Consigli di lettura per il 2023 (seconda parte)
La seconda parte dei Consigli di lettura dello staff e dei collaboratori dell’Istituto Bruno Leoni.
Elinor Ostrom, Governare i beni collettivi (Marsilio, 2006)
Essendo stato recentemente assunto dall’università che fu di Elinor Ostrom, ho riletto i suoi lavori e ne consiglio uno in particolare: Governare i beni collettivi. Istituzioni pubbliche e iniziative delle comunità.
Il libro comincia con due capitoli teorici a cui segue una lunga serie di casi empirici. Tiene insieme una grande mole di lavoro svolto dalla politologa americana sulla gestione delle risorse comuni, come le foreste, i pascoli, i giacimenti di pesca etc.
Il lavoro le valse il premio Nobel per l’economia, prima donna nella storia. I contributi di questo testo sono noti agli esperti e l’idea che per superare la “tragedia” dei beni collettivi non sia necessaria un’autorità di governo sarà cara ai lettori di questo blog. Personalmente, recentemente trapiantato in una delle società più individualiste al mondo, ovvero quella americana, mi è servito a ricordare che non tutto ciò che non è governo e coercizione deve essere scambio e mercato. E che non sempre rifiutare i primi significa giocoforza abbracciare i secondi.
Paolo Belardinelli, research fellow IBL
Christopher Lasch, La cultura del narcisismo (Neri Pozza, 2020)
«Il clima contemporaneo è terapeutico, non religioso. La gente oggi non aspira alla salvazione personale, e tanto meno al ritorno a una primitiva età dell’oro, ma alla sensazione, alla illusione momentanea di benessere personale, di salute fisica e di tranquillità psichica».
In questo saggio del 1979 Lasch delinea con intuizioni a tratti profetiche l’evoluzione e l’affermazione di un nuovo tipo di “uomo” all’interno della società contemporanea: il narcisista. Lasch presenta i motivi dell’ascesa del narcisista e ne delinea le caratteristiche con argomenti che connettono psicologia e sociologia, contribuendo a descrivere quello che è un prototipo di individuo incapace di sviluppare un rapporto con il passato e il futuro e quindi con la propria comunità nel suo insieme. Ne consegue che il narcisista è un individuo perennemente «perseguitato dall’ansia e non dalla colpa» e con un egocentrismo smisurato che lo porta a lodare «il rispetto delle norme e dei regolamenti nella segreta convinzione che non si applichino nei suoi confronti».
E questo ha ovviamente importanti implicazioni sociali, economiche ma soprattutto politiche…
Nicolò Bragazza, fellow IBL
Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo (Adelphi, 2016)
Il 2023 sarà un anno gaddiano: i cinquant’anni dalla sua scomparsa verranno celebrati con varie iniziative, mentre proseguirà la ripubblicazione di tutte le sue opere per Adelphi, che sta curando ogni nuova uscita con il solito rigore e l’aggiunta di “note ai testi” che sono uno sballo per ogni appassionato.
Per Arbasino, Carlo Emilio Gadda era uno scrittore rivoluzionario travestito da commendatore, quindi ogni suo libro può peccare di eccesso di “baroccaggine” e di originalità, ma non può mai difettarne. Se però dobbiamo individuare il libro dell’ingegner Gadda più ardito e singolare, la palma penso spetti a Eros e Priapo, primo anche per oscenità. Come per ogni suo volume, la storia che lo accompagna è travagliata: la prima stesura è del 1944-45, verrà pubblicato solo nel 1967 da Garzanti, tuttavia in versione “censurata” da Gadda stesso e come “volume obbligativo”, per accontentare bramosi editori che dopo il successo del Pasticciaccio si contendevano tutto ciò che Gadda aveva scritto o che rimaneva di inedito.
