21
Dic
2022

Consigli di lettura per il 2023 (prima parte)

Anche quest’anno, in prossimità del Natale, l’IBL propone alcuni consigli di lettura, da regalare in occasione delle festività oppure da regalarsi per iniziare il nuovo anno in buona compagnia. Libri che hanno a cuore le nostre libertà, che ci aiutano a non dimenticare le lezioni della Storia e che possono farci riflettere sui problemi e le questioni che caratterizzano i nostri tempi.

Dan Ariely, The Honest Truth About Dishonesty: How We Lie to Everyone, Especially Ourselves (HarperCollinsPublisher, 2012)

L’economia comportamentale studia i meccanismi psicologici e gli incentivi che muovono gli agenti economici nelle loro interazioni quotidiane. Con la sua, non troppo convincente, critica all’homo economicus dell’economia classica è sembrata davvero una piccola rivoluzione all’interno della disciplina economica. A partire dal Nobel a Daniel Kahnemann e proseguendo con quello a Richard Thaler, gli economisti comportamentali hanno vissuto momenti di gloria nei dipartimenti delle più importanti università e disegnato policy come consulenti di governo.

Dan Ariely è un importante esponente di questa branca dell’economia e nel suo libro muove da una critica al modello tipico e razionale dell’analisi costi benefici che Gary Becker applica anche ai comportamenti disonesti, per guidarci attraverso esperimenti e casi che dimostrano come l’inclinazione a imbrogliare sia molto più comune di quanto riusciamo ad ammettere. Il libro raccoglie diversi anni di studi condotti da Ariely e dai suoi colleghi ed evidenzia quali sono i fattori contestuali e quelli sociali che aumentano o diminuiscono la tentazione di barare. L’autore mette altresì alla luce come ciascun individuo abbia la tendenza a tollerare questi comportamenti autoassolvendosi con imbarazzante facilità. La generalizzabilità dei risultati e l’interpretazione un po’ sbrigativa dell’analisi di Becker non sono particolarmente convincenti ma il libro è certamente divertente e fornisce una grande quantità di cocktail stories da raccontare soprattutto nel periodo natalizio, quando la nonna cercherà di fregarci a tombola dichiarando un ambo mai ottenuto.

Il libro ci ricorda comunque di come gli individui siano meravigliose creature imperfette e resta un monito per chi pensa di poter indirizzare i comportamenti individuali secondo una presunta automaticità delle risposte a policy e interventi calati dall’alto.

Carlo Amenta, direttore dell’Osservatorio sull’economia digitale dell’IBL


Luca Cifoni e Diodato Pirone, La trappola delle culle. Perché non fare figli è un problema per l’Italia e come uscirne (Rubbettino, 2022)

In un Paese che si dibatte tra più o meno fondate situazioni di emergenza ricorrente, sembra trascurata quella relativa alla natalità. Luca Cifoni e Diodato Pirone, invece, affrontano il problema del calo delle nascite, non solo per evidenziarne le cause e l’evoluzione, ma anche per suggerire rimedi, che sono tasselli spesso mancanti quando si discute il tema.

Il pregio del libro è quello di andare oltre le considerazioni estemporanee e i luoghi comuni del dibattito pubblico sulla natalità. La chiave della situazione attuale può essere individuata in questa frase: «La scelta delle italiane e degli italiani di avere pochi figli – spontanea o meno che sia – si inserisce in un quadro in cui le nascite si riducono da sole, in automatico». Gli italiani fanno meno figli rispetto al passato soprattutto perché sono pochi i genitori potenziali. Ciò a causa del crollo demografico degli anni Settanta e Ottanta, che ha decimato le generazioni che potrebbero fare figli. Le donne italiane nella fascia di età in età feconda sono sempre meno numerose, e ciò determina un minore numero di nascite. Questa spirale, definita come “trappola demografica”, determina rilevanti impatti negativi. «L’assottigliamento degli italiani in età attiva si tradurrà nella carenza di lavoratori, […] con pesanti conseguenze sulla capacità di produrre ricchezza e sulla tenuta del welfare state». Il fatto che le pensioni siano pagate da quelli che oggi stanno lavorando e che, se questi ultimi si riducono, non ci saranno fondi per sostenere il sistema pensionistico, è tema spesso non molto compreso, mentre gli autori lo rendono estremamente chiaro.

