
Non nego che ci sia una logica contabile, ma mi chiedo se non si finisca per commettere altri errori perché non si vuole correggere il primo. Invece che chiudersi ai mercati stranieri e tenerci stretta l’Inps, perché non ci apriamo e al tempo stesso riformiamo in senso liberale questi strumenti? (Il post di Marco Mura segnala un volume, “La città volontaria”, in cui si parla in maniera assai dettagliata delle società di mutuo soccorso: soluzioni liberali e assai più efficaci ai problemi che oggi lo Stato tenta di risolvere assai malamente.)
Un argomento che trovo invece del tutto detestabile (non se ne abbia chi l’ha formulato, e d’altra parte è un argomento corrente) è quello secondo cui dovremmo chiuderci alla Cina e non investire da loro in quanto il regime non rispetta i diritti umani. Fa sorridere da tanto è pretestuoso, dal momento che la possibilità che quel regime evolva in senso liberale è legata non certo al nostro rifiutare di avere rapporti con la popolazione cinese, ma – al contrario – da una crescente integrazione economica. Esattamente come è successo negli ultimi vent’anni. (Perché, è sempre bene ricordarlo, la Cina di oggi è orrenda, ma molto meglio di quella della “rivoluzione culturale” o del “balzo in avanti”.)
@Carlo Lottieri
Intervengo brevemente sul solo punto del rispetto dei diritti umani: sono ormai anni che si fanno campagne “da sinistra” contro lo sfruttamento dei lavoratori, la persecuzione dei nativi, il lavoro minorile (vi ricordate i palloni Nike o non so più cuciti dai bambini asiatici?) .. nobile indignazione per le condizioni degli ultimi o paravento per richieste protezioniste?
@ alex: In generale, non é vero che delocalizzare comporta solo ed esclusivamente una perdita di occupazione. Anzi, l’argomento é molto dibattuto in letteratura e ci sono alcuni punti interessanti. L’impresa delocalizzatrice (in genere medie o grandi imprese) aumenta la propria produttività, paga salari maggiori e assume nel medio periodo nuovi occupati (perché si espande). A pagare, in genere, sono le imprese sub-fornitrici italiane. Le quali come nel caso citato da Lottieri, delocalizzano a loro volta. 16 operai restano per strada, ma: una segretaria il figlio del capo ce l’avrà pure, no? E anche se non ce l’avesse, almeno i profitti restano in Italia. Mentre alla lunga, senza offshoring, la stessa impresa avrebbe dovuto chiudere con conseguenze peggiori per tutti. E’ la politica cieca a non avvedersene, perché risolvere il problema significa mettere mano al nostro “Welfare”. Cosa di cui non sono capaci. @alex
non penso che si debba chiudere ai paesi emergenti ma se i governi
lasciano che le cose si sistemino per conto loro il risultato e quello
di adesso e cioe disoccupazione e aumento del debito pubblico
Caro sig.Lottieri,
quanto dice in linea puramente teorica può essere condivisibile ma, ad esempio, quando Lei cita il dopoguerra, io ho vissuto e ricordo bene il $ a 625 lire e la grande forza delle ns esportazioni. I ns.prodotti industriali, meccanici in particolare e di artigianato, scarpe, borse, abiti, tele , tessuti, seta, ecc. costavano 1/3 ed 1/4 di quelli made in USA.
Ma i nostri operai , il 20% circa della popolazione, erano 10 milioni, ora il 20% di operai dei popoli di Cina, India, Vietnam, Malesia, Corea, Filippine ecc sono 400/500 milioni con una massa critica di produzione enorme, a costi 10 volte più bassi.
Ancora. Da noi negli anni ’60, ’70, ’80 , sindacati ed anche in parte legittime istanze hanno in modo molto rapido aumentato retribuzioni, garanzie, assicurazioni,costi per ambienti di lavoro, ecc. ecc. Nelle nazioni di cui sopra, gestite con statalismo e dirigismo paradittatoriale questo genere di rivendicazioni sono appena iniziate, molto timidamente e cautamente.
Le nuove regole del WTO quando giunsero furono una legnata e la successiva che sembra tutti vogliano ignorare e dimenticare fu la causa vera della nostra stagnazione attuale.