Ma perché si tratta di un libro “scandaloso”? L’edizione Adelphi curata da Paola Italia e Giorgio Pinotti propone per la prima volta la “versione originale” del testo, che è, in estrema sintesi, una violenta resa dei conti, personale e collettiva, col fascismo. Trattasi però di un’analisi del fascismo “fisiologica” e, come può già far intuire il titolo, psicanalitica. Non è un’opera storiografica scritta da uno storico, ma è un’opera letteraria scritta dall’equivalente italiano di Joyce, Musil, Proust… insomma, il meglio che la letteratura del Novecento abbia offerto per creatività, estro e qualità.
Gadda non è stato un oppositore del fascismo, appena giunto in Argentina al termine del 1922 (l’ha portato lì il suo lavoro di ingegnere) frequenta la comunità italiana e la locale casa del fascio; fino al 1941 continua inoltre a pagare la quota annuale della tessera del Partito nazionale fascista. La rabbia che riversa nel libro è anche quella di una disillusione, che – come detto – è personale e collettiva; ma è pure il tentativo di capire le ragioni dell’innamoramento tra il duce e la nazione e, più in generale, del patologico rapporto tra il potere e la massa. Ragioni che vengono individuate nella sconfitta del Logos a vantaggio di un Eros corrotto, dissoluti istinti che hanno avuto la meglio sul raziocinio. Una nazione – che viene omologata da Gadda alla sua componente femminile – vittima di un delirio di idolatria, con un capo-popolo in preda a un narcisismo irrisolto.
Da “dilettante di talento” nell’accostarsi a Freud, Gadda giunge anche a realizzare un interessante profilo della personalità “narcissica” e della sua «morbosa tendenza a innalzarsi», opposta alla condotta dell’“uomo normale”: «L’uomo normale dallo spirito di verità l’è condutto a una necessaria umiltà critica e gnostica, se non alla profonda e caritativa umiltà del Cristianismo. La possibilità di errore è preveduta, è scontata. L’uomo normale conosce prudenza, conosce temperanza».
La lezione “etica” da apprendere, per evitare il ripetersi di un regime tirannico, cioè che le “pulsioni dell’io” influiscano negativamente sul vivere civile, viene rimarcata dallo stesso Gadda in un passaggio di un’intervista del 1961 riportata nella “Nota al testo”: «Spregiare, condannare, deridere e avere a schifo in noi il culto della prepotenza», e poi «una perenne attività logica, una seria preparazione alla vita associata, una scuola efficiente, il culto del “dovere”, il rispetto del vicino e del prossimo, una onestà naturale e nativa serbata nell’animo a dispetto del costume e del tempo».
Oltre all’originale lettura freudiana della “ventennale maialata” e del narcisismo, il pamphlet si distingue anche per la forma, per il lessico utilizzato, che, come ha affermato lo stesso Gadda, si basa in parte sul fiorentino cinquecentesco di Machiavelli e Cellini; e per gli intenti satirici, ben esemplificati da tutti gli epiteti con cui viene evocato Mussolini: il mascelluto, il kuce, il bombetta, principe Fava, Predappiomerda, furioso babbeo, Primo Maresciallo del Cacchio, codesto Merda di cervellone Caino, farabutto-Giuda-Maramaldo, Napoleone fesso, eccetera eccetera. Un libro che, inoltre, per l’alto tasso di misoginia contenuto, meriterebbe oggi senz’altro il rogo (metaforico). Non a caso i curatori parlano di Eros e Priapo come di «uno dei testi più estremi della nostra letteratura».
Filippo Cavazzoni, direttore editoriale IBL
Edward O. Wilson, Sulla natura umana (Piano B, 2022)
Un anno fa, il 26 dicembre 2021 moriva all’età di 92 anni Edward O. Wilson, che, nel mio piccolo, ha avuto lo stesso effetto di Hume su Kant: mi ha svegliato da un sonno dogmatico. Wilson è stato un autore iperprolifico, firmando decine di monografie – alcune di larghissimo successo editoriale – e centinaia di articoli scientifici. Probabilmente ha dato il meglio nei monumentali saggi di mirmecologia, nel trattato sulla sociobiologia e in On human nature (Harvard University Press 1978, seconda edizione 2004), con cui ha vinto il Pulitzer nel 1979. Tradotto in italiano da Zanichelli nel 1980 con una pessima prefazione di Giorgio Celli, anche da noi suscitò accese critiche ideologiche.
