5
Gen
2010

Contro l’Austro-masochismo

Questo post è il seguito del precedente in quanto parlo dei problemi interni della Scuola austriaca, un corpus di dottrine con un ottimo potenziale per spiegare fenomeni quali i cicli economici, ma che da qualche decennio vivacchia in sordina. La Scuola austriaca era parte del mainstream negli anni ’30, ma successivamente è scomparsa dalle riviste che contano, dai libri di testo, e dai programmi delle università, tanto che quasi nessun economista contemporaneo di rilievo ha assorbito le idee della Scuola austriaca nel suo complesso. Questa è l’evidente sintomatologia di un fallimento, ma qual è la diagnosi?

Possiamo distinguere tra cause endogene, autoimposte, e cause esogene. Tradizionalmente, gli austriaci si sono focalizzati sulle seconde, come eventuali bias interventisti delle politiche che fanno sì che solo i keynesiani arrivino nelle università. Non nego che questi fenomeni possano avere un fondamento, ma, se Friedman, Lucas e Prescott un posto l’hanno avuto, il problema non può essere posto solo in questi termini. Focalizzare l’attenzione sulle cause esogene è solo una forma di autoassoluzione, e non serve a niente.

In questo post mi occuperò delle cause endogene, con una particolare attenzione alla teoria del ciclo, perché è l’argomento che conosco meglio. Ogni Scuola è sia una realtà sociologica che un insieme di idee: sebbene ci siano problemi su entrambe i fronti, mi focalizzerò sui problemi sociologici. Infine, di Scuole austriache ce ne sono due: quella ortodossa, diciamo il Mises Institute, e quella eterodossa, diciamo la George Mason University. Quando si parla di Scuola austriaca su internet si intende sempre la prima, e parlerò soprattutto di questa.

Primo problema: mancanza di sviluppi. Dagli anni ’40 in poi non ci sono stati sviluppi interessanti, e diversi temi potenzialmente rilevanti come il ruolo delle istituzioni finanziarie non-bancarie, i flussi di capitale internazionali, i mercati finanziari, e il ruolo del moral hazard sono stati o del tutto trascurati oppure trattati superficialmente.

Secondo problema: sottospecificazione teorica. Esistono una serie di punti della teoria che non derivano logicamente dalle premesse: ad esempio, perché e come gli imprenditori siano tratti in inganno dalla politica monetaria è un tema ancora aperto sul piano teorico. Mises negli anni ’50 diceva che si trattava di una generalizzazione empirica e non di un fenomeno microfondato teoricamente, e ancora oggi stiamo allo stesso punto. Come altro esempio, gli austriaci non hanno mai voluto riflettere sul ruolo della velocità di circolazione della moneta e dei mezzi di scambio non monetari (creditizi) nello squilibrio economico. Le uniche eccezioni sono Hayek, che si dimenticò del problema negli anni ’30, e Horwitz, la cui trattazione è a parer mio insoddisfacente.

Terzo problema: lotte intestine sterili. Chiunque abbia letto il dibattito sul calcolo economico tra difensori e critici di Hayek probabilmente si sarà annoiato senza imparare granché. A voler semplificare, gli ortodossi affermavano, contro ogni evidenza, che Mises e Hayek dicevano cose opposte, mentre gli eterodossi si rendevano conto della complementarità, quando non della somiglianza, tra le due analisi. Il dibattito è stato violento, ma soprattutto sterile. Il dibattito sul free banking non è stato migliore: ognuno argomenta contro tesi che gli altri non difendono e dimentica di analizzare i temi realmente fondamentali, e così gli ortodossi continuano a ragionare come se fosse provato che ogni espansione del credito monetario, e solo questa, generi instabilità, e gli eterodossi come se il problema non esistesse (col risultato che alla fin fine non rimane nulla di austriaco nelle loro costruzioni teoriche).

Quarto problema: incapacità di interagire con l’economia contemporanea. Non è utile continuare a criticare Keynes, Friedman e Arrow-Debreu nel 2009: nel frattempo è successo molto in tutti i campi. Mentre non conoscere una Scuola eterodossa può non essere un problema, non conoscere il mainstream è masochistico: sarebbe come fare ricerca scientifica in italiano anziché in inglese. Le critiche austriache al mainstream sono spesso antiquate, manieristiche e poco informate. Se si vuole esser presi sul serio dagli altri, occorre imparare a prendere gli altri sul serio.

