Consigli di lettura per il 2024 (seconda parte)
La seconda parte dei Consigli di lettura dello staff e dei collaboratori dell’Istituto Bruno Leoni.
Churchill and Secret Service, di David Stafford (Lume Books, 2013 [1997])
La storia tra Churchill e “le spie” è il racconto di una grande storia d’amore che ha portato il primo ministro inglese a essere considerato tra i padri dei moderni servizi segreti britannici. Sin dalle prime esperienze come giovane ufficiale e giornalista al seguito dell’esercito britannico nei teatri di conflitti coloniali, Churchill è stato direttamente coinvolto in operazioni di raccolta di informazioni e ha da subito compreso il valore dell’intelligence e la necessità di padroneggiarne al meglio tutti gli aspetti. Stafford segue questa complessa e articolata relazione per tutta la carriera di Churchill evidenziando come la sua azione sia stata decisiva per la nascita e la crescita di un apparato dello Stato difficile da controllare ma spesso essenziale per la difesa della sicurezza nazionale, anche nei periodi di pace.
La Seconda guerra mondiale segna il momento più importante nella vita politica del grande statista britannico e il supporto continuo all’apparato dei servizi di intelligence trova il suo momento più spettacolare nel progetto Ultra, grazie al quale gli Alleati riuscirono a decifrare i messaggi in codice dei nazisti.
La necessità di utilizzare le informazioni con la necessaria cautela, al fine di evitare di insospettire i nemici, la relazione complessa tra utilizzo delle informazioni grezze e lavoro degli analisti, gli effetti delle informazioni sulle decisioni militari sono tutti aspetti ben trattati nel libro e aiutano il lettore a comprendere tutta la complessità del momento storico. Ma il libro è anche un interessante monito sulla necessità di limitare il potere dei servizi e di evitare che le informazioni possano essere utilizzate dal governo in carica, in tempi di pace, per fini politici.
Un libro interessante che ci aiuta a rileggere la straordinaria vicenda politica di Winston Churchill da un punto di vista utile anche a comprendere il complesso rapporto tra servizi segreti e istituzioni politiche.
Carlo Amenta, direttore Osservatorio sull’economia digitale IBL
Mr. Men Collection Box, di Roger Hargreaves (Farshore, 2021)
Mr. Men è una serie britannica di libri per bambini scritti e illustrati negli anni Settanta dall’autore inglese Roger Hargreaves, estremamente popolari nel mondo ma poco conosciuti in Italia. Ognuno dei 48 volumetti è dedicato a un omino colorato, identificato da una caratteristica: Mr. Quiet, Mr. Happy, Mr. Loud, Mr. Small, e così via. Quella caratteristica è spesso il suo limite iniziale, ma ogni personaggio cerca di trovare un modo per collaborare con gli altri, e realizzarsi attraverso il lavoro. Interagendo con altri omini, i personaggi scoprono che il tratto che sembrava limitarli può però essere utile e renderli perfetti per altro.
Ad esempio Mr. Quiet ha una vocina flebile e non riesce a farsi sentire dagli altri, ma su suggerimento di Mr. Happy trova la sua strada come bibliotecario. Mr. Bump sbatte su tutto ciò che incontra, ma riesce a trovare lavoro in un meleto, scoprendosi capace a far cadere la frutta da raccogliere. Mr. Rush prova molti lavori, ma è sempre troppo frettoloso perché gli riescano bene, finché non gli viene proposto di lavorare come postino.
In un’epoca in cui la letteratura sull’infazia spesso si trasforma in moralismo forzato, questi libriccini sembrano essere basati sui principi di filosofia morale di Adam Smith: mostrano come la diversità sia un valore e che il mercato è il posto dove la possiamo mettere a frutto. Cooperando con gli altri, mettendo a loro disposizione le nostre caratteristiche, sono proprio le nostre differenze a rendere possibile la divisione del lavoro. Mr. Men ci ricorda che la valorizzazione della diversità non è solo una recente moda woke, ma è il cuore della filosofia degli economisti liberali classici.
Dai 3 anni in su, per crescere piccoli liberali.