Scritto in modo erudito, arguto, accessibile ed elegante, con grande sicurezza e disinvoltura, il libro nella prima metà introduce alla psicologia evoluzionistica, e ridicolizza la psicoanalisi così come l’insieme degli approcci umanistici fondati sull’idea che l’uomo sia qualcosa di speciale, e non semplicemente un primate. La seconda parte applica la sua teoria sociobiologica, fondata sulla sintesi evoluzionistica e sui vantaggi adattativi di comportamenti umani trasmessi ereditariamente, a tratti importanti della natura umana come aggressività, sessualità, altruismo e religione. La natura umana esiste, dice Wilson, ed è descrivibile e spiegabile.
Se si abbandonano le metafisiche speculative di filosofi e psicologi velleitari e da poltrona che credono di poter dimostrare l’eccezionalità umana, si scopre una ricchezza umana che è davvero straordinaria, soprattutto a causa di quelli che le nostre intuizioni considerano difetti. La natura umana, nel mondo moderno, ha reso possibile il capitalismo, la scienza e le idee liberali, cioè benessere e libertà, che discendono dell’inclinazione naturale, e non uguale in ogni persona, a cercare individualmente e indipendentemente di migliorare le proprie capacità, e di decidere con crescente un’autodeterminazione quando, e con chi, competere e/o cooperare.
Gilberto Corbellini, membro del Comitato editoriale di IBL Libri
Collana “Classici contemporanei“ (IBL Libri)
Il 2022 ha visto nascere una nuova collana editoriale di IBL Libri, dedicata ai “Classici contemporanei”: agili introduzioni per conoscere le idee e i pensatori che influenzano il nostro tempo. Sei i volumi usciti nel corso dell’anno, scritti da affermati e giovani studiosi.
Si è cominciato con Michael Novak, filosofo e teologo che ha messo al centro della sua riflessione il rapporto tra capitalismo e cristianesimo, si è proseguito con il premio Nobel per economia Douglass North e con un innovativo pensatore come Anthony de Jasay, autore di una fondamentale opera nel campo della filosofia politica come Lo Stato. Il quarto volume è stato invece dedicato al giudice Antonin Scalia, che con la sua impostazione “originalista” ha profondamente influenzato l’attività della Corte Suprema statunitense. Infine, il 2022 si è chiuso con due monografie riguardanti altrettanti alfieri del pensiero libertario: il padre fondatore dell’anarco-capitalismo Murray Rothbard e la scrittrice e filosofa di origini russe Ayn Rand. E nei primi mesi del 2023 si riprenderà con altri titoli, tra cui un’introduzione alla Scuola di Chicago e un volume su John Milbank.
Per chi volesse accostarsi ad alcune delle più importanti idee emerse dalla seconda metà del XX secolo, i “Classici contemporanei” sono la lettura giusta.
Raimondo Cubeddu, presidente del Comitato editoriale di IBL Libri
Ludwig von Mises, Lo Stato onnipotente (Società Aperta, 2021)
Quando vi nacque Mises nel 1883, Leopoli apparteneva all’Impero Austro-Ungarico. Da allora, la città ha fatto parte della Polonia, dell’Unione Sovietica e ora dell’Ucraina. Non è quindi un caso che uno dei protagonisti della cultura liberale del Novecento si sia interessato agli sconvolgimenti che hanno interessato l’Europa nel cosiddetto secolo breve.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1944, Lo Stato onnipotente (il titolo originale è Omnipotent Government) si interroga sulle cause della crisi dell’ordine liberale travolto dalla Grande Guerra, dell’ascesa del nazionalismo e della nascita del nazismo. L’opera è apparsa negli stessi anni di La via della schiavitù di Hayek e di La società aperta e i suoi nemici di Popper. «Tre rappresentanti della grande cultura viennese hanno cercato di gettare luce sul perché delle più terrificanti vicende del Novecento e della storia umana», scrive Lorenzo Infantino nell’Introduzione che arricchisce il volume.