Quinto problema: mancanza di operazionalizzazione e di lavori empirici. L’operazionalismo è la dottrina secondo cui ogni teoria scientifica va espressa usando concetti verificabili, osservabili, e misurabili: in forma pura l’operazionalismo ucciderebbe ogni teoria economica, visto che questi desiderata non sono ottenibili. Ciononostante, operazionalizzare, ove possibile, è fondamentale: nessuna teoria è impiegabile per analizzare fatti storici se non è possibile verificare le ipotesi sottostanti ad essa. Questo problema è legato a noiosi dettagli esegetici dell’opera di Mises, letta in termini iperrazionalistici sia da Hayek che da Rothbard, con opposte ma ugualmente erronee conclusioni, su cui non dirò nulla per motivi di spazio.

Queste mie critiche sono quasi tutte concentrate alla Scuola che ho chiamato “ortodossa”, ma sul piano teorico sono molto più vicino alle teorie difese dal Mises Institute che non agli sviluppi difesi dagli eterodossi. Ciononostante, il problema vero è che ci sono problemi interni gravi: la GMU, sul piano sociologico, sta più avanti nella soluzione di questi problemi, mentre sul piano teorico è vero il contrario. In ogni caso, la Scuola austriaca, con questi problemi, si autocondanna all’irrilevanza anche senza bisogno di dubbie cospirazioni stataliste tese a negare un posto in accademia ai “liberisti”. La Scuola austriaca ha sviluppato una sociologia simile a quella delle Scuole marxiste, post-keynesiane o sraffiane, e soltanto il fatto che le teorie difese sono in realtà buone rende la prima diversa dalla altre. Il che, però, è doppiamente un peccato. Occorre smettere di farsi del male da soli, per il bene di tutti.

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19 Responses

  1. alepuzio

    Concordo in buona parte con l’articolo: a mio parere però il problema della scarsa rilevanza della Scuola austriaca risiede anche nella strutturale diversità delle ipotesi di partenza.
    1 )Lei cita la “velocità di circolazione della moneta”: non penso che possano esserci studi “Austriaci” perchè essa è uno di quei aggregati monetari tanto abboritti dai nostri (http://www.usemlab.com/index.php?option=com_content&view=article&id=295&Itemid=65)
    2) su “incapacità di interagire con l’economia contemporanea. ” mi pare che più che altro si cerca di confutare i classici senza dimenticare i degni epigoni come Krugman.
    3) “lotte intestine sterili”. Mi viene in mente in primis lo scontro Rand-Rothbard: ma oggettivamente quanto tempo e risorse ha e sta succhiando?

    A me sembra invece che il problema della diffusione della Scuola sta nell’attenzione verso la “cultura economica” che richiede: quando si alzano i prezzi anche chi ha una laurea è favorevole alla soluzione del salario variabile piuttosto che a quella del blocco di giochi statali difficili da seguire con riserve auree e depositi bancari.

  2. Pietro Monsurrò

    1) La velocità di circolazione non esiste perché è un aggregato. Per lo stesso motivo, si potrebbe dire che non esiste l’offerta di moneta, essendo un aggregato: M0 è fatto di circolante e riserve, M1 ci aggiunge i depositi a vista e M2, M3 e MZM sono orge di strumenti monetari e para-monetari. La teoria austriaca è basata su M1, che è sicuramente un aggregato. L’argomento di Rothbard quindi si può rivoltare contro la teoria di Rothbard, o diciamo contro tutta la teoria del ciclo austriaca. Fortunatamente, l’argomento di Rothbard non ha senso.

    2) Non c’è solo Krugman, che decisamente ha qualche problema interiore.

    3) Rand non era un economista, Rothbard lo è stato in gioventù prima di fare l’opinion leader. Non si tratta di un dibattito interno alla Scuola austriaca di economia, quindi.

  3. Gianni

    Mi sembra che l’articolo manchi di un po’ di conoscenza della Scuola Austrica o sia dettato da suo esame in chiave neoclassica
    Il concetto di velocità di circolazione della moneta è stato duramente criticato da Rothbard. Si tratta semplicemente del numero che serve a gfarantire un’identità quindi non puo’ influenzare nulla e a parte che sono le persone che determinano il valore delle cose non variabili o numeri (soggettivismo radicale della scuola austrica)
    Da notare che dopo Arrow-Debreu l’economia mainstream non ha fatto altro che continuare a riciclare l’equilibrio in chiavi e salse varie. Cocetto che gli “austriaci” facilmente hanno criticato sin dai tempi di Mises (dibattito sul cacolo in un’economia socislista) e Hayek quando ne ha evidenziato la totale inutilità e irrilevanza

    Girerei quindi la critica sulla steriltà e immobilismo all’economia mainstream che da oltre 100 anni ricicla concetti e approcci che gli austriaci hanno sfatato dagli anni ’20

  4. Pietro M.

    Tra le decine di libri e il centinaio di articoli che ho studiato sull’argomento, ovviamente c’era anche Rothbard, più o meno per intero. Le sue critiche alla velocità di circolazione le conosco, ma sono irrilevanti, per quanto detto al secondo commento.