Fino a un certo punto vi è stata la compensazione degli immigrati, per pareggiare il deficit tra nascite e decessi. Ma, da un lato, negli ultimi anni anche gli stranieri sono stati meno prolifici, come gli italiani; dall’altro lato, a partire dal 2014, i flussi di immigrazione hanno cominciato a ridursi; allo stesso tempo è iniziata l’emigrazione di giovani italiani in cerca di lavoro in altri Paesi. «Quella migratoria – affermano Cifoni e Pirone – è l’unica variabile demografica che in tempi relativamente rapidi può modificare le tendenze in atto, mentre i cambiamenti delle scelte riproduttive dell’intera popolazione richiedono un orizzonte più esteso».

«Pochi giovani significano allo stesso tempo una società sbilanciata, meno dinamica, inevitabilmente conservatrice, in cui si riducono gli spazi per l’innovazione». E ciò non può che comportare il declino del Paese.

Il libro propone 9 azioni per superare la “trappola delle culle”. Dal 2022 è in vigore l’Assegno Unico Universale per tutte le famiglie che hanno figli, del quale gli autori individuano pregi e difetti. Altre misure sono individuabili in più asili nido pubblici – la legge di bilancio per il 2022 li ha definiti come “servizio essenziale”, «da garantire a tutti i cittadini» – occupazioni meno precarie, aiuti all’acquisto della prima casa, assistenza delle imprese ai dipendenti che formano una famiglia.

Ma serve anche più immigrazione. Servono più famiglie, non solo quelle tradizionali. E serve altresì una campagna sistematica e collettiva, una sorta di rivoluzione culturale che faccia tornare gli italiani a percepire la natalità come un valore civile, laico e moderno. Gli autori propongono di trovare le parole giuste per parlarne agli italiani: «Un linguaggio né di destra né di sinistra, laico, non inquinato da retaggi ideologici e luoghi comuni», insomma un linguaggio «universalmente accettato perché pragmatico e realista».

Cifoni e Pirone indicano la strada. La politica sarà capace di seguirla?

Vitalba Azzollini, fellow IBL


Benedetto Cotrugli, Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore (Rizzoli, 2018)

Un tempo si chiamavano “aurei libretti”. Dimensione contenuta, buona e gradevole fattura editoriale, tema di nicchia e poco esplorato, magari anche un po’ controcorrente o almeno non proprio mainstream.

Tutte caratteristiche che ben si attagliano ad Arricchirsi con onore. Elogio del buon imprenditore, di tal Benedetto Cotrugli. Chi era costui? Un mercante del tardo medioevo, che con la sua opera si pone come antesignano dei manager moderni che amano mettere su carta le riflessioni ispirate dalla loro in genere luminosa carriera.

Questo volumetto non è dunque proprio un’opera recente, ovviamente ma è stata ripubblicata da Rizzoli solo pochi anni fa, che ha tratto dall’opera del Cotrugli un manufatto fruibile per il lettore odierno, rispetto all’articolata opera medievale del nostro mercante. Nelle appendici al breve testo si spiega bene la peculiare storia di questa pubblicazione, che ha visto coinvolte le personalità più diverse (da Niall Ferguson a Fabio Sattin).

L’interesse del lavoro a mio avviso sta soprattutto in un messaggio centrale, che emerge chiaro e netto: il profitto è cosa buona, basta perseguirlo secondo le regole. Ma non secondo un’etica “altra” dal profitto, sovraimposta da qualche forza esogena ma secondo un’etica del profitto stesso. Il premio per questo non è solo l’approvazione sociale ma addirittura l’onore.