Rosamaria Bitetti, fellow IBL
Regime change: Toward a postliberal future, di Patrick J. Deneen (Swift Press, 2023)
In questo libro, Patrick Deneen, professore all’Università di Notre Dame e autore di Why Liberalism failed, si propone di gettare le basi storiche e intellettuali per la formazione di una nuova élite che possa rimpiazzare quella attuale e promuovere un rinnovato rapporto di fiducia tra cittadini e classe dirigente.
Questo libro vuole essere la pars construens di Why liberalism failed – nel quale Deneen enuncia una critica serrata dell’attuale ordine liberale che avrebbe “eroso le norme culturali e le abitudini politiche essenziali all’autogoverno” – e lo fa evidenziando la necessità dello sviluppo di una classe dirigente allineata con l’interesse dei più che abbia gli strumenti culturali per contrastare quella attualmente al potere. Deneen spiega che la necessità di questa nuova élite risiede nel fatto che troppo spesso le rivoluzioni dal basso non riescono nel loro obiettivo e finiscono per essere inefficaci o per essere snaturate.
Nicolò Bragazza, fellow IBL
Una squadra, di Domenico Procacci (Fandango Libri, 2022)
E ora siamo tutti tennisti (o perlomeno esperti di tennis). Con l’ascesa di Jannik Sinner tra i primi giocatori al mondo della classifica ATP e la vittoria della Coppa Davis, il tennis in Italia è lo sport del momento. L’iniziativa di Domenico Procacci non poteva pertanto cadere in un periodo migliore: libro e serie tv sulla prima “squadra” italiana che vinse la Davis in Cile nel 1976.
Le interviste a Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci, Tonino Zugarelli e Nicola Pietrangeli sono un vero spasso. I cinque discorrono senza filtri di tennis e di vita privata, manifestano apertamente le loro insofferenze, infarciscono i racconti con gustosi aneddoti e non hanno paura di sconfinare nel “politicamente scorretto”. Alla prima domanda (Dai, cominciamo dai tuoi inizi. Come hai iniziato a giocare a tennis?) Panatta risponde: “No, un’altra volta come ho cominciato a giocare a tennis? Tutta ‘sta roba… che rottura di palle”.
Sport individuale per eccellenza, che nella Davis trova la sua eccezione, il tennis è sport formativo: lì, sul campo, da soli ad affrontare sé stessi, l’avversario e il pubblico. Nelle interviste emerge tutta l’individualità dei cinque protagonisti dell’impresa azzurra: i loro estri, le loro debolezze, le avventure e le disavventure fuori e dentro il campo. E poi c’è il contesto che li avvolge: politico, sociale ed economico. Lo shock dell’apartheid vista in Sudafrica e il grande dilemma: giocare o non giocare a Santiago contro il Cile di Pinochet? La “squadra” è fortemente decisa a giocare, nonostante le richieste di boicottaggio: sport e politica che si mischiano, in un periodo storico in cui tutto è politicizzato. Ne esce un bello spaccato di un’altra epoca, a noi comunque molto prossima. E il ritratto di cinque uomini, con alcune virtù e tanti vizi, e dal pensiero piuttosto libero.
Filippo Cavazzoni, direttore editoriale IBL
La libertà del volere umano, di Arthur Schopenhauer (Laterza, 2004 [1839])
Saggio premiato nel 1837 dalla Società Reale Norvegese delle scienze, e pubblicato nel 1839, risollevando il morale all’autore dopo il fallimento e le reazioni del Il mondo come volontà e rappresentazione (1818). Il testo cercava di risolvere le incongruenze di Kant sulla libertà del volere.
L’uomo fa tutte le volte solo quello che vuole, e tuttavia lo fa necessariamente, scrive Schopenhauer. Questo perché “egli è già quello che vuole”.
L’autore naturalmente non si poneva il problema che il libero arbitrio fosse un autoinganno. Nondimeno metteva da parte la coscienza come soluzione. Per lui la volontà è libera ma solo in sé stessa e al di là di come appare alla mente, o intelletto, di un osservatore. Noi siamo quindi responsabili delle nostre azioni interiormente, in ragione della essenza del nostro essere, cioè di una volontà libera (i cui effetti sono il carattere innato di ogni persona). Siamo come la volontà ci ha fatti. E si tratta di un’intuizione più compatibile con una idea naturalistica di come e perché ci pensiamo o meno liberi. Al di là delle sterminate chiacchiere sull’esperimento di Libet.