    Per essere più esplicito: la capacità di comprare fattori di produzione in un dato periodo dipende dal flusso di mezzi monetari che arrivano nei mercati dei fattori di produzione. Il flusso, ovviamente, è una grandezza diversa dallo stock, e quindi non coincide con l’offerta di moneta, ma con l’offerta di servizi monetari, che si può dire, in manier aggregata e poco significativa, pari al prodotto dell’offerta di moneta e della sua velocità di circolazione. In realtà, usare M come se fosse una grandezza omogenea è tanto sbagliato quanto usare MV, però non c’è dubbio che la teoria monetaria debba occuparsi dei flussi di potere d’acquisto e non dello stock di moneta.

    La differenza tra la visione stock e la visione flow della politica monetaria è fondamentale: Friedman, come Rothbard, Mises e de Soto sono per l’analisi stock, cioè considerano la velocità irrilevante. Eppure in un’analisi wickselliana, da cui del resto partì Mises per la teoria del ciclo economico, è il flusso e non lo stock a rilevare. Del resto, avere 100€ che circolano 100 volte l’anno per comprare 10,000€ di mezzi di produzione, o avere 10,000€ che circolano una volta sola in un anno, è la stessa cosa.

    In ogni caso, a parte le critiche manieristiche e superficiali di Rothbard, stai citando opere di Mises e Hayek degli anni ’30: se questa non è stagnazione, non so come altro chiamarla. Sono passati 80 anni, e a parte qualcosa di Garrison, non è successo nulla.

    Ovviamente in questo “nulla” ci sono numerosissime pubblicazioni, ma niente di anche solo lontanamente paragonabile alla vivacità intellettuale di Mises e Hayek. Faccio un breve sunto della letteratura degli ultimi decenni tanto per capirci:

    1. Di paper manieristici che ripetono stancamente la teoria austriaca in versione rothbardiana se ne trovano a bizzeffe, ma non dicono nulla di nuovo, e a volte dicono qualcosa di sbagliato.

    2. Il lavoro di Huerta de Soto è invece interessante e ben sistematizzato, ma ha innovato solo nel campo della “law & macroeconomics” e non nell’approccio macroeconomico “core”, che rimane comunque allo stesso punto dove lo aveva lasciato Hayek. Tra l’altro lo sto rileggendo ora e ci sono un paio di gravi sbavature, nonostante sia la più grande opera sistematica sull’argomento che sia uscita negli ultimi 50 anni.

    3. I lavori di Selgin e White, di cui mi manca qualcosa da leggere che ho sul comodino, sono forse interessanti sul piano della teoria bancaria, ma si sono persi per strada l’economia austriaca del ciclo e del capitale e non dicono quasi nulla a riguardo.

    4. Horwitz ha cercato di fare da trait d’union tra Selgin/White e l’ortodossia, integrando la teoria austriaca con la teoria dello squilibrio monetario, con risultati però poco convincenti. Difendendo posizioni solo marginalmente più sofisticate di quelle monetariste, ogni tanto rischia di prendere cantonate nell’interpretazione dei problemi del ciclo economico. La cosa che mi piace di meno è comunque il suo ottimismo. 🙂

    5. In campo finanziario c’è una sola pubblicazione rilevante, l’ottimo paper del 2001 di Mueller sulle bolle azionarie. C’è anche qualche lavoro di O’Driscoll, ma non li conosco molto bene: in ogni caso, l’autore mi ispira molta fiducia, forse anche per il modo estremamente maleducato in cui veniva trattato da Rothbard. E’ interessante anche la tesi di dottorato di Cwik sulla yield curve.

    6. Sul piano dei microfondamenti, c’è l’ottimo paper di Carilli e Dempster del 2001 sull’interpretazione del processo di inflazione come paradosso del prigioniero, che è stato un primo passo per la soluzione di alcuni problemi della teoria del ciclo austriaca, ma non è stato seguito da nulla.

