Crescita, tre dati non contrastanti
L’Istat ha diramato il dato relativo all’andamento della produzione industriale ad agosto, che con il suo più 9,5% di variazione tendenziale annuale, ha diffuso ottimismo come miglior dato di questo tipo dal 1997. Poche ore dopo, il centro studi di Confindustria ha diramato una prima stima della produzione industriale a settembre, che con un meno 0,7% rispetto ad agosto ha raffreddato l’ottimismo di poche ore prima. Ciliegina sulla torta, l’Ocse sempre oggi ha rilasciato una stima aggiornata del suo Composite Leading Indicators, e il messaggio è diventato ancor più contraddittorio: perché mentre Germania, Giappone e Russia secondo l’indicatore sono definiti in espansione, Italia, Francia, Regno Unito e addirittura India sono segnalati come “in contrazione”. E’ evidente che, di fronte a dati apparentemente tanto contraddittori, esistono due rischi di ordine diverso. Il primo, inevitabilmente, è che la vasta platea di non addetti ai lavori, cioè di chi non ha cognizione di statistiche economiche e metodologie di stima della crescita, non ci capisca nulla. La seconda è che la politica si comporti disinvoltamente secondo il metodo pret-a-porter, come si fa pescando cioè dall’armadio l’abito che più asseconda i propri desideri, e sottolineando il dato più ottimistico o quello più pessimistico a seconda tifi per il governo o per l’opposizione. Cerchiamo invece cercare di spiegare il più semplicemente possibile i dati, perché la statistica economica non è materia per pazzi né per ubriachi. Vediamo allora di capire come e perché i tre dati diversi non siano assolutamente in contraddizione.
La crescita del 9,5% tendenziale – significa su base annuale – della produzione industriale ad agosto appare un buon dato – anzi ottimo, secondo solo in Europa a quello tedesco, che spera il 10% – perché incorpora un aumento della produzione industriale ad agosto su luglio pari all’1,6%, e gonfia il dato annuale perché ad agosto l’aumento è stato superiore del 100% rispetto alla media dei tre mesi precedenti, che hanno visto la produzione industriale crescere del 2,4% cioè in media dello 0,8% mese per mese. Tanto è vero che se al dato congiunturale di agosto si somma invece la prima stima della produzione industriale di settembre stimata da Confindustria, cioè un meno 0,7% su agosto, ecco che la media mensile torna in linea con quella del trimestre precedente ad agosto, anzi lo abbassa alla media mensile di un più 0,6% sul mese precedente, dal marzo 2009 che segnò la parte più bassa della crisi. Tenendo conto di questa correzione, il tasso di crescita tendenziale annuale della produzione industriale scende dal 9,5% del dato positivo di agosto, a un più 7,7%.
Ma questi dati sono tutti relativi ad andamenti appunto tendenziali. In realtà, per capire a che punto stiamo davvero della crisi, ha più senso considerare i livelli della produzione industriale, non le percentuali degli andamenti.
Se consideriamo i livelli dal marzo del 2009, cioè da quando la crisi ha colpito più duramente la produzione industriale italiana a seguito della crisi più nera del commercio mondiale, abbiamo guadagnato circa l’11,8%. Ma rispetto a u anno prima, all’aprile del 2008 quando la produzione industriale era al picco prima della crisi, restiamo ancora lontani del 17%: fatta pari a 100 la produzione industriale di 2 anni e mezzo fa, a settembre siamo dunque ancora fermi a 83. Per tornare alla quota 100 della primavera 2008, con questi ritmi dovremmo aspettare ancora sino al 2013. E la cosa più preoccupante è che nel terzo trimestre 2010 abbiamo assistito a un rallentamento della velocità di ripresa italiana, rispetto al primo trimestre in cui la produzione industriale era aumentata dell’1,9% sul quarto 2009, e al secondo in cui era salita del 2,2% sul primo 2010.
E’ esattamente questa minor velocità di ripresa negli ultimi mesi, che viene rispecchiata nell’indicatore composito dell’Ocse secondo il quale siamo “in contrazione”, che non significa recessione cioè crescita negativa ma rallentamento del ritmo precedente delle attività economiche. L’indicatore composito tiene conto di ordinativi e fiducia nel mercato domestico ed estero, è un dato cioè “qualitativo” e non quantitativo: è lo stesso indicatore che nel 2009 vedeva l’Italia – meno colpita dal debito aggiuntivo per salvare le banche – messa meglio di praticamente tutti gli altri grandi Paesi europei.
Se consideriamo i diversi settori che più contribuiscono alla ripresa industriale italiana, abbiamo la conferma che si tratta di quelli legati alle nostre specializzazioni di eccellenza nel commercio mondiale, e cioè innanzitutto i macchinari e i prodotti in metallo, le apparecchiature elettriche idrauliche ed elettroniche. Ad andare molto meno bene è il mercato domestico dei beni di consumo. Nei primi otto mesi del 2010 infatti la produzione di beni strumentali sale del 6,5%, quella dei beni di consumo solo del 3,2% e, tra questi ultimi, quella dei beni durevoli cresce solo di un risicatissimo più 0,8%.