Gilberto Corbellini, membro del comitato editoriale IBL Libri
Il liberalismo funziona, di Deirdre N. McCloskey (IBL Libri, 2023 [2019]) e Epicureismo e Individualismo, di Raimondo Cubeddu (Rubbettino, 2024)
Quest’anno di libri vorrei segnalarne due. E la generosità è anche un po’interessata. Il primo è quello di Deirdre N. McCloskey, Il liberalismo funziona. E il motivo è quello che si legge nel sottotitolo: Come gli autentici valori liberali rendono il mondo più libero, equo e prospero per tutti. Ci si rende immediatamente conto che si tratta di una vigorosa riaffermazione di quell’orgoglio di essere e di essere stati liberali di cui spesso ci si è dimenticati, che i tanti detrattori insistono proterviamente a negare e sul quale le sfide e la complessità del mondo contemporaneo possono proiettare un’ombra di dubbio.
A me, per certi versi, il libro ha ricordato quelli scritti da Buchanan, da Friedman, da Hayek e da Leoni agli inizi degli anni Sessanta coi quali, dopo decenni di declino e di sfiducia, apparve chiaro che il liberalismo aveva sempre molto da dire, che la battaglia contro il socialismo era tutt’altro che persa, che la si poteva combattere a testa alta, e che quindi il liberalismo non era la decadente “ideologia della classe borghese”: del famigerato homo œconomicus ormai abbandonato dalla invisible hand.
Nel libro di McCloskey, oltre ad una nuova e stimolante indagine sulle origini e la natura del liberalismo, troviamo diversi ingredienti, uno stile di scrittura più agile di quei classici, ma lo stesso intento: la dimostrazione del fatto che di fronte all’irruenza di continui mutamenti (dei quali non sempre ci rendiamo conto dell’impatto e di come se ne distribuiranno le conseguenze) i valori del liberalismo rimangono non soltanto validi ma soprattutto attuali. Proprio perché quei cambiamenti richiamano l’attenzione sull’insostituibile ruolo della libertà individuale.
Il secondo, come dicevo, è un po’ interessato (e ne chiedo scusa). A gennaio sarà in libreria, sul sito dell’editore e su Amazon, il mio Epicureismo e Individualismo. Per una storia della filosofia politica. Ne riporto la quarta di copertina.
Qual è stata l’importanza della riscoperta rinascimentale di Epicuro e di Lucrezio per la nascita e per lo sviluppo della filosofia politica moderna? In genere si tende ad interpretare la modernità come una sorta di secolarizzazione del cristianesimo, ma, mettendo in luce come in molti dei suoi principali esponenti scorresse una vena di ateismo lucreziano, il volume mostra invece come una sua cospicua parte possa essere intesa come un tentativo di “liberarsi” del cristianesimo e dell’aristotelismo. E come, giunte per vie parzialmente inesplorate, le dottrine epicuree, che delineano un paradigma interpretativo dell’uomo diverso da quello classico e da quello cristiano, siano presenti nei principali esponenti di quello che Hayek definisce il “vero individualismo”: Mandeville, Hume, Menger. Vale a dire nei teorici delle istituzioni sociali come possibili esiti di azioni umane tendenti a perseguire valori e fini soggettivi.
Ricostruendo la dottrina epicureo-lucreziana dell’utilità, del linguaggio, del clinamen, del diritto, della politica e la sua trasformazione in Hobbes, Gassendi, Spinoza e Bayle, il volume indaga sul modo in cui essa è stata intesa da protagonisti della tradizione individualistica: Mandeville, Galiani, Hume, Montesquieu, Smith, Burke, Ferguson, Menger, Mises e Leoni.
Si tratta di un’indagine su quella congiunzione di ateismo e di edonismo politico introdotta dall’epicureismo moderno che, per Strauss, ha dato vita ad “una rivoluzione che si è diffusa dappertutto e alle cui proporzioni nessun altro pensiero si è mai finora avvicinato”. Una rivoluzione che ha dato origine ad un utilitarismo individualistico e ad uno statalistico, e che però non contagia i Libertarians i quali subiscono il fascino del razionalismo etico di Aristotele.
Dunque, un’interpretazione fortemente innovativa tanto della nascita del liberalismo, quanto della filosofia politica moderna, che poggia su una rigorosa analisi dei testi e che a tratti si sviluppa come un romanzo.