Mi riferisco all’Euro e la moneta unica che eliminava la svalutazione strisciante e continua della ns. lira, lo ricordate almeno ? Lo dovreste almeno tenere sempre presente.
Avendo ben in mente questa svalutazione continua, politica , sindacati ed anche i cervelloni di Confindustria, con i loro centri studio, davano aumenti, firmavano contratti, accettavano e facevano leggi scellerate sempre dimenticando piccola-media industria ed artigianato, tanto iniziavano a delocalizzare , ma con la moneta unica il giochino è finito ed il debito pubblico è diventato enorme.
Confindustria e grandi aziende , con le loro maestranze e le corti sindacali hanno aiuti di stato , anche se camuffati ed ogni garanzia ; le grandi aziende in gran parte hanno terminato il trasferimento dei centri produttivi e finanziari altrove mentre appunto,la piccola industria e l’ artigianato con il loro 90% degli occupati manifatturieri italiani, dispersi in centinaia di migliaia di aziende si sbattono i problemi e comunque alla lunga, come gli asini, veneti, lombardi, piemontesi, emiliani ed un po di toscani, umbri, abruzzesi e pochi altri risolveranno anche i problemi dei furbi…..
Bocconiani, teste d’uvo , economisti e simili cercate, caro sig. Lottieri
di guardare ben in faccia i problemi veri, reali e pratici.
Il 90% del manifatturiero italiano ha bisogno di buosenso , regole e provvedimenti reali e concreti, tenendo conto dei dati reali sopracitati.
Pier
Pessimo articolo che delinea una ignoranza di fondo.Io sono nazionalista perchè vivo in Italia ed è la mia patria.Carlo Lottieri visto che non è nazionalista lo inviterei a provare a lavorare e vivere in Cina.Si renderebbe conto che noi Italiani non possiamo competere con queste popolazioni, dove la manodopera non solo è sottopagata ma manca degli elementari diritti che dovrebbe avere un paese civilizzato.L’imprenditore che delocalizza impoverisce il paese e regala i nostri posti di lavoro, che lo sviluppo industriale delle generazioni precedenti hanno creato.In questo “ponte”non ci guadagna ne l’Italia ne altri paesi,ma solamente chi ci sta in mezzo.Il Made in Italy è stato disintegrato da un popolo che ha bisogno di copiarci tutto spudoratamente insediandosi anche in “casa nostra”.Come facciamo a competere con gente che mangia e dorme sul posto di lavoro produce con materiali provenienti dal loro paese e sparisce dopo la morte?Allora io dico chiudiamo le frontiere e mettiamo delle tasse penalizzanti sulle produzioni provenienti da questi paesi e teniamoci i nostri posti di lavoro.
Condivido pienamente l’articolo.
E’ sullo stesso (secondo me, malato) princìpio che l’articolo 18 dello statuto dei lavoratori viene strenuamente difeso da sinistra e negli ultimi anni pure da destra.
I politici, vil razza dannata, lo fanno per non alienarsi voti.
La stragrande maggioranza dei lavoratori dipendenti lo considera imprescindibile per poter costruire un futuro, proprio per tutte quelle cose che non si vedono. O che, più ipocritamente, non vogliono vedere.
Ottimo articolo, semplice e realista, sul tema del chi è più importante ho già scritto qui: http://romak.wordpress.com/2009/10/29/chi-e-piu-importante/
Ma la grande verità che hai scritto è:
“Siamo davvero all’abc dell’economia, ma evidentemente bisogna fare i conti con un analfabetismo di dimensioni preoccupanti.”
Dietro a questa frase c’è tutto. Credo che anche l’egoismo sia frutto di analfabetismo.
@Mauro
>L’imprenditore che delocalizza impoverisce il paese e regala i nostri posti di lavoro,che lo sviluppo industriale delle generazioni precedenti hanno creato
L’imprenditore li paga non li regala: banalmente cerca di non farsi fregare i soldi che gli servono per lui e per la società per cui lavora. O dovrebbe pagare di più qualcosa che può avere a meno?
I posti sono nostri se ce li meritiamo: non siamo mica lavoratori per diritto ereditario.
>competere con gente
L’imprenditore va fuori perchè gli rompono l’anima qui in Italia tra tasse e burocrazia conditi con inchini alla Magna Auctoritas: i politici cominciassero a mettere meno paletti e ti faccio vedere come ritorna il lavoro.
