28
Dic
2018

Consigli di lettura per il 2019 / Terza parte

La fine dell’anno è un buon momento per fermarsi, riflettere e leggere. Per molti è uno dei pochi momenti in cui concedersi il lusso di stare a tu per tu con un libro: è un momento per l’evasione, ma anche per il pensiero, magari per tornare alle radici delle nostre idee e per tentare di comprenderle meglio. Cosa leggere per pensare e ripensare alle ragioni della libertà? Abbiamo chiesto qualche consiglio al team e agli amici dell’Istituto Bruno Leoni.

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Nick Chater, The Mind is Flat: The Illusion of Mental Depth and the Improvised Mind (Allen Lane, 2018)

Nick Chater insegna Behavioural Science alla Warwick Business School, alla guida del maggior team interdisciplinare in materia dell’intera Europa. Ogni anno cerco di approfondire il filone delle nuove scoperte che dalla neurobiologia cerebrale sperimentale investono la teoria e prassi cognitiva di ogni nostro processo, più o meno razionale, più o meno istintivo, più o meno influenzato da convinzioni, sentimenti, interazioni pregresse, eredità genetica. Nella primavera del 2018 Chater mi ha entusiasmato, avevo letto la segnalazione sul Guardian, e il libro che mi ha fatto urlare di gioia. Poiché infatti sono uno scettico incallito sul più dell’intera panoplia dottrinaria di psicologia e psicanalisi, in cui convenzioni antropologico-culturali sono diventati miti interpretativi in una fase storica precedente ad ogni nostra reale conoscenza dei processi cerebrali e di coscienza – e siamo comunque, malgrado i grandi progressi, solo ancora agli inizi – trovare un libro in cui uno dei più noti psicologi comportamentali fa letteralmente piazza pulita di gran parte dei presupposti psico-qualcosa mi ha letteralmente estasiato.  Desideri, preferenze, opinioni, non hanno in alcun modo evidente a che fare con la presunzione di un pre-esistente strato di subconscio-inconscio o comunque lo si voglia chiamare e distinguere, Ego, Es, Superego et similia. Frottole romanzesche, secondo Chater. Che dobbiamo alla narrativa e alla filosofia che per secoli si sono interrogate sulla nostra presunta “anima”, prima di arrivare a quel suggestivo e geniale scenografo emozional-sessuale di Sigmund Freud, del resto ispirato in buona parte dalla rivisitazione dell’iper classico mito tragico tebano. Come diceva David Hume “non c’è nessun là, là”, dove il “là” era un preteso grumo identitario che definiva mente e coscienza, nel continuo instabile gioco di tirare scherzacci e trappole al suo portatore umano: “c’è solo un intreccio di effetti esperienziali”. La radicalità di questa fondazione esclusivamente sperimentale dell’epistemologia cognitiva ha suscitato in Uk un rovente confronto. C’è chi ha obiettato che gli indizi di patologie psichiatriche ereditare contraddicano Chater, e chi ha osservato che l’evoluzione delle convinzioni del singolo – paragonato da Chater al procedere per via giurisprudenziale della Common Law –  avvenga comunque sulla base di una precedente “tradizione”, ergo partendo da un nucleo dato. Detto tutto questo, un libro esaltante.  Preferisco tutta la vita per i miei guai e problemi delle terapie comportamentali basate sull’ascendenza culturale della filosofia stoica, che di quella platonica poggiata su miti fondanti. E in Chater la mia ignoranza ricercante ho trovato un punto di riferimento prima a me sconosciuto. Sotto la nostra superficie cerebro-neuronale esperienziale, non c’è alcun abisso che pulsi e generi vita propria. Riconoscerlo è liberatorio, e spiega del resto la totale imprevedibilità con cui si cambiano opinioni politiche, economiche e sentimentali. Credere il contrario significa invece restare imprigionati, dietro le Menadi Baccanti gli Edipi e i Creonte che imaginificamente banchetterebbero di noi, imbrigliandoci come capricciose antiche divinità.