Raimondo Cubeddu, senior fellow IBL
Forbidden Grounds: The Case Against Employment Discrimination Laws, di Richard A. Epstein (Harvard University Press, 1995) e Le ragioni della discriminazione, di Walter Block (Liberilibri, 2023)
Per affrontare un tema che sicuramente avrà nuovi sviluppi nel 2024, è molto utile una coppia di libri. Il tema è la discriminazione contrattuale, e in particolare la questione dei limiti che vengono imposti alla libertà delle aziende di scegliere le proprie controparti, allo scopo di promuovere l’uguaglianza nella società. I libri sollevano sane ragioni di scetticismo verso la continua crescita di questi limiti, da una prospettiva rispettivamente pragmatica e ideologica.
Il primo libro è ormai in larga misura dimenticato, e già nella sua epoca non ottenne lo spazio che meritava (anche se fu pubblicato dalla casa editrice di Harvard, qualcosa che oggi sarebbe forse impensabile). Epstein vi sviluppò in modo assai convincente, e tuttora valido, una riflessione all’insegna dell’analisi economica del diritto che spiegava perché il mercato è in grado di combattere le discriminazioni ingiustificate molto più efficacemente di leggi e divieti: un lavoratore valido ingiustamente penalizzato da un datore razzista o omofobo, o carico di altri pregiudizi, andrà a lavorare per altri datori più aperti, a tutto vantaggio di questi ultimi e a danno del datore che se ne è privato senza motivo. Una legge che costringa il datore razzista o omofobo a tenersi un lavoratore bravo che non vuole, paradossalmente fa un favore al primo, trattenendo il secondo in un contesto lavorativo comunque ostile.
Il secondo libro è più ideologico, ma parimenti formidabile nello smontare alcuni dogmi del politicamente corretto. Si tratta di un monumentale lavoro che raccoglie tutta l’ampia riflessione di Block sul tema, di cui recentemente Lorenzo Maggi per Liberilibri ha tradotto alcuni capitoli particolarmente significativi con il titolo Le ragioni della discriminazione e l’aggiunta dell’ottimo sottotitolo Una difesa radicale della libera scelta. Per quanto possano essere sgradevoli, fintantoché non costituiscono un atto di aggressione nei confronti di qualcuno le scelte libere devono essere rispettate dal diritto. Oggi che sia l’Europa sia gli Stati Uniti vanno in direzione completamente opposta, le pagine di Block costituiscono un validissimo insieme di argomenti sui rischi cui questa direzione comporta per una società che voglia rimanere libera e aperta.
Riccardo De Caria, fellow IBL
Il cammino della libertà. Storia della società aperta dal mondo antico alla modernità, di Rocco Pezzimenti (Rubbettino, 2019)
In questo volume Rocco Pezzimenti, Professore di Filosofia politica alla Lumsa di Roma, dove è stato Direttore del Dipartimento di Scienze Economiche, Politiche e delle Lingue moderne, mantiene ciò che promette già nel titolo: ripercorre il cammino della libertà lungo i secoli, dall’Antichità, passando per il Medioevo, fino alla Modernità, arricchendo la sua analisi con le riflessioni scaturite dalla stimolante corrispondenza intrattenuta con Karl Popper, Isaiah Berlin e Hilary Putnam.
Lo scopo del libro – per stessa ammissione dell’autore – è di mostrare che le “società aperte”, di cui è possibile scorgere i prodromi, pur solo embrionalmente, nel mondo dello ius romanum, non sono “un dono fatto dalla natura agli uomini” né “il frutto del caso o del fato”, ma il risultato di tale “difficile e lento” cammino. Così Pezzimenti propone una corposa e ragionata carrellata di autori – Cicerone, sant’Agostino, Giovanni di Salisbury, san Tommaso, Vico, Montesquieu, Hume, Rosmini, Lord Acton, Tocqueville, tra gli altri –, che in diversa misura hanno contribuito a lastricare la via della libertà.
L’invito sotteso al lettore è di non dare per scontate le conquiste faticosamente raggiunte dalle nostre “società aperte” e di contentarsi, in barba ai costruttivismi utopici e agli idealismi etico-finalistici, di società meno perfette e più libere.