Siamo nel Medioevo, come detto, ci saranno ancora molti secoli di sciocca demonizzazione del profitto. Ancora nell’Italia e nell’Europa del 2022 questo è un messaggio affatto scontato e di fondamentale importanza culturale ed economica.

Segnalo nel libro il ricorrere anche di massime e aforismi piuttosto moderni. Il mio preferito? Ovviamente, «nessuno è mai andato in rovina per aver pagato un’assicurazione, ma per aver rischiato una somma ingente sì».

Andrea Battista, consigliere d’amministrazione IBL


Carmelo Bene, Si può solo dire nulla. Interviste (il Saggiatore, 2022)

Il volumone (1700 pagine) contiene quasi tutte le interviste concesse da Carmelo Bene tra il 1963 e il 2001. Colui che apparve alla Madonna appare così anche a noi in tutta la sua intelligenza, il suo sarcasmo e la sua mai arrendevole disperazione. Uno spaccato da non perdere di un contropensiero assolutamente fuori dal comune.

Si può solo dire nulla è il segno che il niente nientifica (das Nichts nichtet diceva Heidegger) e nel contempo l’affermazione di una consapevolezza, o forse soltanto un desiderio, che dicendo questa nullità una luce più autentica possa illuminare il nostro mondo, specialmente quello dei media, ormai accartocciato in una sempre più sterile e insignificante autoreferenzialità. Pura chiacchiera, direbbe Carmelo Bene, ancora con Heidegger.

Sergio Belardinelli, membro del Comitato editoriale di IBL Libri


Nadežda Mandel’štam, Speranza contro speranza. Memorie I (Edizione Settecolori, 2022)

Sono state finalmente tradotte in italiano le memorie di Nadežda Jakovlevna Khazina (1899-1980), moglie di Osip Ėmil’evič Mandel’štam (1891-1938), poeta russo vittima, come tanti artisti suoi conterranei, delle purghe staliniane. Ne è stato meritoriamente pubblicato dalla casa editrice Settecolori il primo volume, mentre del secondo e conclusivo è annunciata l’uscita per la prossima primavera.

Si tratta di un libro straordinario, per la sua capacità di raccontare come i sistemi totalitari si insinuano nella vita, nei comportamenti, nelle relazioni sociali, addirittura nei sentimenti delle persone, sfruttandone gli istinti ancestrali e frustrandone le qualità migliori. Il tutto raccontato con una qualità letteraria che fa sicuramente di Nadežda Mandel’štam una grande scrittrice del ‘900.

Un libro senz’altro da leggere, e poi da riporre in libreria idealmente accanto ad Arcipelago Gulag di Solženicyn, a I racconti della Kolyma di Šalamov, a Se questo è un uomo di Primo Levi.

Natale D’Amico, membro del Comitato di indirizzo IBL


Frank Dikötter, Mao’s Great Famine: The History of China’s Most Devastating Catastrophe, 1958-62 (Bloomsbury, nuova ed. 2017); Bernard Brunetau, Il secolo dei genocidi (il Mulino, 2006); Robert Conquest, Raccolto di dolore. Collettivizzazione sovietica e carestia terroristica (Liberal edizioni, 2004); Martin Amis, Koba il Terribile. Una risata e venti milioni di morti (Einaudi, 2005); Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. Storia dell’Unione Sovietica, 1914-45 (il Mulino, 2010)

I regimi comunisti sono stati i più efficienti nell’affamare la propria popolazione. Hanno inventato un peculiare strumento di politica economica, la carestia indotta, i cui resoconti hanno generato una saggistica dell’orrore. Il primato mondiale è di Mao, che con il Grande Balzo in Avanti causò una carestia con all’incirca 75 milioni di morti (Dikötter).

I regimi sovietici si distinguono nella capacità di reiterare e insistere, nelle carestie come nelle invasioni degli altri Paesi. Nel 1922 iniziò Lenin, seguito dieci anni dopo da Stalin, che avendo superato il maestro in numero di morti ottenne pure un nome per la propria carestia (Holomodor) e un posto d’onore fra i genocidi del secolo scorso (Brunetau).