E’ lo stesso sistema che ha permesso all’Italia di essere la settima potenza industriale.
>chiudiamo le frontiere & tasse
già non funziona il controllo normale, figuriamoci per cose particolari come bloccare la produzione da Cina & C.
Le tasse all’ingresso alzano solo il prezzo delle cose: già la vita costa, rimane solo pagare di più per evitare di mettersi contro la burocrazia.
PS in India tempo fa spostavano lo sviluppo software perchè costava meno: adesso un architetto software (bravo, sia chiaro) guadagna molto più di uno italiano e comunque trova lavoro che lo sfama più facilmente di un equivalente italiano.
Ottimo articolo.
Io vorrei ricordare anche che ciò che i lavoratori italiani perdono come lavoro i consumatori italiani guadagnano come prezzi minori. Come si studia poche settimane dopo l’inizio di ogni corso di economia degno di questo nome, globalmente ciò che guadagnano i consumatori sovracompensa ciò che si perde come lavoro.
Purtroppo pare sia impossibile per molti capire una banalità come il fatto che per comprare 1€ di merci dalla Cina, occorre produrre 1€ di merci da dare in cambio, e quindi la produzione non può spostarsi solo da un lato dello scambio.
Per quanto riguarda gli USA, finché non bombarderanno la Fed saranno un impero in declino… 🙂
@mario fuoricasa
è un vecchio olivetti……
@Carlo Lottieri
non si offenda, ma quali dati ha per dirlo con certezza che le cose sono veramente cambiate in meglio in cina?
@Gianfranco Di Leva
concordo!
@marco2 </a
idem!
@marco
L’ambasciatore Sergio Romano, in un articolo su Liberal mi pare (non m iricordo quando di preciso, forse un anno fa), scrisse che la burocrazia cinese si trova a fronteggiare un crescendo di manifestazioni sociali contro di essa ed il Partito.
Sicuro la borghesia imprenditoriale si è allargata numericamente.
Lato libertà di espressione i ricercatori IT possono pubblicare i loro lavori sulla sicurezza senza essere arrestati (come NON accade negli USA: vedesi caso Dmitry Sklyarov – FBI).
Questi sono alcuni aspetti: altrimenti, cosa intendi di preciso per cose che sono state migliorate?
@alepuzio
Il regalo dei posti di lavoro va inteso ovviamente nel senso che il nostro sistema economico si basa esi regola sul prodotto interno lordo e sulla moneta circolante.Se produco in Italia dei componenti elettronici e li vendo qui,vuol dire che che avrò contribuito ad aumentare il P.I.L.In pratica, per esempio,se i componenti elettronici possono servire per una radio,che verrà comperata da un panettiere,che a sua volta venderà il pane a coloro che hanno lavorato ai componenti elettronici,il sistema starebbe in equilibrio da solo.Ma se io faccio fare i componenti elettronici in un altro Stato e magari riesco a venderlo qui in Italia a metà prezzo, succede che oltre a fare fallire o ad innescare lo stesso meccanismo per tutte le produzioni, a lungo termine e,come sta accadendo, il sistema è destinato a collassare. La nostra ricchezza, fatta di soldi e posti di lavoro, la stiamo semplicemente trasferendo.Il futuro che ci attende sarà di ritorno a situazioni economiche del dopo-guerra con una selezione “Darwiniana”dei pochi posti di lavoro che saranno rimasti.La nostra rivoluzione industriale l’avevamo già fatta e ora eravamo in una situazione di benessere relativo.I nostri padri hanno lavorato duro, hanno messo da parte i risparmi e hanno comperato delle case.Il “circolante” era accettabile.Le nostre “marionette”hanno accettato il W.T.O per consentire alle grandi “corporation” di specularecon la manodopera a basso costo, al solo scopo di arricchirsi ulteriormente, fregandosene altamente delle economie degli Stati.
@Mauro
se il panettiere compra una radio fatta in Cina e spende di meno allora gli rimangono più soldi per il resto, per esempio per comprare il forno nuovo.
Diversamente pagherebbe di più per una stessa cosa: quindi può comprare la radio oggi ma forse non domani perchè non è riuscito prima a risparmiare abbastanza.