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Nic Cheeseman, Brian Klass, How to Rig an Election (Yale, 2018)

Nic Cheeseman insegna – ehm – Democrazia all’Università di Birmingham e per lunghi anni ha diretto il Centro Studi Africani all’Università di Oxford, pubblicando molti libri dedicati all’evoluzione negli dei sistemi politici nazionali in quel continente. Brian Klass è fellow in studi politici comparati alla London School of Economics, specializzato in sistemi elettorali e modelli di governo autoritario, ha scritto un tosto libro contro Trump mentre il suo penultimo è stato sul declino della democrazia che l’Occidente sta complessivamente promuovendo altrove prima ancora di sperimentarlo in prima persona. Diciamo dunque che sono due autori militanti, soprattutto il secondo, contro autoritarismo e populismo, mentre Cheeseman è più posato e soprattutto mette al servizio del titolo – “come truccare le elezioni” – l’estesa osservazione realizzata in Africa di come nascano e si sostengano regimi autoritari. Che fanno votare eccome il popolo, a differenza dei regimi del tutto autocratici, ma sono maestri nell’arte varia di ottenere comunque consensi schiaccianti alle urne. Per questo secondo motivo, più che per la vis polemica di Klass, è un libro molto utile. Propone infatti una tassonomia dei diversi modi in cui, negli ultimi decenni, dall’Argentina peronista allo Zimbawbe, dall’India di Modi alla Russia di Putin passano anche per le ultime presidenziali americane, il risultato elettorale è stato diversamente ma fortissimamente condizionato in in modo da garantire la vittoria a leadership populist-nazionalist-autoritarie. Le manipolazioni sono di sei tipi diversi, diversamente  concorrenti insieme in tutto o in parte: compravendita elettorale, repressione strisciante o esplicita delle opposizioni, modifica artificiosa dei collegi nell’interesse di chi governa, eliminazione dei rivali con incidenti d’immagine o corruttivi programmati a tavolino (in alcuni casi in Africa e Asia, veri e propri omicidi politici), brogli nelle procedure di voto. E, naturalmente, tambureggianti campagne di disinformazione digitale. Benvenuti nel nuovo mondo degli Houdini populisti: capaci di grandi consensi perché intolleranti alle vecchie regole istituzionali codificate della fair competition nella democrazia rappresentativa codificata. Esempio delle conseguenze: perché mai Erdogan, nel referendum costituzionale del 2017 che gli ha assegnato pieni poteri ma sul cui esito gli osservatori OSCE hanno avuto sospetti su almeno 2,5 milioni di voti a favore del leader turco, avrebbe dovuto dedicare una sola parola al rapporto OSCE  se Trump si precipitò subito a congratularsi con lui telefonicamente? Pensateci: il ritiro degli USA dalla Siria, che ha appena fatto dimettere dal Pentagono il serio generale Mattis e che riabbandona i curdi al oloro destino di bersagli dei cannoni turchi, ancora una volta è venuto da una telefonata tra Trump ed Erdogan. I leader pop-nazionalisti le sotterrano, le vecchie procedure che da decenni devono obbligatoriamente istruire preventivamente simili decisioni. L’avvento al potere in Occidente di leadership populiste sta rendendo via via più blando il controllo di procedure democratiche nel resto del mondo. Sebbene pesanti sospetti di irregolarità siano emersi nel 43% di elezioni tenute nel mondo negli ultimi anni, solo in meno di metà dei casi esse sono state segnalate in fori internazionali, e solo in un caso su otto hanno portato a restrizioni degli aiuti allo sviluppo. Non ce ne rendiamo conto: quanto avviene in Italia in questi mesi è parte di un processo ampiamente diffuso e comune all’Occidente. Per quanto forti siano le specificità nazionali, nel medio periodo le migliori risposte a questa ondata storica possono e devono venire solo da strategie internazionali, di soggetti politici che vogliano affrontare il rischio comune: quello di avere meno libertà non solo a casa nostra, ma dovunque nel mondo.

Oscar Giannino

 

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