La Cortina di Ferro non fu solo un concetto geopolitico, ma anche una cappa ideologica gettata su questi eventi terribili, che vennero tralasciati dalla storiografia, finché Robert Conquest nel 1986 svelò l’Holomodor al mondo occidentale. Conquest era molto amico dello scrittore Kingsley Amis e i due ogni settimana cenavano insieme, in quello che loro stessi avevano soprannominato il loro “fascist dinner”, in barba al disprezzo dei loro amici marxisti che li accusavano di lesa maestà intellettuale, cioè di essere apertamente anti-comunisti. Il libro di Conquest è utile anche per capire la storia dell’Ucraina e il suo nazionalismo. Il figlio di Amis, Martin, ha dedicato a Stalin un saggio, in cui si sofferma anche sui fenomeni di cannibalismo in Ucraina all’epoca dell’Holomodor.

Andrea Graziosi ha scoperto che Mussolini era a conoscenza degli episodi di cannibalismo, ma siccome all’epoca Stalin era un alleato, s’inventò la formula che i comunisti mangiano i bambini. Nel dopoguerra quella frase ebbe il controproducente effetto di apparire ridicola e di distogliere la vista sulla realtà sottostante che l’aveva originata. Il libro citato è il primo di una serie.

Ancora oggi c’è chi continua ad essere affascinato dal grande “esperimento comunista” e dagli epigoni di quei formidabili dittatori; costoro hanno ancora il coraggio di dire che la prossima volta il comunismo darà frutti migliori. Visti questi precedenti storici, è legittimo chiedere, come quel personaggio di Carlo Verdone: In che senso?

Paolo Di Betta, fellow onorario IBL


Mattias Desmet, La psicologia del totalitarismo (La Linea, 2022)

Mattias Desmet è uno psicoterapeuta, ma oltre a ciò ha studiato statistica, epistemologia e filosofia politica. Il suo ultimo volume rappresenta una sintesi di diverse prospettive disciplinari, con l’obiettivo di esaminare – anche alla luce di quanto è avvenuto nel biennio della pandemia – in che modo le società occidentali stiano perdendo il proprio legame con la libertà individuale, la razionalità scientifica. Al centro della riflessione c’è la descrizione di un fenomeno emergente, che egli definisce quale massificazione (mass formation) e in cui vede un tratto essenziale delle società totalitarie.

Se ci hanno rinchiuso in casa e impedito di vivere e lavorare, se abbia perso diritti che ritenevamo fondamentali (a partire dalla libertà di cura) e se abbiamo assistito al trionfo di nuove leadership sorrette da un consenso quasi generalizzato e al tempo stesso alla ghettizzazione di ogni dissenso (fosse anche espresso da studiosi di primissimo piano: da Jay Bhattacharya della Stanford a Sunetra Gupta di Oxford, e via dicendo), la ragione di fondo sta nell’indebolimento progressivo della nostra capacità di esistere e resistere.

Come egli stesso ammette nell’Introduzione, l’idea di questo libro gli venne nel 2017: ossia quando nessuna pandemia da Covid-19 era all’orizzonte. In questo senso, la crisi sanitaria – secondo Desmet – ha soltanto svelato qualcosa di più profondo e che era ben presente da tempo. E questa malattia sociale è da riconoscere nella massificazione crescente delle comunità occidentali, per tanti aspetti già pronte a conoscere derive totalitarie.

Nel 2017 non era ancora all’opera l’armamentario poliziesco-sanitario, ma si trattava invece di fare i conti con una crescente erosione del diritto alla privacy (specie dopo l’11 settembre), una oppressiva censura su molte questioni scientifiche (si pensi al dibattito sul climate change), una costante sorveglianza operata da un connubio strettissimo tra attori pubblici e privati. È da tempo che forme di tracciamento e rintracciabilità (tracking and tracing) stanno diventando sempre più comuni, accettate, normali.