La situazione di equilibrio da te descritta funziona per 1 scambio, non per più scambi suddivisi nel tempo e non decisi prima.
Il sistema sta collassando non perchè i cinesi producono con poco e vendendo per poco (visto che il problema della delocalizzazione si è sentito dal 2000 e il Socialismo del MErcato è cominciato dal 1984) ma perchè le aziende hanno troppi costi rispetto a quello che riescono a sopportare.
Le persone, col fisco che si prende metà stipendio, non hanno molto in banca e quel poco se lo conservano.
>hanno messo da parte i risparmi e hanno comperato delle case.
diffatti il tasso di risparmio è andato scendendo negli anni e molti si sono fatti le case con l’appoggio dei politici: l’ovvia conseguenza è il mercato immobiliare di ora che non è proprio alla portata delle nuove generazioni.
>economie degli Stati
Le megacorporation danno qualche valore aggiunto di sicuro, gli Stati non so a questo punto.
E’ molto peggiore la situazione di chi scende di quella di chi sale più lentamente.
Il principio per cui il prodotto cinese è competitivo perchè il lavoratore cinese che vive “da cinese” è competitivo non sta in piedi.
Il ragionamento giusto lo fece Ford quando intuì che il suo operaio doveva guadagnare abbastanza da potersi permettere l’automobile.
Tutto il resto sono le cagate di chi da questo sistema sta traendo enormi profitti a scapito, di:
– Lavoratori Cinesi sfruttati
– Lavoratori Occidentali licenziati che vivono di stato sociale
– Contribuenti occidentali che pagano lo stato sociale
– Future generazioni che dovranno affrontare il debito dei paesi occidentali.
L’invito alla riflessione del Prof. Lottieri con l’ottimo e scomodo articolo, traendo spunto da una situazione contingente, e’ una circostanza con la quale nessuno di noi vorrebbe essere costretto ad interagire. Molti interventi, anche un po’ semplici ed emotivi, nascondono piu domande che sentenze di una qualche utilità.
La quantità di persone che hanno sentito il bisogno di commentare costituisce ricerca di elementi per crescere nella consapevolezza del problema.
Nell’inutile, ma liberatoria attività sfogo personale possiamo pure dividerci tra pro e contro delocalizzazione, possimo pure dividerci tra destra sinistra sopra e sotto, possimo infine dividerci tra scuole di pensiero economico.
Ognuno parta pure dalle sue personalissime impressioni o certezze, ma se allarghiamo un attimo il campo della nostra visione con una minima onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che:
– fino a non molto tempo fa scaricavamo nel mondo la nostra miseria e le nostre capacità;
– quando si è manifestata la condizione, abbiamo sottratto lavoro ad altre economie nel mondo senza faci scrupoli dei posti di lavoro altrui;
– la nostra ricchezza e benessere, conquistate sul campo, non sono una condizione immutabile;
– oggi le condizioni sono diverse e va tutto reinventato, i diritti acquisiti sono una favola;
– nessuno ha il diritto a una decente esistenza oserei dire alla semplice esistenza per diritto divino.
– tutti hanno il diritto a procurarsi una esistenza decente agendo con quel fine grazie alla collaborazione, ma senza garanzia di risultato;
– le organizzazioni civili (economiche, politiche e religiose) non possono garantire alcun risultato definitivo e durevole;
– la pressione di gente ancora meno fortunata di noi alla lunga non è contenibile con nessun mezzo;
– lo scambiare le nostre legittime aspirazioni in diritto di vederle realizzate genera frustrazioni solo a chi vive una realtà distorta. Aiutiamolo!
– non siamo tutti uguali (nel bene e nel peggio);
– non siamo che di passaggio c’e’ stata storia prima e ci sarà storia dopo di noi;
– quando le condizioni cambiano bisogna cambiare con loro;
– la sofferenza lo sforzo e la fatica sono la benzina del cambiamento;
– i morti in battaglia (posti di lavoro per esempio) sono solo un fatto conseguente all’incedere degli eventi;
– nessun individuo può portare “da solo” la responsabilità per i morti in battaglia;
– nessuna organizzazione collettiva può rivendicare la vittoria della battaglia.
“Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera”
Questo è il pianeta terra.