E’ purtroppo la conferma del paradosso della crescita italiana, che resta soprattutto appoggiata alla gamba estera del’export ma continua a scontare una debolezza estrema dei consumi interni. E’ essenzialmente dovuta al fatto che per circa 7-8 milioni di italiani, lavoratori dipendenti del settore privato senza altre cospicue integrazioni familiari di reddito da attività finanziarie o di altro genere, il reddito disponibile anno per anno si è avvalorato da metà anni 90 di esigue frazioni di punto percentuale ogni anno, con una diminuzione di potere d’acquisto in termini reali cioè al netto nominale dell’andamento dei prezzi. E’ la ragione per cui crescevamo meno degli altri prima della crisi, e rischiamo senza riforme ci continuare a crescere meno anche dopo la crisi. Negli anni 2001-2008, il PIL italiano è cresciuto in media dell0 0,8% annuo e il PIL procapite dello 0,4%. I due dati tedeschi sono stati dell’1,2% e dello 0,8%. Quelli degli Stati Uniti dell’1,3% e dell’1,7%.
Quel che serve dunque non è ottimismo infondato né pessimismo di maniera. Al rallentamento in corso in questi mesi di Stati Uniti e di mezza Europa – che significa meno traino per il nostro export – si somma nel caso italiano la necessità di diverse relazioni industriali che accrescano insieme produttività e salario ai dipendenti, e misure energiche per alzare la produttività di quel 70% di Pil italiano costituito da servizi e pubblica amministrazione, che continua a darci solo il 30% della crescita potenziale nel breve periodo. Senza la gamba interna oggi rachitica perché non esposta alla concorrenza, la crescita italiana continuerà forse, ma rischia di restare più lenta e difficile di quella dei nostri competitor.
E’ inevitabile che le economie terziarizzate crescano lentamente e che comunque anche avendo il miglior sistema politico/econoico sarebbe difficile vedere tassi di crescita a doppie cifra, quello che mi domando è se sia possibile continuare a ignorare gli squilibri sistemici della nostra Nazione.
Non sono pessimista, ma inizio a pensare che lo spazio per degli interventi di politica economica si sia notevolmente ristretto nel corso dell’ultimo decennio, un po per i vincoli dell’ EU un po perchè ho la netta impressione che se si volesse dar corso a politiche di forte impatto economico, si dovrebbe partire dalla ristrutturazione della struttura dello stato che appare oggi quanto meno zavorrante per l’economia se non dannoso. Con sincera onestà, mi sembra evidente che quello stato che la nostra carta costituzionale ha teorizzato con irritante minuzia, oggi non solo dimostri tutti i suoi limiti di funzionamento ma si è dimostrato anche incapace di sanare squilibri (ved. scissione economico-sociale Nord-Sud) vecchi di 160 anni e non ha impedito ad intere classi politiche di compromettere quell’ipotetico patto generazionale che ha posto una seria ipoteca sul futuro delle nuove generazioni , che si ritroveranno a dover pagare tutte le amenità ed i lazzi che nonni e padri hanno farfugliato da 1946 ad oggi.
utile analisi ma un commento generale: grafici grafici grafici! È sempre vero che un’immagine vale più di mille parole 🙂
Analisi interessante ed onesta sull’ambiguità dei dati.Rimane lo sconforto di una senzazione.Da questa crisi non se ne esce con i metodi convenzionali.La banale facilità con cui si aumenta il debito,ricorda la strampalata teoria del salario come variabile indipendente.Un virus si è installato nella macchina e la rallenta.Se non si ha il coraggio di ripristinare il sistema operativo,forse si potrà sopravvivere,ma non rinascere.
Bravissimo, peccato che sia rivolto a persone oneste e moderatamente intelligenti, qualita’ sempre piu’ rare nella classe politica e sovente anche dirigente.
Non si spiegherebbe altrimenti la resistenza ad applicare, almeno in funzione anticiclica, se non di giustizia, il taglio del fiscal drag o cuneo fiscale (non necessario per le partite IVA che possono recuperare l’extra adeguando le tariffe, come fa sollecitamente e con qualche abbondanza preventiva la classe politica).
Non si spiega neanche la predilezione nel mantenere il dibattito sul lavoro focalizzato sul costo (peraltro tra i piu bassi in Europa), che tuttavia ha alcuni bachi logici che raramente vengono analizzati
1)la costruzione del costo lavoro e penalizzato da un handicap politico costituito dal carico fiscale elevato essendo il prestatore d’opera il contribuente modello per questo fisco incapace
2)la produttivita’ tirata in ballo da coloro che vogliono fare gli eruditi imparziali (e che e’ effettivamente il parametro che piu preoccupa (e mi faceva dire gia nel 2003 che eravamo in piena deindustrializzazione, siamo rimasti infatti fermi ai prodotti maturi, perdendo tutte le nuove tecnologie), dobbiamo chiarire quali sono i contributi di voci come: a)formazione b)organizzazione c)revisione dei processi d)tecnologie e macchine
e)commitment dell’operatore f)flessibilita’ della forza lavoro
3)costo della pubblica amministrazione (per un’analisi un giorno di assenza)
4)costo dell’arretratezza infrastrutturale (tempi per raggiungere il posto di lavoro, efficienza logistica, banda larga)
5)posizioni monopolistiche sovente dello stato (es. energia)
Quando mai? tutti sciocchi? in parte SI! ma troppi disonesti,