La riflessione di Mises ruota attorno al rigetto della politica liberale da parte delle classi politiche e delle masse. Il Novecento ha assistito al crescendo del potere dello Stato fino al suo climax rappresentato dal totalitarismo. Mises, riparato negli Stati Uniti come esule, ha vissuto sulla propria pelle il dramma del più terribile attacco mai portato alla libertà umana. Lo Stato onnipotente è un libro che a quasi ottant’anni dalla sua pubblicazione non ha perso nulla della sua forza e della sua drammaticità. Per questo è utile leggerlo oggi, come documento e testimonianza di quella difesa della libertà che sta alla base della società aperta.
Nicola Iannello, senior fellow IBL
Steve Hilton, Positive Populism: Revolutionary Ideas to Rebuild Economic Security, Family and Community in America (Crown Forum, 2018)
Dopo More Human: Designing a World Where People Come First, non un nuovo, perché del 2018, ma un altro interessante libro di Steve Hilton. E’ difficile convincere che la globalizzazione, la centralizzazione ed il gigantismo del potere politico ed economico, l’automazione del lavoro e l’immigrazione incontrollata siano cose buone e giuste per tutti quei lavoratori che da decenni con il loro stipendio non riescono a campare fino a fine mese. Steve Hilton in questo libro cerca di comunicare la bontà di soluzione pragmatiche, liberiste pro-mercato, a grandi temi quali, ad esempio, l’istruzione, la sanità, la famiglia, elaborando una lettura in chiave positiva delle istanze populiste per evitare di lasciarle nelle grinfie dei cantori dello statalismo e del neo-collettivismo.
Eugenio Montale, Satura (Mondadori, 2018) e Diario del ’71 e del ’72 (Mondadori, 2020)
Una poesia per tutte (non su tutte) Fanfara. L’ironia fatta a poesia, sul materialismo storico e tutte le ideologie bislacche che ancora oggi girano per il mondo. Quanto manca Montale, la poesia di quel “teppista borghese” così come lo schernì Pier Paolo Pasolini, perché lontano da ogni posa letteraria, dal protagonismo e dagli ideologismi che pretendono di avere in tasca la verità. Nella lettera a Malvolio Montale dice di Pasolini: “con quale agilità rimescolavi materialismo storico e pauperismo evangelico”: e non a caso nella lunga contesa tra sinistra e destra per rivendicare la figura di Pasolini, hanno vinto entrambe. Ai perdenti, per fortuna, rimane Eugenio Montale.
Gemma Mantovani, collaboratrice di Leoni Blog
Iosif Brodskij, Fuga da Bisanzio (Adelphi, 2016)
«In uno Stato centralizzato tutte le stanze sembrano uguali: l’ufficio del preside era una copia esatta degli uffici di polizia […] Gli stessi pannelli di legno, le stesse scrivanie, le stesse sedie […] Gli stessi ritratti dei nostri padri fondatori, Lenin, Stalin, membri del Politburo, e di Massimo Gor’kij (il fondatore della letteratura sovietica) se era una scuola, o di Felici Dzerzinskij (il fondatore della polizia segreta sovietica) se era la stanza dell’interrogatorio. […] E quelle pareti a stucco delle mie aule, con la loro striscia azzurra orizzontale all’altezza degli occhi, tracciata infallibilmente attraverso tutto il Paese come la linea di un infinito denominatore comune: in sale, ospedali, fabbriche, prigioni, corridoio di appartamenti comuni. Solo in un posto mi è avvenuto di non incontrarla: nelle baracche di legno dei contadini».
