Consigli di lettura per il 2019 / Prima parte
La fine dell’anno è un buon momento per fermarsi, riflettere e leggere. Per molti è uno dei pochi momenti in cui concedersi il lusso di stare a tu per tu con un libro: è un momento per l’evasione, ma anche per il pensiero, magari per tornare alle radici delle nostre idee e per tentare di comprenderle meglio. Cosa leggere per pensare e ripensare alle ragioni della libertà? Abbiamo chiesto qualche consiglio al team e agli amici dell’Istituto Bruno Leoni.
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Levan Berdzenišvili, La santa tenebra (E/O, 2018).
Levan Berdzenišvili è un filologo georgiano tra i fondatori del partito repubblicano del suo paese. Raffinato e colto intellettuale esperto in letteratura classica, a causa della sua militanza politica fu condannato al gulag sovietico dal 1984 al 1987, proprio mentre l’URSS si incamminava verso le sua dissoluzione. Del racconto di quei tre anni è da poco uscita l’edizione italiana per i tipi E/O. La santa tenebra non è un libro triste né rivendicativo. Al contrario, è una sorta di scrigno di umanità che l’autore/testimone apre al lettore e di cui sono protagonisti i suoi compagni di prigionia. Dietro ai loro ritratti, scorrono sul fondale le condizioni di vita nel gulag, amare ma sopportabili grazie alla compagnia intellettuale e affettiva da cui i prigionieri ricavano la forza persino di scambiarsi regali e di mettere in scena brani teatrali (una delle pagine più divertenti è il ricordo di un dialogo maieutico sulla bontà di un piatto tipico georgiano, inscenato tra l’autore, nei panni di Socrate, e Jankov, matematico e filosofo, «stella del gruppo» moscovita del campo). Sembra una biografia collettiva, La santa tenebra. Ogni capitolo, non sempre agevole da leggere per chi non conosce la storia, la lingua e la letteratura georgiana e moscovita, è dedicato a un’amicizia stretta nel gulag. I personaggi sono tutti professionisti e intellettuali di rilievo: medici, matematici, filosofi, letterati i quali, mentre cuciono i guanti nel campo di lavoro forzato di Baraševo, trovano grazie al loro intelletto la forza di fare della colonia penale un’esperienza di vita. A leggere bene tra le righe, però, La santa tenebra è molto di più di una biografia collettiva. E’ il racconto della fine del regime, dell’inizio della perestrojka visti dall’interno della colonia. Nel 1984, la violenza repressiva si mescola ancora all’irrazionalità dei divieti: «Nei campi di lavoro per detenuti politici, per esempio, erano vietate le penne a sfera di colore rosso, le penne stilografiche (a prescindere dall’inchiostro), il dentifricio in pasta (era permesso utilizzare soltanto quello in polvere, che i nostri a casa non riuscivano mai a procurarsi), il deodorante, l’acqua di colonia, i guanti e mille altre cose. Giocare a calcio o a carte era proibito, ma in compenso erano autorizzati la pallavolo, il ping-pong, la dama, gli scacchi e il backgammon. Potevamo capire tutto, ma perché i čekisti non avessero proibito anche l’uso dei dadi […] non siamo mai riusciti a capirlo, ed è una delle cose che non hanno mai smesso di sorprendermi: sono trent’anni che ci rifletto e alla logica dei čekisti c’è ancora qualcosa che mi sfugge». Ma nel 1984 qualcosa del regime cominciava a scricchiolare, al punto che due prigionieri, dopo che «l’Occidente ha fatto la voce grossa», ottennero l’autorizzazione a sposarsi e a trascorrere la luna di miele in una delle stanze per gli incontri privati del campo; o al punto che un dissidente condannato per stampa clandestina di opere proibite poteva cominciare a veder circolare anche all’interno del campo le prime stampe di opposizione. Qualche anno dopo, l’URSS si sarebbe dissolto. La memoria di quegli anni è ancora fresca nelle menti dei protagonisti. Ogni libro che ne dia testimonianza è una fonte preziosa di conoscenza per chi, da questa parte di mondo, pur avendo potuto vedere cosa fosse l’URSS non l’ha ancora ben compreso.
