21
Dic
2021

Consigli di lettura per il 2022 (seconda parte)

La seconda puntata dei consigli di lettura per le feste natalizie e per i prossimi dodici mesi da parte di membri del team IBL e collaboratori dell’Istituto


C. Lasch, La cultura del narcisismo (Nei Pozza, 2020 [1979])

Il libro di Lasch ha più di quarant’anni, ma secondo me non li dimostra. Detto in estrema sintesi, secondo l’autore il narcisismo ha a che fare certo con determinate distorsioni patologiche della personalità (un culto di sé che deforma le relazioni con gli altri e con se stessi, senso di dipendenza e paura della dipendenza, vuoto interiore, ira repressa), ma anche con cambiamenti strutturali della società e della cultura, tra i quali, ne elenco solo alcuni, la burocratizzazione della vita, la medicalizzazione della società e il conseguente terrore della vecchiaia e della morte, l’alterazione del senso del tempo, la proliferazione delle immagini, il culto del consumismo, il fascino della celebrità, i cambiamenti intervenuti nella vita familiare e nei modelli di socializzazione (deficit di generazione in senso biologico – la crisi demografica – e in senso culturale – la crisi dell’educazione), i quali in un certo senso favoriscono la patologia narcisistica e ne vengono a loro volta rafforzati. Una serie di patologie sociali che appaiono oggi assai più evidenti di quanto lo fossero quarant’anni fa e sul cui sfondo vediamo emergere, più di quanto si vedesse allora, una sempre più pervasiva tentazione statalista a danno della libertà dei singoli individui.

Sergio Belardinelli, membro del Comitato editoriale IBL Libri


A. Arbasino, Lettere da Londra (Adelphi, 1997)

Il libro raccoglie le “Lettere inglesi” degli anni ’50-’60, pubblicate originariamente dal Mondo di Mario Pannunzio. E’ una miniera inesauribile di spunti interpretativi, ipotesi critiche, connessioni sorprendenti riguardo a quel che viveva nella letteratura, nel teatro, nella musica, “alta” e pop, nell’Inghilterra di quegli anni. Né manca uno sguardo tanto acuto quanto colto alle dinamiche politiche. Ogni cosa intrecciata intorno a un rapporto diretto con i protagonisti: una conversazione con l’autore a margine di una rappresentazione, un afternoon tea, un incontro a casa di amici… Il tutto nella prosa di Arbasino: elaborata fino al barocco, ma ficcante fino all’impietoso. Un solo esempio. La “lettera” intitolata Macmillan e il diritto ereditario si apre con una disincantata citazione del “povero Orwell”: “questa è la terra dello snobismo e del privilegio, largamente governata dai vecchi e dagli imbecilli”. Per poi passare a quanto T.S. Elliot “ha appena detto a un pranzo del Partito conservatore: quando un partito che ha una dottrina inalterabile si trova al potere possono capitare due cose, essenzialmente. I capi che hanno una certa esperienza si daranno da fare cercando motivi plausibili per posporre le parti irrealizzabili del programma, e provare che le apparenti deviazioni sono invece uno sviluppo logico. L’alternativa a questa adattabilità è il giacobinismo del dottrinario cocciuto, disponibile a mandare tutto in malora piuttosto che modificare la teoria alla prova dei fatti”. Per poi intravvedere, come annota poi, nell’inaridimento del Partito conservatore – “possibile che non trovino più giovani Tories validi se non nelle parentele di Lady Dorothy née Cavendish” – una “epifania: già i segni del thatcherismo?”. Vi è di che godere.

