21
Giu
2021

Coronavirus: la tentazione dello Stato-padrone

Pubblichiamo alcuni brani tratti dal capitolo “La tentazione dello Stato-padrone” contenuto nel libro L’ospite inatteso. Il Coronavirus nello scontro tra statalisti e liberisti, di Attilio Romita e Michele Cozzi (Cacucci editore, 2021, 262 pp., 18 euro)

Si riaffaccia con la pandemia il ruolo invasivo, “direttivo” e non “regolatore” dello Stato nell’economia e nel mercato? La verticalizzazione del potere, il rapporto populista tra Dominus e popolo, l’annullamento (forzato?) dell’intermediazione e persino la neutralizzazione, più o meno parziale del Parlamento, rilanciano il “racconto”, caro ai populismi di destra e di sinistra, del ruolo prioritario e salvifico dello Stato. I cui sostenitori, sulle orme degli economisti neokeynesiani, Piketty e Mazzucato, si rivitalizzano, e puntano a prendersi la loro rivincita contro la rivoluzione liberale, di Reagan e Thatcher, nonché i timidi epigoni di sinistra, da Blair a Renzi a Macron, che hanno tentato di innervare la vecchia pianta con nuova linfa. Il nuovo verbo: tutto il potere allo Stato. È l’effetto del cosiddetto “covidalism”, come efficacemente lo definisce Alberto Orioli, vice direttore del Sole24Ore.

Un toccasana per i cultori che tramandano la “favola nera” del liberismo imperante, per definizione “affamatore di popoli”, “regno dell’anomia” e della marginalizzazione dei diritti, nonostante l’evidenza empirica dei livelli altissimi di tassazione, della burocratizzazione dello Stato, e della montagna di leggi e norme che impongono i ritmi della vita quotidiana. Per i liberisti di ogni scuola non tira buona aria. Tant’è che il commissario per l’emergenza, Domenico Arcuri, sulla vicenda del prezzo imposto di 50 centesimi delle fantomatiche mascherine, apostrofa come i “liberisti che emettono sentenze da un quotidiano con un cocktail in mano”, coloro che osano sollevare qualche dubbio sull’efficacia delle “mascherine di Stato”. Un tentativo di rivincita storica che fa a pugni con tendenze e dinamiche ormai secolari intorno al ruolo dello Stato-Nazione (che si caratterizza per la possibilità di avere un esercito, stampare moneta e proteggere le frontiere), e con il cedimento di quote di sovranità verso l’alto (l’Unione europea e altri organismi internazionali) e verso il basso, il sistema delle autonomie.

Nel caso italiano, la miscela esplosiva del dopo-virus, (ma i segnali erano evidenti già nei mesi precedenti), vede il consolidarsi di un “populismo di governo” proprio quando il “populismo sociale” sembra in affanno. Così, senza soluzione di continuità, si è passati dal populismo di destra, della coalizione gialloverde, al populismo di sinistra, della coalizione giallorossa. Se l’accordo tra M5S e Lega aveva prodotto provvedimenti assistenzialistici, come il reddito di cittadinanza, reddito di dignità e “quota 100”, anche la nuova coalizione, con l’accordo tra M5S e sinistre, prosegue sulla stessa strada: reddito di cittadinanza (confermato), reddito di emergenza (per i settori colpiti dalla crisi), quota 100 (confermato, costo di 20 miliardi per mandare in pensione 230.000 lavoratori in tre anni), intervento pubblico più accentuato per risolvere le situazioni di crisi (dall’Alitalia all’Ilva), attraverso un ruolo partecipativo ed interventista dello Stato. Fino al top del provvedimento sulle Autostrade, con l’estromissione di fatto del gestore privato. In questa ottica si inserisce la kermesse di fine giugno del governo, i cosiddetti Stati generali, una chiamata a raccolta del mondo imprenditoriale e sociale italiano e non, per elaborare una piattaforma, un programma, per utilizzare al meglio i fondi in arrivo (e promessi dell’Unione) che il premier Conte giustifica come strumento per riempire di contenuti, di piani, necessari per ottenere ed utilizzare i fondi europei del Recovery Fund. Stati generali, i cui contenuti (180 progetti e 9 direttrici) vanno ad aggiungersi o ad opporsi al piano redatto dagli esperti della commissione Colao, tra i quali l’economista Mariana Mazzuccato che però non lo firma, consistente in oltre 100 proposte per innovare la macchina dello Stato (semplificazione, deburocratizzazione, green economy, infrastrutture), che suscita opinioni oscillanti tra “il libro dei sogni” e “film già visto”.


Come si fa a bilanciare lo tsunami statalista, rimettendo in circolo la distinzione tra Stato interventista, che decide cosa fare, in quale settore intervenire, e Stato regolatore? Per i sostenitori dell’economia di mercato, della distinzione dei ruoli, già storicamente minoritari nel Paese, la partita sembra ormai persa. È difficile contrastare, in una situazione di lampante disagio, i tardi e nuovi epigoni delle teorie dello “stato imprenditore”. In un Paese che, grazie o a causa, delle due grandi subculture, cattolica e comunista, non ha storicamente visto di buon occhio la cultura liberale e l’autonomia del mercato: dall’epoca dell’Iri, alla Gepi, ai lunghi anni delle partecipazioni statali. Così in piena pandemia l’invincibile armata degli statalisti occupa gli avamposti culturali, in cui si forma l’opinione pubblica, (quelli istituzionali sono già presidiati dall’alleanza giallorossa). Il nuovo verbo diventa: solo lo Stato può salvare l’economia italiana, che ha dato il meglio di sé nel fronteggiare l’emergenza sanitaria.

Romano Prodi, capofila del rinascente statalismo economico italiano, lancia la proposta dello Stato come azionista di minoranza, nelle imprese “salvate” dai soldi pubblici. La partita, come afferma Angelo Panebianco, è tra “statalisti consapevoli” e “statalisti inconsapevoli”. I primi hanno piena consapevolezza delle proprie idee, tardi epigoni dei piani quinquennali, dell’economia mista o dell’economia sociale. Questa tendenza è ben rappresentata sullo scacchiera della politica: da Leu, la costola alla sinistra del Pd, che è al governo, fedele difensore della tradizione, ad ampi settori del Pd, la vecchia Ditta tornata maggioritaria sotto nuove spoglie, dalla sinistra cattolica, confluita nel Pd, al populismo del M5S, i latecomer, a settori nemmeno trascurabili di una destra interventista in economia, nonostante lo scimmiottamento delle teorie liberali. Poi, ci sono gli statalisti inconsapevoli. Fanno un ragionamento di questo tipo: c’è una emergenza, occorre difendere i diritti e dare ossigeno alla popolazione e, quindi, un periodo transitorio di più Stato, e persino qualche limitazione della libertà, possono essere accettati perché questo non mette in crisi la struttura complessiva dello Stato liberale. Così commettono, forse per ingenuità, un errore non trascurabile: uno Stato che si allarga, che occupa sempre più gangli vitali della vita sociale ed economia, con i suoi funzionari pubblici che governano progressivamente la vita dei cittadini e l’economia, crea un “sistema” pietrificato difficile se non impossibile da decostruire.

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