    7. Paper di carattere empirico sono pochi, a me vengono in mente solo Keeler, Wainhouse e Mulligan, e trovano cose abbastanza scontate ma pur sempre vere. Sono gli unici tentativi di operazionalizzare la teoria austriaca che mi vengono in mente.

    8. Il lavoro di Garrison sul moral hazard e sulle bolle è eccezionale, e mi dispiace di non averlo citato nel mio paper del 2009 sull’argomento al Mises Seminar, ma non ricordavo ne avesse parlato e non conoscevo alcuni suoi paper. Ovviamente, tra i paper eccezionali sull’argomento potrei citare anche il mio, ma mentirei. 🙂

    9. Sempre per Garrison, la sua interpretazione del ciclo austriaco, e soprattutto la sua reinterpretazione dell’overinvestment, dell’overconsumption, del capital consumption e dell’unsustainable boom sono notevoli, eppure c’è ancora molto lavoro da fare. Non se ne sa nulla in più rispetto a quello che sapevano Mises e Hayek.

    10. Aggiungerei il libro di Cowen sul rischio e i cicli, se non altro perché finge di criticare gli austriaci (in realtà sembra fatto a posta per difenderne quasi tutte le tesi principali), ma in realtà è una collezione di spunti di riflessione senza una struttura, con una pars costruens debole e che merita pienamente la stroncatura divertentissima che ne diede Sechrest su QJAE.

    11. Occasionalmente mi capita di leggere paper con spunti interessanti, ovviamente, come Cochran, Call, Evans. Dovrò anche leggermi Sechrest (RIP), prima o poi, promette bene.

    12. In campo dell’economia internazionale ho letto paper da far venire il latte alle ginocchia per quanto erano cretini. Un’eccezione interessante è Engelhardt, ma non ricordo bene cosa dicesse. So per certo che Shenoy se ne stava occupando prima di morire, però non so cosa abbia prodotto o se sia stato pubblicato, peccato.

    Se si esclude Garrison e qualche perla isolata, quindi, la situazione è deprimente. E’ per questo che è difficile prendere sul serio gli austriaci: una Scuola viva dovrebbe essere in grado di crescere, altrimenti uno passa di lì e pensa che sia morta. E probabilmente un po’ lo è.

    PS Ci sono delle mancanze dovute al fatto che non ho letto tutto, e ci sono autori molto molto bravi e preparati di cui non saprei citare però paper interessanti nell’ambito molto specifico del ciclo economico, come Ebeling, Kirzner (il più grande austriaco vivente, che però ha scritto qualcosa sul capitale potenzialmente importante e che non conosco), Salerno, Boettke, Rizzo, Koppl…

  5. Pietro M.

    @Gianni
    Aggiungerei, a mo’ di sunto, che il fatto che i new-keynesiani o i new-classici abbiano dei problemi interni dovrebbe essere del tutto irrilevante per un austriaco, come me. Non è di consolazione se si ha una malattia che altre persone ne abbiano altre. Autoassolversi o guardare pagliuzze (e travi) altrui non serve a migliorare le proprie teorie, ad espanderle e a correggerle.

    Vorrebbe poi da chiedersi quando ci capiscano i critici austriaci delle ratex o del RBC o dei modelli AD-AD microfondati delle teorie che criticano, ma questo è un altro discorso.

  6. Gianni

    Pietro M. :@GianniAggiungerei, a mo’ di sunto, che il fatto che i new-keynesiani o i new-classici abbiano dei problemi interni dovrebbe essere del tutto irrilevante per un austriaco, come me. Non è di consolazione se si ha una malattia che altre persone ne abbiano altre. Autoassolversi o guardare pagliuzze (e travi) altrui non serve a migliorare le proprie teorie, ad espanderle e a correggerle.
    Vorrebbe poi da chiedersi quando ci capiscano i critici austriaci delle ratex o del RBC o dei modelli AD-AD microfondati delle teorie che criticano, ma questo è un altro discorso.

    Forse non sono stato chiaro ma mi limitavo a osservare che l’articolo è piuttosto fuorviante perchè la Scuola Austrica non è affatto sterile o in sordina. Appare tale solo a chi aderisce all’attuale mainstream i cui fondamenti sono stati sfatati e continuano a produrre insensatezze epistemologiche ancor prima che risultati sistematicamente contraddetti ogni giorno dai fatti. Che colpa ne hanno gli austriaci se gli economisti mainstream cotinuano a leggere i fondi di caffè invece di fare scienza? Dovrebbero forse seguirli per non essere in “sordina”? La scienza non è cosa da maggioranza o da voto e l’economia mainstream è solo un’ideologia a supporto alla politica