Natale D’Amico, membro del Comitato di indirizzo IBL


L. Mises, Socialismo. Analisi economica e sociologica (Rubbettino, 2020 [1922])

L’anno che sta per entrare segna il centenario dell’apparizione di un classico del Novecento. Ludwig von Mises ha pubblicato la prima edizione di Socialismo nel 1922, sostenendo l’assoluta impossibilità del funzionamento di un’economia pianificata. La tesi dell’economista austriaco è nota: abolita la proprietà privata dei mezzi di produzione, eliminato il mercato, i pianificatori socialisti sono privi dell’istituzione sociale che rende possibile il calcolo economico, ovvero il sistema dei prezzi. Senza prezzi, nessuna razionalità economica può trovare spazio nell’interazione sociale.
Il libro provocò la replica degli economisti socialisti e accese il dibattito sul calcolo economico, da cui Mises uscì vincitore: nessun suo avversario ha mai potuto dimostrare come potrebbe funzionare un’economia senza prezzi di mercato. Ma la critica di Mises mette anche in rilievo il millenarismo del pensiero di Marx, ovvero la costruzione di una filosofia della storia che ha la pretesa di predire l’avvento del socialismo come esito ineluttabile della vicenda umana. Per l’economista austriaco, siamo in presenza della traduzione in termini terreni del messaggio cristiano di salvezza, mescolato con la dialettica hegeliana. Un composto instabile, destituito di qualunque valore scientifico. Lorenzo Infantino ha curato questa nuova edizione di Socialismo corredandola di una preziosa introduzione, Mises e il totalitarismo. A un secolo esatto di distanza, l’occasione di confrontarsi con uno dei grandi libri del secolo breve che ci siamo lasciati alle spalle.

Nicola Iannello, Senior Fellow IBL


R.M. Weaver, Ideas Have Consequences (University of Chicago Press, 2013 [1948])*

Pensatore del sud degli Stati Uniti, nato in North Carolina, Richard Malcolm Weaver rimase per quasi vent’anni, fino alla prematura scomparsa, a insegnare inglese all’Università di Chicago. È importante sottolineare la sua terra d’origine, giacché vi rimase fino all’ultimo profondamente attaccato in termini di principi, idee, valori. Com’è stato scritto, Weaver fu a Chicago un agrarian in esilio. Agrarian poiché fu, di fatto, un epigono di quel movimento di intellettuali tipicamente sudista che cristallizzò le proprie radicali convinzioni nel manifesto I’ll Take My Stand (1930). Un’eredità, quella agraria, che si percepisce vivacemente in ogni pagina di Ideas Have Consequences. Quello che Weaver spera in Ideas è che attraverso la riappropriazione del significato forte della proprietà, come condizione intangibile dell’individuo nei confronti del potere arbitrario del Leviatano statale, della purificazione del linguaggio, strumento che serve per ordinare il mondo e l’esperienza umana, e un senso di pietà e giustizia, da intendersi come disciplina della volontà attraverso il rispetto per un tutto sommato inscrutabile ordine naturale, l’uomo possa restaurare un mondo – il titolo del libro a cui aveva pensato Weaver era inizialmente Steps Toward the Restoration of Our World, da intendersi come mondo attaccato alla tradizione sudista – in cui possa essere di nuovo autenticamente libero, tornando ad accettare la sua precaria, umile e fallibile posizione nel misterioso ordine di cui fa parte.