Organizziamoci per passarcela al meglio (senza nessuna garanzia naturalmente).
Speriamo che l’atterraggio sia morbido.
A tutti quelli che penseranno che quanto ho scritto sono ovvietà rispondo: “Anche per me è ovvio!”.
Agli altri: “forza che ce la fate!”.
Sempre disposto ad apprendere qualche cosa in più, vi saluto cordialmente.
mario fuoricasa
Ho letto l’articolo con sommo interesse, commenti compresi, anche perchè la globalizzazione selvaggia la vivo in prima persona.
A me pare che l’autore ell’articolo abbia ben poca conoscenza diretta di cosa, di come sia oggi la competizione economica globale e soprattutto degli effetti che questa ha già prodotto e che produrrà ormai inevitabilmente nel tessuto economico sociale occidentale.
Una buona serie ne è stata elencata nei commenti. Ne aggiungi ancora uno:
Anche lui probabilmente ne resterà vittima, a meno che non faccia parte dell’oligarchia, molto ristretta però, che invece grossi vantaggi ne ha avuti e ne avrà.
avrei voluto scriverlo io!
Visto che i lavoratori cinesi sono sfruttati anche in Italia, non vedo come possiamo impedire di farli sfruttare in Cina. In ogni caso anche molti italiani lavorano in condizioni che rendono estremamente difficile fare una normale vita sociale, fare figli e seguirli.
La pacchia della svalutazione della moneta è temporaneamente finita e la mancanza di organizzazione e di meritocrazia sta finendo di far saltare il sistema. Faccio notare che ci sono sempre dei monopoli, dall’energia ai taxi e ai costi delle abitazioni che impoveriscono i cittadini … e non possiamo certo dare la colpa ai cinesi.
Mi sembra evidente che possiamo solo spostare le nostre attività in settori legati alla conoscenza, qualità , legati ai servizi di alto livello tecnologico, al turismo, all’agroalimentare, ecc.
Su altri settori NON ABBIAMO SPERANZE, a meno che non siamo in ambiti innovativi e di nicchia.
Vorrei ricordare ai commentatori precedenti che un paese che dal dopoguerra vive principalmente sull’esportazione di manufatti realizzati con materie prime importate è per questi stessi motivi doppiamente penalizzato dalla crescita dei paesi emergenti condotti con una struttura dirigista o dittatoriale.
Chi opera in regime monopolistico, chi nei servizi e nel turismo vive nel suo mondo ed opera sui prezzi a piacimento o quasi.
L’industria privata manifatturiera non può permetterselo ed alla lunga anche lo Stato dovrà amaramente ed in ritardo constatarlo.
Come dice giustamente “Pastore Sardo” non abbiamo speranze nei prodotti a basso valore aggiunto, è ovvio, ma anche per i prodotti di alta gamma un più 25% per l’energia, un più 20% sul costo complessivo del lavoro ed un più 25/30% di costi della pubblica amministrazione, rispetto non ai paesi emergenti, ma a Germania, Francia , Inghilterra , Benelux e Spagna, per citarne solo alcuni, sono una zavorra che veramente può farci affogare.
Pier
Qualcuno ha fatto notare che la Cina si sta spostando verso produzioni a maggior contenuto tecnologico, ma vale la pena sottolineare che dei circa 1 miliardo e 200 milioni di cinesi, il miliardo circa ara letteralmente il campo con il bufalo.
Questo serbatoio di forza lavoro è disposto a compiere sacrifici che noi chiamiamo disumani (perchè per nostra fortuna siamo abituati bene) ma che per loro corrispondono a uscire dalla miseria.
Alle spalle c’è una regia in grado di amministrare efficacemente lo sviluppo di un continente e non di una Nazione, in grado di scegliere politiche economiche che pagano nel lungo periodo e non entro il mandato elettorale, che ha già fatto scelte ciniche di ingegneria sociale come l’azzeramento del welfare in una situazione di sovrapopolazione.
Quindi quando il miliardo circa di cinesi smetterà di arare il campo col bufalo è una domanda a cui qualcuno a Beijing cerca di rispondere con l’ora.
Nel frattempo noi impareremo di nuovo a usare le toppe, nella speranza che il dolore della transizione si limiti “solo” a questo.