Quello che si profila, allora, è un totalitarismo senza Hitler e senza Stalin, senza Mao e senza Ceausescu, ma con ottusi burocrati e presuntuosi tecnocrati che costantemente evocano la scienza non già come un orizzonte in cui tesi imperfette si confrontano per aiutarci ad avvicinarci alla verità, ma invece come a una serie di dogmi arbitrariamente decisi. E tutto questo mentre la qualità della ricerca scientifica sembra declinare, se è vero quanto affermò John Ioannidis nel 2005 quando pubblicò un articolo proprio intitolato “Why Most Published Research Findings Are False”.

Tutta la riflessione di Desmet muove dalla persuasione che mentre l’autoritarismo muove da una semplice paura che esige protezione, il totalitarismo va ben oltre, poiché ha le proprie radici in un processo psicologico di formazione della massa. A suo giudizio si tratta di una sorta di ipnosi collettiva che distrugge la responsabilità individuale e impedisce ogni pensiero critico. E tutto questo è reso possibile da una crescente sfiducia nel carattere oggettivo della verità, che però si sposa con una presunzione illimitata.

In questo suo viaggio nell’Inferno di una società sempre più fragile e cloroformizzata, la guida principale che accompagna Desmet è Hannah Arendt, perché nei suoi scritti è forte la consapevolezza che il totalitarismo poggia su «persone per le quali la distinzione tra fatto e finzione, e la differenza tra vero e falso, non esistono più». Anche se scriveva tutto ciò nel 1951, la Arendt anticipa una lettura del nostro tempo quale “postmodernismo reale”, ossia quale traduzione nei fatti di una visione filosofica impregnata di un relativismo radicale.

Secondo Desmet, se a partire da febbraio 2020 l’inimmaginabile è divenuto realtà, questo si deve soprattutto al progressivo svanire della società quale luogo di confronti intellettuali aperti e senza inibizioni, al declino di ogni spirito critico, al dissolversi di ogni garanzia giuridica. Gli individui declinavano, mentre la massa s’imponeva al sopra di tutti e di ogni cosa.

Nel volume non si parla allora di campi di sterminio, non si esamina la propaganda dei regimi contemporanei, non si prende in esame le strutture istituzionali dei Paesi a partito unico. La riflessione sul totalitarismo in fieri è in effetti tutta centrata sulla società, e di conseguenza sul rapporto tra la massa che ora occupa la scena e le nuove élite che giocano un ruolo cruciale in questa dinamica di progressiva deumanizzazione.

Senza questa consapevolezza del disastro in cui ci troviamo, non sarà possibile iniziare a ricostruire la possibilità di una convivenza degna di questo nome.

Carlo Lottieri, direttore del dipartimento Teoria politica dell’IBL


Simon Chesterman, We, the Robots? Regulating Artificial Intelligence and the Limits of the Law (Cambridge University Press, 2021)

Di intelligenza artificiale e della sua regolamentazione si parla tanto e si parlerà sempre di più. Simon Chesterman è un giurista, ma questo libro non è (solo) un libro per giuristi: è un’introduzione tanto chiara quanto accessibile ad alcune delle questioni più importanti sollevate dall’intelligenza artificiale, prima fra tutte quella relativa alla sua etica.

La cosa più sorprendente e stimolante del libro è proprio la prospettiva con cui analizza l’etica dell’intelligenza artificiale: non attraverso l’assai frequente ricorso a istinti luddisti e curiose proposte positiviste ignare del progresso costante e dell’ampiezza crescente di questa tecnologia, ma al contrario rifiutando categoricamente la legge come soluzione di problemi che sono molto altro prima che problemi legali. Come scrive l’autore, se davvero volessimo regolare l’intelligenza artificiale dovremmo chiederci non come possiamo adattare la legge?, ma piuttosto come possiamo adattarla all’uomo?

Da questa domanda ne consegue un’altra, che l’autore accenna soltanto e che invece dovrà acquisire sempre più importanza nelle nostre riflessioni dei prossimi mesi e anni, e cioè: come possiamo adattare l’intelligenza artificiale, e la sua regolamentazione, alla tutela e alla promozione della libertà individuale?