Carlo Marsonet, dottorando e membro del Book Club IBL


A. Rüstow, Freedom and Domination: A Historical Critique of Civilization (Princeton University Press, 1981)*

Di tentativi di storia universale son piene le biblioteche, e anche le librerie a giudicare dal successo dei libri di Yuval Noah Harari. Questo è un libro impressionante: l’edizione tedesca, in tre volumi, fu pubblicata fra il 1950 e il 1957 e l’autore vi mise mano nel suo esilio turco. Per dare un senso alle vicende politiche del suo tempo, nel tentativo di comprendere il successo della dittatura hitleriana Rüstow prova a mettere a fuoco le questioni fondamentali del potere, nella storia. Il risultato è un grande affresco in cui sono sviluppati con gusto per il dettaglio e grande immaginazione teorica gli assunti fondamentali della storiografia liberale, a cominciare da Augustin Thierry. Rüstow guarda alla “superstratificazione”, cioè all’imposizione del proprio dominio da parte di un popolo di conquistatori (tipicamente, cacciatori nomadi) su un altro di conquistati (tipicamente, una popolazione già dedita all’agricoltura), come un fenomeno che consente di spiegare le evoluzioni politiche anche più recenti. Le conseguenze sono diverse: da una parte, ciò consente la nascita di unità politiche sufficientemente ampie da consentire una divisione del lavoro ramificata e, dunque, il progresso della civiltà. Dall’altra, nell’originaria conquista sono iscritte le ragioni di un conflitto politico che si cerca di ricomporre sul piano culturale, con alterni successi. La lotta fra libertà e dominio attraversa i secoli, non è solo “lotta di classe” (anche se nelle modalità di dominio di ieri Rüstow ravvisa alcuni tratti che riemergono poi nelle società industrializzate) ed è necessariamente intrisa di contraddizioni e ambiguità. È difficile esagerare la ricchezza di pagine traboccanti di un’erudizione genuina, non esibita, ma semmai necessaria a far combaciare i tanti pezzi di un puzzle complicatissimo e grandioso. Se pensate che il potere sia un “problema” fra i più interessanti e pericolosi che tocchino le società umane, questo è un libro che non può mancare nella vostra biblioteca.

Alberto Mingardi, direttore generale IBL


S. Zweig, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo (Mondadori, 2017 [1942])

Stefan Zweig è stato, a cavallo fra gli anni Venti e Trenta del Novecento, il maggior esponente della letteratura mitteleuropea e uno degli autori più letti e tradotti al mondo. Nessuno scrittore è riuscito meglio di lui a raccontare il brusco passaggio dall’era del liberalismo classico all’era dello Stato onnipotente che si è aperta con lo scoppio della prima guerra mondiale. Nato nella Grande Vienna di fine secolo in una benestante famiglia della borghesia ebraica, Zweig visse la fine del suo rassicurante “mondo di ieri” – la civile, pacifica e tollerante epoca della sua giovinezza – come un trauma personale. Successivamente l’avvento al potere del nazismo in Germania, che mise al bando le sue opere, sconvolse per la seconda volta la sua esistenza tutta dedicata all’arte e ai valori della cultura. Da scrittore popolarissimo divenne, da un giorno all’altro, un apolide in fuga dalle persecuzioni. Egli non resse a questa seconda perdita del suo mondo, alla scomparsa della sua vecchia e amata Europa e, dopo essere fuggito verso l’America, si suicidò in Brasile nel 1942. Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, uscito postumo, non è solo un’autobiografia ma anche una riflessione sugli avvenimenti della storia europea della prima metà del XX secolo. Celebri sono le pagine in cui Zweig racconta l’incredibile entusiasmo popolare che esplose a Vienna e nelle altre città europee quando venne annunciato, nell’agosto del 1914, l’inizio del conflitto. Zweig inoltre descrive, con parole suggestive, l’eccezionale libertà individuale che caratterizzava “il mondo di ieri”, come la possibilità di viaggiare in tutto il mondo senza passaporto né documenti. Egli ha inoltre parole di grande ammirazione per gli Stati Uniti, un paese nel quale la libertà economica pressoché totale assicurava lavoro per tutti, e per la Svizzera, questo “paese grandioso” che riusciva a far convivere nazioni diverse nello stesso spazio senza alcuna ostilità. Leggere la testimonianza di Stefan Zweig significa fare un viaggio nel tempo nell’Europa di un secolo fa, immergendosi nel suo spirito, nelle sue passioni, nella sua vita.

Guglielmo Piombini, studioso e traduttore di La forza del capitalismo e Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi!