    Per il resto mi sa che di nuovo manca una conoscenza approfondita della Scuola Austriaca quanto riguarda le ratex sono ampiamente sbugiardati da non pochi articoli degli “austriaci” e a dire il vero ci pensa Lucas da solo ricoprirsi di ridicolo con i suoi recenti interventi sulla inesistenza dei cicli. Così per il RBC

  7. Pietro M.

    Forse non è chiaro l’articolo o il commento, ma di esempi di stasi, stagnazione o sterilità austriaca ne ho fatti alcune decine. E siccome nessuno degli esempi da me fatti sarebbero comprensibili ad un neoclassico, di certo non vedo la cosa dal loro punto di vista. La mediocrità della letteratura è un dato di fatto: non c’è nessuno neanche lontanamente paragonabile a Mises o Hayek, e diverse domande senza risposta che non si vuole neanche formulare.

    Si continua poi ad insistere che non conosco la letteratura. La cosa è evidentemente del tutto priva di riscontri fattuali, oltre che decisamente inverosimile.

  8. Gianni

    Pietro M. :Forse non è chiaro l’articolo o il commento, ma di esempi di stasi, stagnazione o sterilità austriaca ne ho fatti alcune decine. E siccome nessuno degli esempi da me fatti sarebbero comprensibili ad un neoclassico, di certo non vedo la cosa dal loro punto di vista. La mediocrità della letteratura è un dato di fatto: non c’è nessuno neanche lontanamente paragonabile a Mises o Hayek, e diverse domande senza risposta che non si vuole neanche formulare.
    Si continua poi ad insistere che non conosco la letteratura. La cosa è evidentemente del tutto priva di riscontri fattuali, oltre che decisamente inverosimile.

    Sarà pure inverosimile ma per esempio basta leggersi innumerevoli articoli a proposito delle ratex sul Quaterly Journal of Austrian Economics per capire che gli “austriaci” non sono affatto “sterili” o “stagnanti”. E a leggersi i recenti interventi di Lucas c’è da chiedersi davvero se ‘sto tizio sia nel pieno dominio delle sue facolta mentali. Per non essere in “sordina” o “stagnanti” bisogna quindi confabulare con un ciarlatano?
    I modelli microfondati sono l’ennesima riedizione dell’economia matematica che Mises al tempo del dibattito sul calcolo economico aveva chiaramente spiegato come totalmente infondata. Questo negli anni ’20. Cosa dovrebbero fare gli “austriaci”? Partecipare al dibattito su come leggere i fondi di caffè? Tra l’altro questa non è scienza ma politica
    Possiamo concludere che Bernanke o Draghi non siano in “sordina” o “stagnanti” solo perchè senza aver previsto nulla di quello che stava accadendo, non avendo capito nulla di cio’ che è accaduto e a senza capire nulla di quello che ora stanno facendo continuano a chiacchierare e scrivere a vanvera?

  9. Pietro M.

    Si sta confondendo lo scrivere articoli con lo scrivere articoli buoni. A scrivere articoli sono buoni tutti, anche i marxisti hanno riviste di economia marxista: basta trovare un editore o autofinanziarsi.

    Il problema vero è che non c’è nulla che sappiamo oggi che Mises non sapeva negli anni ’30. Questo significa che il contributo degli ultimi decenni di ricerca (con qualche eccezione) alla teoria del ciclo è stato nullo. Inoltre, i problemi aperti negli anni ’30 sono ancora tra noi, in larghissima parte.

    Questa può non chiamarla stagnazione, ma per me non c’è altro termine.

  10. Pietro si è dimenticato il mio futuro paper sulla velocity in chiave austriaca, motivo per cui subirà una cura medioevale :).

    Faccio un’osservazione all’ottimo Pietro: a parte il fatto che sono del tutto d’accordo con l’analisi che hai presentato, ma perché insistere a discutere in così tanti posti diversi sui problemi dell’austrismo?
    Come tu dicesti in una certa occasione, il requisito fondamentale del fare buona ricerca è cominciare a farla; il parlare continuamente di come dovrebbe essere questa ricerca e del perché finora la ricerca è stata in stasi è una riproposizione un po’ ad nauseam di una serie di buoni propositi che non ho ancora capito a chi sono mirati, ed èun po’ un trascinarsi nello stesso campo di coloro che hanno contribuito, con varie motivazioni, ad una ghettizzazione dell’austrismo (meglio regnare all’inferno che servire in paradiso).