Sono passati pochi mesi da quando qualche università ha pensato che il suo contributo alla causa ucraina fosse smettere di insegnare Dostoevskij e giusto qualche settimana da quando c’è stato bisogno del Presidente della Repubblica per ricordarci che in un Paese libero i teatri d’opera decidono la loro programmazione sulla base di criteri propri, e non di pretese esigenze geopolitiche. Il nazionalismo, anche quello per procura, si diverte ad accompagnare la ragione nelle braccia di Morfeo.
Invece è raro che si comprenda bene cosa sia la libertà (e ancora di più che cosa fosse il suo contrario) come leggendo le pagine di alcuni grandi scrittori russi del Novecento. Iosif Brodskij è uno di quegli scrittori miracolosi che non lasciano mai una parola fuori posto. Fra un ricordo di Nadežda Mandel’štam e pagine su Auden di lancinante bellezza, rasoiate sulla complicità degli intellettuali («nella coscienza degli uomini di lettere, c’è qualcosa che non può sopportare l’idea che qualcuno possieda un’autorità morale») e considerazioni illuminanti sulla politica e le sue trappole.
«La società, essendo un’entità organica, genera le forme della propria organizzazione al modo in cui gli alberi generano la distanza che li separa l’uno dall’altro, e il passante dice che quella è una “foresta”. Il concetto di potere, alias controllo dello Stato sul tessuto sociale, è una contraddizione in termini e rivela un’anima da tagliaboschi».
Alberto Mingardi, direttore generale IBL
Enzo Striano, Il resto di niente (Mondadori, 2016)
Cosa vuol dire poter studiare? Torna infelice una domanda che non ci poniamo nemmeno più, nei giorni in cui – da lontano – vediamo le lacrime delle donne afghane, a cui è stato appena vietato l’accesso all’università, dopo essere stato inibito loro quello alle scuole.
Le risposte sono fin troppo scontate, adagiate sulla naturalezza con cui nella nostra parte di mondo non solo le donne possono studiare, ma stanno anche dimostrando la loro forza intellettuale, professionale, politica. Però il dramma delle giovani afghane ci impone di ripensare a quella domanda. E per farlo suggerisco di leggere di Enzo Striano Il resto di niente, romanzo storico sulla vita di Eleonora de Fonseca Pimentel Chaves, uno dei personaggi principali dei moti napoletani che portarono alla Repubblica Napoletana del 1799 (sulla cui esperienza costituzionale suggerisco a sua volta il libro sul Progetto di Costituzione curato dal professor Mastroberti per la Liberilibri nel 2012).
Nata a Roma da famiglia portoghese, in fuga da Roma verso Napoli durante la sua infanzia, grazie alla vivacità e alla disponibilità dei suoi familiari, viene educata allo studio delle lettere classiche. Dotata di spiccata curiosità intellettuale ma anche di spirito di sicurezza, in un mondo ancora molto maschile, viene accolta con affetto dall’ambiente colto napoletano e matura, pian piano, una coraggiosa visione illuministica del mondo, anche rispetto alla tradizione cattolica di famiglia. Con uguale coraggio rispetto alle sue radici, quando divenne protagonista della vita politica della breve Repubblica napoletana fece cancellare il “de” dal suo cognome. Venne incarcerata con l’accusa di giacobinismo e, poco dopo la liberazione, partecipò alla presa di Castel Sant’Elmo in abiti maschili, per poi essere tra quanti proclamarono la Repubblica Napoletana, e arrivare a dirigere il Monitore napoletano. Condannata a morte dopo il ritorno dei Borboni tra il dileggio di un popolo che non aveva perso l’affezione per la monarchia e per il papa.
Striano dedica la sua opera più importante (e postuma) alla forza morale e intellettuale di Leonor, di cui ripercorre – romanzando con verosimiglianza – anche le debolezze affettive, i crucci dovuti alla distonia dell’epoca tra l’essere donna e l’occuparsi di cose tipicamente maschili.
