Controlli sui capitali, svolta storica?
Nel suo ultimo articolo, scritto per Project Syndicate, Dani Rodrik (economista eterodosso come può esserlo chi si discosta dai precetti di assoluta libertà dei movimenti di capitale) segnala un importante mutamento di rotta da parte del Fondo Monetario Internazionale, che lo scorso 19 febbraio ha pubblicato una nota di policy in cui si sostiene che tassazione e restrizioni sugli afflussi di capitale possono essere utili, oltre a rappresentare uno strumento “legittimo” dell’armamentario dei policymaker.
Si tratta di una dichiarazione per molti aspetti storica, che sovverte quella che per almeno due decenni è stata la granitica posizione ufficiale del FMI, reiterata non più tardi dello scorso novembre dallo stesso direttore generale del Fondo, Dominique Strauss-Kahn, in reazione alla tassa imposta dal governo brasiliano sulle transazioni finanziarie in entrata nel paese, nel tentativo di contrastare gli afflussi di “denaro caldo” speculativo. Questi afflussi valutari determinano non solo una pressione rialzista sul cambio dei paesi coinvolti, minandone la competitività, ma anche una più generale tendenza all’instabilità dei rapporti di cambio, che spesso finiscono con l’assumere andamenti esplosivi, al venir meno delle condizioni che hanno causato gli afflussi valutari, danneggiando lo sviluppo di Pil ed occupazione.
Il FMI fornisce l’elenco dei paesi (tra essi Cile, Colombia e Malaysia) che sono riusciti ad imporre controlli valutari efficaci, e Rodrik specifica che occorrerebbe un approccio contingente alla materia, poiché non tutte le tipologie di controlli (tasse, vincoli quantitativi, requisiti di riserva infruttifera) possono adattarsi alle caratteristiche istituzionali e burocratiche dei paesi interessati. Rodrik si spinge ad invocare la creazione di un ambito di ricerca ed advisory, entro il FMI, proprio per identificare a livello contingente le misure più efficaci per ogni paese coinvolto.
Caduto lo stigma dei controlli di capitale, argomenta Rodrik, il prossimo passo è l’istituzione di una tassa sulle transazioni finanziarie globali, dall’aliquota estremamente contenuta (suggerito lo 0,05%), ma tale da raccogliere centinaia di miliardi di dollari, oltre a scoraggiare attività speculative di brevissimo termine sui mercati. Quella che fino a ieri sembrava un’eresia oggi potrebbe essere vista sotto una luce diversa. Si pensi alla criticità delle operazioni di carry trade, recentemente segnalata anche da Oscar Giannino, come esito dell’attività di trading finanziario globale. Oppure al compito titanico, oltre che potenzialmente devastante sul piano sociale, che i governi dovranno affrontare nel tentativo di colmare le voragini aperte nei conti pubblici per effetto della crisi, che ha causato un crollo di gettito fiscale e l’espansione di programmi di sostegno ai disoccupati.
Gli squilibri valutari globali che caratterizzano la nostra epoca sono frutto del combinato disposto di una forte creazione di liquidità da parte delle banche centrali (segnatamente della Fed) e dell’affermarsi di un’innovazione finanziaria sempre più sofisticata, sia nelle forme tecniche contrattuali che nell’utilizzo della tecnologia, in mercati interconnessi in tempo reale. Una tassa sulle transazioni valutarie servirebbe ad aumentare il grado di “attrito” del sistema finanziario, riducendone l’intrinseca instabilità macroeconomica. Oggi, per contrastare il potenziale destabilizzante indotto dall’hot money, occorrerebbe pensare ad un’operazione di drenaggio della liquidità che, realisticamente, non ha alcuna possibilità di realizzarsi. Esiste, per contro, l’interesse convergente di molti paesi sviluppati e dei paesi emergenti. I primi, come detto, piagati da deficit di bilancio che, in assenza di crescita appaiono non recuperabili per via ordinaria; i secondi interessati a non vedere deragliare il proprio processo di decollo economico per opera di fondi volatili che per definizione hanno poca o nulla attinenza con la crescita.
Resta la risoluta opposizione degli Stati Uniti ad ogni ipotesi di tassazione dei flussi finanziari internazionali, recentemente ribadita dal Segretario al Tesoro, Timothy Geithner. Una posizione che potrebbe essere rivista, se la crisi continuerà a devastare i conti pubblici, e data la conclamata incapacità a riformare le istituzioni finanziarie globali per controllare o attenuare il rischio sistemico da esse generato. Per ora ci basta constatare che il FMI ha abiurato da quello che da sempre rappresentava il suo primo dogma. Viviamo tempi decisamente interessanti.
Io propongo una ulteriore visione del problema
http://ideashaveconsequences.org/valzer-di-strauss-per-il-fmi/leo
Da una parte il FMI si apre a un più ampio ventaglio di politiche fiscali e monetarie, guadagnando consenso presso una più vasta platea di Governi/contributori; dall’altra la sua posizione è il tentativo di soluzione della Inconsistent Trinity che attanaglia attualmente gli Stati (nel momento in cui “cercano” di tenere i cambi entro limiti ristretti, il che è un tasso amministrato più che un tasso fisso, ma le conseguenze sono le stesse).
Si cerca di creare “isole economiche-monetarie” perché le politiche messe in campo sono, lo sappiamo, dis-equilibratrici, e per essere “efficaci” deve essere impedito il normale funzionamento del mercato, flussi internazionali compresi.