    Ritengo che il modo migliore di contribuire a migliorare o aggiornare o ampliare la teoria austriaca sia di fare una ricerca serie e solida e poi opporre questa, con le sue caratteristiche e principi ispiratori, contro chi si ritiene abbia di fatto bloccato l’evoluzione teorica. In sostanza presentarsi con un “ho raggiunto questo risultato perché ho buttato a mare queste perdite di tempo come discutere su chi è più austriaco e su quanto assurde siano le teorie di Keynes, ora aggregatevi”.

    Da buon pessimista sono sicuro che chi vuol vedere i problemi dell’austrismo attuale li ha già visti o gli basta ben poco per capire, chi non li vuol vedere perché ha bisogno solo di una bandiera sotto cui radunarsi non perderà tempo a rifletterci neppure se toccasse con mano questi problemi.

  11. Pietro M.

    Concordo appieno, c’è un problema psicologico personale nel modo di pormi: invece di dire, “c’è un problema, seguitemi e lo risolveremo insieme”, come si studia nei libri di leadership e carisma (?!?), dico sempre “c’è un problema, sveglia pelandroni!!!” e basta.

    Ovviamente il succo del mio discorso è che l’economia austriaca vive all’interno delle sue possibilità produttive: si potrebbe ottenere 100 e in realtà si ottiene 50. Ho anche analizzato le cause di ciò, secondo le mie opinioni, e credo che chiunque sia seriamente interessato a far avanzare le teorie austriache possa trarre vantaggio dalla mia analisi.

    In effetti è quello che in privato sto cercando di fare, come anche te e altre persone: fare ricerca. Però si fa ricerca perché ci sono delle cose ignote, e quindi la prima condizione per farla è vedere che c’è un problema, nuovo o pregresso, o anche un’opportunità di sviluppo verso nuovi orizzonti.

    Sul fatto poi che scrivo spesso dei problemi degli austriaci, penso sia un problema statistico. Io scrivo tanto: se ogni dieci cose che scrivo sugli austriaci una è critica, allora alla fine sembra che sono molto critico. In realtà lo sono ben poco: nove post su dieci cercano di mostrare quanto siano rilevanti tali teorie per capire determinati problemi.

  12. Solo un paio di appunti:
    – a chi si imbatte nei tuoi milioni di scritti non resta in testa la percezione statistica, ma solo una percezione personale delle cose più evidenti. Se in un mese piazzi dieci articoli di critica all’approccio cieco di economisti austriaci o sedicenti (il che non equivale a una critica alla scuola in sé) è più probabile che il dato venga percepito come BEN dieci pezzi di critica (fine a sé stessa, magari), e non come un 50% o un 5% della tua intera produzione. Sii consapevole del rischio (potrebbe anche essere un modo di selezionare gli utenti, chi lo sa?).
    – che la ricerca si possa fare solo se ci si rende conto delle “falle” o “punti oscuri” della scuola è tutto da vedersi, purtroppo. Ricerca può anche essere lo studio di un fatto contemporaneo applicando lo stato dell’arte economica degli anni ’70, il che è un ottimo modo per chiudere gli occhi su eventuali grattacapi teorici, e temo che sia la stragrande maggioranza del lavoro fatto negli ultimi decenni. Ricerca può anche essere la distruzione delle teorie alternative, o l’ampliamento della teoria esistente (ad esempio da una economia chiusa ad una aperta). Questo può benissimo essere fatto (tralasciando la qualità del risultato) senza porsi problemi profondi come quelli che tu mi hai aiutato a porre. Chi si rifugia in questo tipo di ricerca è probabilmente il primo che bolla le tue critiche come un inutile sbattimento, e non si è mai sbattuto né mai vorrà sbattersi in una ricerca teorica come tu ti proponi. Tra questi soggetti e gli entusiasti del tuo progetto c’è una ampia gradazione di soggetti; non so come sia possibile trattare il rischio di sbilanciarsi troppo verso una estremità perdendo le “code”, alla fine potrà essere anche solo fortuna, però mi sentivo di doverti avvertire.