Arianna Liuti, redattrice Lisander
Liberty, Equality, Fraternity, di James Fitzjames Stephen (University of Chicago Press, 1992 [1873])
La storia del pensiero politico è un cimitero di autori dimenticati o poco noti. È questo il caso di James Fitzjames Stephen (1829-1894). Considerato da Isaiah Berlin uno dei maggiori critici di J.S. Mill, se non il più importante, Stephen non divenne mai un accademico, ma si occupò per tutta la vita di questioni giuridiche. Di famiglia parzialmente aristocratica, da parte di madre, fu zio di Virginia Woolf nonché cugino del costituzionalista Albert Dicey. Non scrisse mai opere sistematiche, almeno di teoria politica. Fu però assai prolifico in fatto di saggi brevi. E proprio una raccolta dei suoi articoli, usciti originariamente per la “Pall Mall Gazette”, costituisce un’opera importante: Liberty, Equality, Fraternity pubblicato in prima edizione esattamente 150 anni fa, ovvero nel 1873.
Influenzato dall’utilitarismo benthamiano, e in qualche misura anche da Mill, così come dall’antropologia pessimistica hobbesiana, Stephen elaborò una poderosa critica alla triade concettuale della Rivoluzione francese. In riferimento al concetto di libertà, in particolare, l’Autore ne considerava pericolosa un’accezione astratta e razionalistica. Piuttosto, egli sosteneva, l’idea di libertà necessita di presupposti, prerequisiti o fondamenti, che dir si voglia, che vanno coltivati dalla persona stessa – per non dire dell’importanza della common law.
Per Stephen, contrariamente a Mill, la libertà come esperimento di vita e ricerca spasmodica di originalità individuale non necessariamente porta a una società libera. Anzi, una disciplina coltivata per mezzo del sentimento religioso o dello spirito di comunità, delle tradizioni ereditate e dei costumi cresciuti in un dato contesto, può condurre all’edificazione di una persona che sa esercitare una libertà ordinata e responsabile: per Stephen, insomma, la libertà non è licenza. Quest’ultima, piuttosto, mette a repentaglio l’infrastruttura morale che una libertà ordinata presuppone e da cui è sostenuta.
Carlo Marsonet, redattore Lisander
Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici, di Lorenzo Milani (Il Pozzo di Giacobbe, 2017 [1965]), Lettera dal carcere di Birmingham, di Martin Luther King (Castelvecchi, 2013 [1963]) e Discorso sulla servitù volontaria, di Étienne de La Boetie (Feltrinelli, 2014 [1577])
Tre testi, che sono tre tentativi di risposta alla più radicale delle domande politiche: perché obbedire?, selezionati per tre motivi: perché sono dei classici del pensiero; perché a quella domanda si accostano tutti e tre allo stesso modo – in negativo, ossia individuando le condizioni di fronte alle quali si deve dis-obbedire –; perché l’anno che volge al termine li lega a mo’ di coincidenza anniversariale.
Sono infatti trascorsi 100 anni dalla nascita di don Lorenzo Milani, nel 1923; 60 da quel 16 aprile 1963 in cui Martin Luther King rivolgeva, dal carcere di Birmingham (Alabama), la propria lettera ai ministeri del culto che avevano giudicato pericolosa la sua strategia di lotta; 460 dalla morte, nel 1563, del magistrato di Sarlat di cui sappiamo pochissimo, se non che fu amico intimo di Montaigne e che, vergando appena ventenne il Discours, aveva già colto le minacciose potenzialità dello Stato moderno che proprio in quel torno di tempo veniva alla luce.
Che la disobbedienza sia un diritto-dovere può risultare traumatico specialmente per il giurista, che guadagna consapevolezza della funzione che è chiamato a svolgere in seno alle comunità civili apprendendo che legum servi sumus ut liberi esse possimus. Ma questo trauma è benefico, se consente di riscoprire un orizzonte di senso nel quale l’obbedienza non è più soltanto un fatto di costume o un’abitudine, ma qualcosa che va meritata, e in cui la disobbedienza (o l’obiezione di coscienza, che pure dalla prima va tenuta distinta) non è una moda o un ripiego soggettivistico, ma un atto di resistenza a certi abusi e ingiustizie del potere, quando questo “degrada la persona umana” (King) o “sanziona il sopruso del forte” (Milani) o “mette in dubbio che noi tutti siamo naturalmente liberi” (de La Boetie).
Giuseppe Portonera, Forlin fellow IBL