C. Thomas, My Grandfather’s Son (Harper, 2007); S.D. Gerber, First Principles. The Jurisprudence of Clarence Thomas (NYU Press, 1999); M. Magnet, Clarence Thomas and the Lost Constitution (Encounter Books, 2019)*

Tradizionalmente, si fa riferimento alle mutevoli composizioni della Corte suprema americana con il cognome del Chief Justice in carica. L’attuale è infatti nota come Roberts Court, da John Roberts che la presiede dal 2005. Tuttavia, tra i cultori del diritto costituzionale statunitense, si usa “denominare” la Corte non in relazione a chi – per così dire – detiene formalmente il potere, bensì al Justice che la domina intellettualmente, ossia a colui il quale apre la strada lungo cui i suoi colleghi, per adesione o per contrasto, si muovono. Per questa ragione, la Corte attualmente in carica si sta guadagnando la fama di Thomas Court, dal nome di Clarence Thomas, 73 anni – un uomo che ha una storia straordinaria, ma che è stato a lungo, e continua ancora in parte, a essere sottovalutato, data la sua refrattarietà a conformarsi a schemi di pensiero o persino di vita giudicati standard. Qualche consiglio di lettura, allora, per chi non voglia commettere quest’errore. Il primo è autobiografico (Thomas, My Grandfather’s Son). Nel 2007, Justice Thomas ha raccontato in prima persona la sua vita – di uomo afroamericano nato, sul finire degli anni ’40, nella Georgia ancora segregata, poverissimo e con un inglese piuttosto dialettale, e finito alla Corte più famosa del mondo – mettendo in evidenza, fin dal titolo scelto per il libro, la persona più importante della sua vita: il nonno che gli ha fatto da padre. Con quest’ultimo, Thomas non ha avuto un rapporto facile: egli racconta l’allontanamento dalla sua famiglia durante i turbolenti anni dell’adolescenza e della prima maturità, spesi – come scrive lui stesso – con il cuore gonfio di odio nei confronti di un’America che sembrava “coccolarlo”, ma che, in verità, lo trattava non come persona, ma come simbolo di una narrazione di comodo. Quell’odio è finito però neutralizzato da un ritorno, sofferto ma in definitiva istintivo, al modello di impegno, di responsabilità quasi vocazionale, che proprio il nonno gli aveva trasmesso. Questa nota personale ha concorso a definire anche la judicial philosophy di Thomas, segnata, per un verso, da una adesione alla promessa di eguale dignità e libertà per ogni americano, inscritta nella Declaration of Independence e in un retroterra culturale di diritto naturale (Gerber, First Principles. The Jurisprudence of Clarence Thomas) e, per altro verso, dal rispetto rigoroso dei limiti che l’operato di un giudice incontra in una società democratica (Magnet, Clarence Thomas and the Lost Constitution).

Giuseppe Portonera, Forlin Fellow IBL


P. Roth, La macchia umana (Einaudi, 2014 [2000])

La macchia umana è senza dubbio uno dei capolavori di Philip Roth, che affronta una serie di argomenti spinosi come la questione razziale, il problema dei reduci del Vietnam, l’arrivismo insito nella società americana degli anni Novanta, e il suo perbenismo. Lo sfondo storico infatti non è causale: il romanzo si apre con una schietta osservazione nei confronti dell’indignazione dilagante per lo scandalo Lewinsky. Il protagonista, Coleman Silk, un professore stimato al culmine della sua carriera universitaria, si ritrova improvvisamente sradicato con violenza dalla sua realtà, costruita con tanti sforzi. Per colpa di una frase, anzi, di una parola equivocata, incomincia la sua sovversione. La nuova vita è caratterizzata da personaggi vittime di una società che le ha relegate ai margini, ed è nella relazione con una donna che appartiene a questa casta di intoccabili, che ritrova quello che è una sorta di riscatto, ritrova “l’essenza della singolarità. Tutto il dolore si è raggrumato in passione”. La libertà che descrive Roth è pericolosa perché sposa l’impurità, la fuga da un’esistenza protetta dalla società in cui tutto è perfetto. “Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione. E’ in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno”. Un’opera straordinaria che consiglio, soprattutto perché prepotentemente attuale.

Andrea Romano, Intern IBL


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