  13. alepuzio

    Pietro scusa, Huerta de Soto ha proposto 10 temi in cui sviluppare ulteriormente la Scuola Austriaca (copy & paste vergognoso da http://www.jesushuertadesoto.com/pdf_scuola/cap7.pdf):
    1) teoria della coercizione istituzionale;
    2) teoria dei prezzi
    3) teoria austriaca della concorrenza e del monopolio
    4) teoria del capitale e dell’interesse
    5) teoria del denaro, del credito e dei mercati finanziari
    6) teoria della crescita e del sottosviluppo economico
    7) economia del benessere (welfare economics)
    8) teoria dei beni ‘pubblici’
    9) dell’analisi economica del diritto e delle istituzioni
    10) La teoria della popolazione

    Quali secondo sono sterili e quali invece possono avere uno sviluppo allo stato attuale dell’arte e degli artisti? 🙂
    Te lo chiedo perchè dal post non ho chiaro se c’è più un problema del tipo “siamo-austriaci-e-ci-sediamo-sugli-allori” o del tipo “ci-diciamo-austriaci-ma-capiamo-poco-delle-argomentazioni”.
    Inoltre: fino a che le diatribe interne sono inutili? Non potrebbero servire almeno a separare il grano dalla gramigna (come mettere nei “Journal of Libertarian Studies” o simili Raymond Aron, keynesiano che criticava sia von Hayek che il giusnaturalismo à la Rothbard)?

  14. Pietro M.

    Direi che sono tutti problemi importanti. Io mi interesso principalmente di 4 e 5 (temi a cui spero che contribuirò in futuro), ma non c’è dubbio che siano tutti fondamentali. Diciamo che ogni ambito ha dei limiti oltre il quale bisogna andare, altrimenti i ricercatori a che servono?

    Le diatribe sono utili quando si basano sulle argomentazioni. Quando non si dialoga, si perde tempo. Quando X fa un articolo contro la teoria di Y dove non capisce gli argomenti di Y, la diatriba è inutile.

    Direi che come sunto di buona parte del dibattito su free banking vs 100%-reserve e del dibattito Hayek vs o con Mises sul socialismo non è male…

    Selgin e White non hanno mai risposto alla critica di de Soto sul fatto che le crisi bancarie sono endogene al ciclo, ad esempio, e di fatto hanno trascurato completamente il problema. de Soto, da questo punto di vista, va criticato per un dettaglio meno rilevante: continua a scrivere che un’espansione monetaria concertata tra le banche non danneggia nessuna banca, e non considera l’argomento di Selgin e White riguardo l’incremento della varianza del netting nell’interbancario. Devo dire che de Soto ha le idee che mi piacciono di più tra quelli citati.

    Il dibattito dovrebbe approfondire questi temi, invece troppo spesso (e qui non cito nessuno, ma è evidente a chi mi riferisco) tutto diventa un “tu sei immorale e difendi cose immorali”. Se devo farmi fare la predica vado dal prete, non da un economista.

  15. Lorenzo B.

    Tra gli spunti offerti dall’autore dell’articolo, merita particolare attenzione il problema internazionale. La mia sensazione è che la scuola austriaca da questo punto di vista offra molto poco, pur avendo vissuto nell’ultima trentina di anni svariate vicende economiche e finanziarie che avrebbero potuto stimolare la ricerca.
    Certo, se costruiamo una teoria basata sullo scambio volontario, identifichiamo i problemi dell’interventismo statale o della coercizione e se questi problemi di interventismo si moltiplicano (ad esempio la nascita del sistema monetario attuale e la nascita del commercio libero globale sotto l’egida del WTO e degli accordi bilaterali che ovviamente non è l’unico modello di commercio libero possibile), sviluppare tutte le conseguenze teoriche diventa parecchio difficile.
    D’altra parte, nella mia limitata ricerca, ho trovato pochissimi spunti che possano arricchire il dibattito e di fatto vengono ancora citati studi passati: la teoria della parità così come elaborata da Mises e Monetary Nationalism and International Stability di Hayek. C’è qualcosa di Hoppe ma onestamente le sue teorie mi sembrano più sociologia ricostruita per combaciare con alcuni fatti e arrivare alle solite conclusioni “feudali” (che tra l’altro attirano un certo genere di codazzo…).
    Per farla breve attraverso un esempio: le autorità giapponesi è da diversi anni che intervengono pesantemente e questa è la via seguita dalle banche centrali occidentali oggi. Il Giappone ha esportato in altri paesi le sue politiche espansive (vedi esposizione banche giapponesi nella crisi del sud-est asiatico)? Cosa significa a livello globale, a livello di struttura del capitale mondiale, adottare tali politiche e favorire fenomeni come il carry-trade? E’ sufficiente spiegare questi ed altri problemi semplicemente aspettando l’apocalisse finale? Non credo.

  16. Pietro Monsurrò

    @Lorenzo B.
    Questo commento avrei potuto e voluto scriverlo io: sono totalmente d’accordo. Il lavoro sull’economia internazionale in ambito austriaco è quasi nullo, e c’è molto da scoprire, probabilmente, a volerselo studiare per bene.

