Crisi, credito e fair value
Due interessanti papers per chi volesse approfondire topics della crisi finanziaria. Confutano alcuni luoghi comuni del dibattito sulla crisi.
Il primo è di Alan Taylor della Univeristy of California-Davis, e di Fritz Schularick della FUB di Berlino. Analizza in una prospettiva di lungo periodo, dal 1870 al 2008, gli andamenti del credito, della moneta e degli aggregati economici per 12 Paesi avanzati. Conferma alcuni punti fermi, e cioè che la leva finanziaria nel sistema è cresciuta molto nella seconda metà del secolo scorso e fino alla crisi attuale, per via della separazione crescente tra moneta e aggregati di credito, con la prima prodotta sempre più attraverso canali sintetici e virtuali di fatto esclusi dal controllo delle banche centrali. Ma confuta anche alcune verità che ci si vorrebbe attualmente propinare, a cominciare da quella per la quale “le banche centrali hanno imparato”, e sono cioè oggi assai più brave che in passato a fronteggiare crisi sistemiche attenuandone l’impatto. Non è vero. Le risposte monetarie alle crisi sono divenute – questo sì – sempre più massicce, addirittura oceaniche. Ma l’impatto sull’economia reale non è affatto per il momento minore, a due anni quasi dalla crisi: anzi. Anche la conclusione non è male: è il boom di credito troppo facile a sfociare sempre in crisi sistemiche, e il regolatore monetario e quello politico dovrebbero ricordarsene bene, invece di giustificare ogni volta tassi troppo bassi in nome dell’anticiclicità e della necessità di creare così più occupati.
Il secondo paper smentisce invece altri luoghi comuni che ricorrono sistematicamente, a proposito degli effetti di ampliamento della crisi che sarebbero stati rappresentati dall’adozione del fair value come principio contabile, cioè la stima degli asset patrimoniali aggiornata a prezzo di mercato invece che a valore di libro. Gli autori sono quasi omonimi e infatti anche lontanamente parenti ma con diversa grafia, Christian Leuz della Chicago Booth, e Christan Laux della Goethe Universitaat di Francoforte. Dati empirici comparati alla mano su diversi mercati, i due economisti smentiscono la colpevolezza del fair value. Non è stato lui, a generare spirali di svalutazioni che hanno messo a rischio la stessa continuità di tantissime banche. Ma la sistematica tendenza bancaria a sopravvalutare la qualità dei propri attivi. Aver sospeso il fair value, per consentire alle banche di rifiatare e ripatrimonializzarsi ma non troppo, potrebbe far ripartire le banche esattamente dall’errore sistemico sottovalutato dai regolatori e che ha concorso alla crisi, e cioè attivi troppo artificiosamente gonfiati.
Senza contare che valutare anche una parte degli attivi delle banche ad un valore sensibilmente diverso da quello di mercato rende molto poco attendibili i loro bilanci.
Mi piacerebbe sapere, vista la giusta evidenziazione che dà a questa interessante ricerca sul fair value, come lei Giannino, si pone nei confronti della tesi esattamente opposta portata avanti, con ripetute esternazioni, da parte di uno dei campioni del liberismo economico militante, ovvero Luigi Zingales, che sin dall’ottobre 2008 ha pervicacemente puntato il dito contro il mark to market, giudicato responsabile della trasformazione di eventuali crisi di liquidità in crisi di insolvenza. Qual’è a questo punto la posizione più rispettosa della filosofia economica liberista?
Le due tesi (a giudicare dagli abstract) mi sembrano del tutto condivisibili.
L’idea di un “credit boom gone wrong” mi fa ricordare il WP della BIS di Eichengreen e Mitchener in cui di fatto riscoprivano la teoria del ciclo austriaca in forma finanziaria (coerentemente con l’habitus mentale di non dire mai nulla di innovativo neanche sotto tortura, infatti, gli asutriaci contemporanei hanno sempre trascurato la finanza, at their peril). Sulla stabilizzazione io direi questo: una politica monetaria attivista nel breve termine può diminuire la varianza delle oscillazioni, ma lo fa assicurando gli agenti economici e quindi generando maggiore instabilità nel lungo termine. E così abbiamo che agli interventi relativamente efficaci del 1987, del 1990 e del 1998 sono seguiti gli interventi sempre più inefficaci del 2000 e del 2007: la politica monetaria discrezionale tende a castrarsi da sola. La credibilità di Greenspan è tutta basata su una serie di coincidenze: l’economia americana si è salvata da una spirale inflazionistica o da una stagnazione grazie all’innovazione finanziaria, l’innovazione tecnologica, la deregulation e la globalizzazione, che hanno nascosto l’inconsistenza temporale inevitabile delle politiche discrezionali.
Per il resto, criticare il fair value accounting è uno strumento di politica monetaria, esattamente come dare credito senza stigma (senza rivelare chi è il compratore, come nel TAF), cioè aumentando le asimmetrie informative, o creare moral hazard proteggendo gli investitori dal rischio. Questi strumenti infatti servono a rendere gli investimenti elastici e stimolarli: il TAF consente di finanziarsi di nascosto senza essere scoperti dal mercato, evitare lo short selling serve per impedire al mercato di scontare le informazioni negative, eccetera. In quest’ottica il Fair Value Accounting è un pericolo sia direttamente che indirettamente (tramite i requisiti di capitale). In poche parole, mentre gli economisti teorici dicono che i mercati falliscono per imperfezioni legate alle asimmetrie informative, gli economisti pratici hanno capito che incentivare le asimmetrie informative può essere considerata equivalente ad una politica monetaria espansiva vera e propria, ed estenderne l’efficacia pratica a costo dell’efficienza allocativa dei mercati, che ne risulta compromessa. Stiamo in mano ad una massa di apprendisti stregoni.
PS Ho scoperto che i due wp sono disponibili gratuitamente su NBER, per chi volesse scaricarli. Su SSRN mi dice di comprarli.