Soprattutto, Striano, nelle prime cinquanta pagine, insiste sull’importanza della formazione della protagonista. Come sanno meglio di noi le donne a cui, in Afghanistan, è vietato istruirsi.
Serena Sileoni, fellow IBL
Fabrizio Rondolino, Il nostro Berlinguer (Rizzoli, 2022)
Si può raccontare la vita di un leader politico attraverso un album di fotografie? Fabrizio Rondolino ci ha provato (e ci è riuscito) con Il nostro Berlinguer, straordinaria testimonianza storica, politica e umana nel centenario della nascita dell’ex segretario del Partito comunista italiano.
Il libro presenta fotografie dell’uomo, riproduzioni di volantini e manifesti, ricostruzioni di fatti biografici e idee. L’autore ripercorre la vita di Berlinguer, raccoglie testimonianze, ne ricostruisce l’evoluzione intellettuale e politica e attraverso di essa getta uno sguardo sulla trasformazione del paese nel periodo che va dall’esplosione del fascismo alla crisi del comunismo. Una tesi forte del volume è che non c’è una cesura tra il “primo” e il “secondo” Berlinguer, quello del compromesso storico e quello della questione morale: «nelle parole e nelle intenzioni di Berlinguer, il compromesso storico non è mai stato (soltanto) l’alleanza con la DC, e l’alternativa non è mai stata (soltanto) alternativa alla DC. Le due formule […] esprimono semmai una venatura gramsciana che Berlinguer introduce all’interno dell’architettura togliattiana classica, dove l’attenzione e il dialogo con i movimenti, con la società civile nelle sue diverse espressioni, con la complessità del corpo sociale correggono e irrobustiscono l’astrattezza del gioco politico-parlamentare».
Né si può trarre un bilancio dell’esperienza di Berlinguer, interrotta così bruscamente dal malore sul palco di Padova, il 7 giugno 1984, e la morte pochi giorni dopo, il 13 dello stesso mese. È come guardare una partita che si chiude a metà del secondo tempo, chiosa Rondolino. Che chiude il libro raccontando l’omaggio di Giorgio Almirante, il quale andò a porgere l’estremo saluto all’avversario da solo «perché non dovevo temere nulla e perché oltre il rogo non v’è ira nemica». E affida l’ultima considerazione al ricordo di Vezio Bagazzini, il gestore del bar vicino a Botteghe Oscure che per anni ha servito il caffè agli uomini del Pci: «quando parlava, porco Giuda, coi toni nemmeno enfatici – nun era manco un grandissimo oratore – sembrava che sapeva quello che c’avevi dentro: un problema coniugale, d’affitto, se c’avevi un problema de lavoro, se il figlio nun andava bene a scola […] nu lo so: te volava via il tempo quanno lui stava a parlà; e poi uscivi che te sentivi ricaricato, la diversità era questa».
Il tempo ti vola via anche sfogliando Il nostro Berlinguer, un libro che non si può non leggere con attenzione e con tenerezza, perché certo, racconta di un grande amore di Rondolino, ma racconta in fondo di un grande amore dell’intero paese, che infatti si congedò da Berlinguer attribuendo al Pci, alle elezioni europee del 17 giugno, il risultato migliore della sua storia (33,33 per cento, primo partito). Viene il dubbio, leggendo tra le righe, se Rondolino, parlando di Berlinguer, abbia più nostalgia del comunismo italiano o del suo stesso essere stato, senza esserlo più, un comunista italiano. Consapevole allora e ora dei limiti insuperabili di quel tentativo di mettere assieme la capra sovietica e i cavoli democratici, ma che in fondo “se sentiva”, e “se sente”, ricaricato, come il barista Vezio Bagazzini, al pensiero che c’è stato un tempo in cui fare politica era una bella cosa, anche se stavi dalla parte sbagliata della storia proprio nel momento in cui la storia aveva deciso di dimostrartelo.
Carlo Stagnaro, direttore Ricerche e Studi dell’IBL