    A parte il citato libro di Hayek c’è veramente poco altro in ambito austriaco, nonostante i movimenti internazionali di capitale siano stati fondamentali per le dinamiche economiche almeno negli ultimi 20 anni, se non di più. Sicuramente parte del problema è che si tratta di fenomeni largamente intrattabili sul piano della complessità, ma capirne poco è sempre meglio che non capirne niente, e quindi c’è probabilmente molto da scoprire su questi temi.

    Parli di una tua limitata ricerca: intendi dire che hai provato a scrivere qualcosa, che hai idee a riguardo, magari espandibili per qualche studio? Potrebbe essere molto interessante. Io ho provato a ragionare sul carry trade giapponese e il suo ruolo nella lost decade, però non sono arrivato da nessuna parte.

    Se ti interessa fare una ricerca che potrebbe dar vita ad un paper, si può iniziare una discussione, mettere assieme conoscenze e riferimenti bibliografici, e fare insomma quello che sto già facendo con un mio paper di cui discuto con un paio di amici che stanno scrivendo altri loro paper…

  17. Lorenzo B.

    @Pietro Monsurrò
    Per ricerca limitata intendo semplicemente una lettura da dilettante 😛
    Di idee onestamente ne ho avute poche. Un’infinità di dubbi, questo sì 😀
    Ad esempio per riprendere alcune delle tue osservazioni, nel libro di De Soto che citi c’è uno spunto interessante su alcune pratiche delle compagnie assicurative che potrebbero avere gli stessi effetti di un’espansione dei mezzi fiduciari: il problema ci riporta ancora ad Hayek (il cui livello di dettaglio nella trattazione dei problemi economici resta insuperato all’interno della scuola e forse anche fuori; se non altro questa è una scusa per giustificare la mia difficoltà a digerire un’opera come The pure theory of capital ) il quale, se non sbaglio, in Prices and Production evidenziava il problema di nuove forme di moneta e quindi la necessità di non fossilizzarsi esclusivamente sulla questione dei mezzi fiduciari bancari. Questo potrebbe portarci ad interrogarci sul ruolo di certi strumenti derivati e i loro possibili effetti sul ciclo economico (se la riserva frazionaria ha determinate conseguenze, allora potrebbero avercele anche molte altre innovazioni finanziarie). Potrebbe anche portarci ad analizzare certe riforme delle pratiche contabili, anche queste evidenziate da De Soto, e infine di come il tutto si leghi a livello internazionale, a livello di integrazione delle strutture dei capitali e di quanto, e a quale velocità, questi processi possano essere distorti.

    Tra le poche idee, in maniera molto grezza ho anche pensato che si potrebbe immaginare il sistema monetario attuale come una sorta di free banking ottocentesco all’interno del quale ogni singola banca ha una posizione dominante rispetto ad un determinato territorio (che può comprendere più nazioni). Ma non sono andato molto in là. Ciò che più mi interessa però, è capire se il fenomeno giapponese è un semplice effetto di un sistema distorto e schizofrenico o se invece è una tendenza, un’evoluzione del sistema monetario attuale.

  18. Pietro M.

    The pure theory of capital la capisco a giorni alterni. Leggo dieci pagine e va bene, poi ne leggo dieci e mi sono dimenticato di cosa Hayek stava parlando. 🙂

    C’è un paper di Haberler del 1932 che dice che non solo M1 ma tutto il credito conta per l’analisi. Sta nel libro di Ebeling di raccolta di saggi sull’ABCT.

    Per quanto riguarda il Giappone, sto studiando l’alternativa defl-infl in vari casi e direi che è una conseguenza di lungo termine abbastanza puzzling. E’ strano cioè che non siano riusciti ad entrare in una stagflazione anni ’70, e finire più come l’America Latina che come ora. Pare che non abbiamo rifinanziato le banche a sufficienza, esportino capitali per via del carry trade (cosa che riduce i depositi delle banche domestiche) e non abbiano creato aspettative inflazionistiche.

    In ogni caso, la conseguenza di lungo termine dell’inflazionismo probabilmente è più Weimar che il Giappone, ma una recessione ogni tanto è più che sufficiente per eliminare il problema della stagflazione, come fece Voclker tra il 1980 e il 1983.

    Il punto è che la deflazione ha una fine naturale e non può essere un risultato di lungo termine, ma perpetuare il problema senza aggiustarlo evidentemente è un risultato di lungo termine altrimenti il Giappone non si spiega. 🙂

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