Giacomo Lev Mannheimer, Research Fellow IBL


Luigi De Marchi, Il manifesto dei liberisti. Le idee-forza del nuovo umanesimo liberale (Seam, 1995)

In questo libro pubblicato nel 1995, dal titolo intenzionalmente allusivo al marxiano “Manifesto dei Comunisti”, lo psicoterapeuta Luigi De Marchi propone un’analisi del tutto nuova della politica, approdando all’individuazione del vizio strutturale che ha sempre minato le promesse della sinistra storica. La sua riflessione, come mostra la copertina del volume, indica in Franz Kafka il profeta della vera questione sociale della nostra epoca e mette Marx a testa in giù.

Sviluppando una coerente teoria liberale della lotta di classe, De Marchi dimostra infatti che, diversamente da quanto affermano i marxisti, la vera classe sfruttatrice e parassitaria è, da sempre, quella politico-burocratica. Autoproclamandosi paladina dell’“interesse pubblico”, questa classe si appropria di quote crescenti della ricchezza prodotta dai lavoratori privati, i quali invece operano nella fatica e nell’insicurezza del libero mercato.

De Marchi offre pertanto un’originale lettura “psicopolitica” della rivolta dei ceti produttivi privati contro l’oppressione fiscale e burocratica che infuriava in quegli anni, mettendo in luce la contrapposizione tra la personalità del Burocrate, insicura, conformista e formalista, e quella del Produttore, fondamentalmente autonoma, pragmatica e realistica.

Guglielmo Piombini, membro del Comitato editoriale di IBL Libri


Adam Wagner, Emergency State: How We Lost Our Freedoms in the Pandemic and Why It Matters (Penguin Books, 2022)

Adam Wagner è un avvocato inglese specializzato in diritti umani. Durante l’emergenza pandemica, ha tentato di leggere ciò che stava accadendo nel Regno Unito dalla prospettiva di tutela delle libertà individuali da indebite intrusioni governative. Adesso, facendo tesoro di quanto osservato in quei mesi, ha pubblicato un testo agevole e lineare – perfetto anche per i non giuristi – sullo Stato di emergenza, ossia su ciò che accade quando uno Stato si riorganizza per fronteggiare un’emergenza.

Il libro ha qualche limite, che gli viene dall’evitare certe questioni controverse (su tutte, la giustificabilità dei lockdown), ma ha un pregio non solo informativo, nella misura in cui ricostruisce alcuni profili costitutivi dello Stato di emergenza. Tra questi, spiccano la concentrazione dei poteri nelle mani dell’esecutivo, l’ignoranza dei processi decisionali dovuta a una loro imprudente accelerazione, la riduzione (se non eliminazione) degli spazi di dissenso.

Ma gli aspetti più importanti sono altri due. Il primo è quello che, con Agamben, può dirsi «forza-di-legge senza legge»: il vestimento formale dell’esercizio del potere si dissolve nella mera dichiarazione, sicché non ha più alcuna importanza che una regola sia enunciata in una legge approvata dal parlamento o in qualche linea-guida (o FAQ) pubblicata su un sito governativo. Il secondo è che lo Stato di emergenza, almeno in principio, non cala come un agente estraneo, ma si regge su un consenso diffusissimo (sul «we want it to happen», scrive Wagner).

L’amara lezione dalla Pandemia è, insomma, che il rispetto dei diritti individuali non è assicurato tanto dalla legge per sé, quanto dalla public opinion: se quest’ultima non è “vaccinata” contro le lusinghe di un potere ab-solutus, non c’è diritto che tenga. Noi italiani – tra autocertificazioni, zone colorate, congiunti e affetti stabili – ne sappiamo qualcosa…

Giuseppe Portonera, Forlin fellow IBL

You may also like

Consigli di lettura per il 2025 – Prima parte
La rivoluzione capitalista di Milei
Politicamente corretto 4.0: motivi storici e contromosse culturali
Per una cultura del rispetto

Leave a Reply