Contratti pubblici: senza produttività, no ai miliardi
Sul rinnovo dei contratti del pubblico impiego si sta decisamente partendo col piede sbagliato. Sono fermi dal 2010, e dal governo Berlusconi tutti i successivi hanno confermato lo stop delle procedure negoziali e degli scatti economici individuali. Poi ci ha pensato la Corte costituzionale, con la sentenza 178 del luglio 2015, a stabilire che il fermo doveva cessare, e bisognava rinnovare i contratti. Di qui all’ultimo giorno in cui la legge di stabilità 2017 uscirà dal parlamento – e ci sarà il referendum sulla Costituzione di mezzo – è ora aperto lo scontro su quante risorse destinare al rinnovo. Il governo aveva “provocatoriamente” appostato 300 milioni, i sindacati arrivano fino a 7 miliardi, chiesti dalla Cgil.
Così però si parte dal fondo, cioè l’ammontare medio della retribuzione contrattuale lorda aggiuntiva per ciascuno dei 3,2 milioni di dipendenti pubblici, invece che da ciò che dovrebbe costituire l’inizio. E cioè: a 8 anni dal vecchio rinnovo, nel nuovo contratto si gettano davvero le basi operative per avviare nella PA la rivoluzione della produttività, oppure resta tutto come prima? Ecco, è da qui che bisogna partire. Ma prima di vedere come, sono necessarie alcune premesse.
Primo, parliamo di numeri. Diamo un occhio agli effetti dello stop retributivo pubblico. E’ ovvio, comprensibile e giusto che i sindacati del pubblico impiego considerino molto grave che, fatta 100 la base retributiva pubblica del 2010, essa sia la stessa a giugno 2016, sicché in termini reali i dipendenti pubblici hanno perso potere d’acquisto. Mentre le retribuzioni del settore privato sono passate da 100 del 2010 a 109,9. Bisogna però equilibrare questo dato con un altro, più di lungo periodo. Le retribuzioni pubbliche conoscevano da decenni andamenti nel complesso superiori rispetto a quelle private. Nel solo periodo 2001-2009, cioè prima dello stop, l’incremento complessivo nominale delle retribuzioni di fatto pubbliche è stato secondo l’Istat del 31,9%, a fronte del 27% nell’industria privata e del 23,% nei servizi di mercato. Ma anche nel ventennio precedente era stato così, tranne una frenata del più rapido aumento pubblico a metà anni Novanta. Ergo: ora è giusto che cessi lo stop di questi ultimi 7 anni, ma – anche se ai sindacati del settore pubblico non piace ammetterlo – il suo effetto è stato comunque di riequilibrare il vantaggio dei dipendenti pubblici, per tanto tempo protrattosi in precedenza.
Secondo, occhio alla lezione del passato. Se la Fondazione Bertelsmann due giorni fa ha classificato l’Italia solo al 32° posto su 41 paesi tra i più avanzati per capacità di offrire servizi pubblici efficienti, ciò non dipende certo dal fatto che la spesa pubblica sia bassa visto che supera la metà il PIL, ma consegue alla bassa efficienza della nostra pubblica amministrazione. Ecco perché serve la rivoluzione della produttività nei servizi pubblici, e per questo bisogna mettere produttività e merito al centro dei nuovi contratti pubblici. Quando diciamo al centro significa proprio al centro, come un vero nuovo e rivoluzionario asse portante, non come parte accessoria e trascurabile rispetto al totale degli aumenti retributivi.
Qual è la lezione del passato? Che sinora la rivoluzione della produttività pubblica e del salario di merito nella PA non ha funzionato, malgrado fosse già prevista da tempo dalla legge, proprio perché non era incardinata se non en passant nei vecchi contratti pubblici. Il tentativo del d.lgs. 150/2009, il cosiddetto decreto Brunetta, di identificarne con maggior chiarezza alcuni elementi fondamentali e alcuni criteri, da applicarsi direttamente dalle Amministrazioni statali mentre per gli Enti locali costituivano principi generali cui i singoli ordinamenti delle varie Amministrazioni avrebbero dovuto attenersi, non ha di fatto estirpato la prassi – a cominciare dai dirigenti – di “spalmare” a tutti retribuzione accessoria secondo metriche discrezionali, che non identificano risultati ma premiano collusioni, come ha recentemente anche confermato la Banca d’Italia.
La definizione del ciclo delle performance da individuare come metriche del risultato, della trasparenza del giudizio, e della valorizzazione dell’apporto individuale di ogni dipendente, per tutte le amministrazioni pubbliche era affidato alla CIVIT, la Commissione per la Valutazione dell’Integrità e della Trasparenza nelle Amministrazioni pubbliche, la cui competenza è oggi compresa in quelle dell’ANAC. Ma se quella competenza è finita all’Autorità Anticorruzione, è appunto perché il salario accessorio nella PA ha finito per rappresentare un elemento scandaloso di de-merito collettivo, non di premio al merito individuale. Con casi come Roma, dove il cosiddetto salario accessorio finiva per appresentare anche il 40% della retribuzione ordinaria per tutti i quasi 23mila dipendenti comunali, e Regioni in cui la retribuzione di fatto dei dirigenti è salita a livelli sconosciuti alle amministrazioni centrali.
La lezione di questo fallimento è una: i criteri di individuazione del risultato prefisso a ogni unità della PA, su cui misurare il dirigente – vedremo il decreto attuativo della riforma Madia che la settimana scorsa è stato rinviato.. – e su cui calibrare il premio a tutti coloro che sotto di lui vi cooperano, deve entrare a far parte costituiva e dettagliata dei nuovi contratti pubblici. E aiuta che i comparti della PA siano passati da 12 a 4 – amministrazioni centrali, periferiche, sanita, scuola e ricerca – perché diminuisce la dispersione dei criteri che un tempo erano così frastagliati da impedirne ogni vero controllo.
Due ultime osservazioni. La manovra finanziaria prossima potrà essere di 25 o magari di 30 miliardi come si ipotizza, a seconda di quanto la Ue concederà davvero a Renzi di deficit aggiuntivo. Ma se un terzo o un quarto della manovra andassero ai nuovi contratti pubblici senza rivoluzione della produttività e con aumenti a pioggia. ebbene sarebbe difficile a chiunque spacciarla come fondamentale priorità rispetto a ciò che serve per uscire dalla crescita “a zerovirgola”. Infine: non è vero che i sindacati la pensino tutti allo stesso modo, e che il governo non avrebbe interlocutori al tavolo della produttività pubblica.
Per tutte queste ragioni, dopo l’Atto di indirizzo sui 4 nuovi comparti pubblici che il governo ha impartito all’ARAN per aprire formalmente la stagione dei rinnovi, pensiamo che sarebbe più giusto un nuovo Atto di indirizzo sulla centralità del salario e delle metriche di merito nel contratto pubblico. E solo una vista registrata l’opinione dei sindacati, decidere il quantum degli stanziamenti per i rinnovi. In un paese a produttività stagnante da un decennio, il gap non si supera solo con i contratti di produttività nel privato. E’ il settore pubblico, il primo buon nero della produttività italiana.
Santo cielo, correggete i refusi. Il “buon nero”, ma dai…