Serena Sileoni
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Ayn Rand, La fonte meravigliosa (Corbaccio, 2004).
Un romanzo che è sempre un classico e che quindi vale la pena di leggere o rileggere. Tratta della figura di un architetto anticonformista e geniale che oppone la sua creatività al collettivismo e al gusto di una società di massa. Celebre è il film che è stato tratto dal libro. Il protagonista della vicenda, Howard Roark, attraversa diverse vicissitudini e in molti cercano di snaturare il suo lavoro. Arrestato per avere distrutto un edificio da lui progettato, ma radicalmente modificato da chi lo aveva commissionato, pronuncia un celebre monologo in cui difende se stesso. Il discorso è un appassionato manifesto del valore dell’individuo e della sua creatività contro il collettivismo.
Roberta Modugno
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Cristina Bicchieri, Norms in the wild. How to diagnose, measure and change social norms (Oxford University Press, 2016).
Capita spesso di interrogarsi sulle ragioni che inducono gli individui a comportarsi secondo regole e norme che producono esiti addirittura nocivi. Le strade ricolme di rifiuti di città come Palermo e Roma, il rifiuto sempre più diffuso a vaccinare i propri figli o la tendenza a curarsi ricorrendo ai consigli dell’omeopata (“l’umorista della scienza medica” secondo Ambrose Bierce nel suo The Devil’s Dictionary) sono difficilmente spiegabili se si cerca di analizzare queste situazioni applicando criteri di razionalità nel senso più classico del termine. Alcuni degli ultimi vincitori del Nobel per l’Economia (Kahneman, Thaler) ci hanno spiegato che non sempre l’individuo risponde a criteri prettamente razionali e spesso sceglie in condizioni di contesto che rendono difficile valutare in maniera chiara i costi e i benefici, soprattutto quando nella valutazione si inseriscono dinamiche relative ai gruppi sociali e alle pressioni del network di riferimento. Di fronte a questo quadro sempre più incerto è facile che si tenda a dare ragione a chi pensa che nulla possa cambiare o, peggio ancora, a chi ritiene che l’unico cambiamento possa venire dalle imposizioni di uno Stato etico che sappia sempre cosa sia meglio per l’individuo e ne decida così comportamenti e destini. Nel suo libro Cristina Bicchieri, che insegna al Dipartimento di Filosofia della University of Pennsylvania, restituisce speranza a chi è convinto che sia possibile innestare fenomeni di cambiamento sociale rispettando l’integrità dell’individuo e le sue capacità di scelta. Sono molti gli esempi da cui la Bicchieri parte per dimostrare come i tentativi di modifica di comportamenti socialmente dannosi con un approccio top-down siano fallimentari proprio perché non tengono conto delle dinamiche individuali all’interno delle comunità e della rilevanza delle norme sociali. Bicchieri si focalizza sul comportamento degli individui concentrandosi sulle aspettative che questi hanno rispetto alle azioni degli altri appartenenti alla comunità e distinguendo le aspettative empiriche (come mi aspetto che gli altri si comportino) da quelle normative (come penso che ci si debba comportare in alcune situazioni specifiche). Questa importante distinzione consente di comprendere le differenze tra pratiche comuni e norme sociali e sono proprio queste ultime che devono essere oggetto di intervento se si vuole ottenere un reale cambiamento che ha come motore iniziale la rete sociale di riferimento del singolo individuo. L’introduzione di una nuova norma sociale (o la modifica di una esistente) è un processo complesso che vede comunque nel singolo individuo l’agente del cambiamento. Compito di chi governa quindi non può essere quello di trovare soluzioni ottimali a problemi complessi ma di creare le condizioni in cui l’individuo possa esprimere al meglio le proprie potenzialità e le proprie inclinazioni e possa sentirsi davvero libero di ricercare la propria felicità. Il libro della Bicchieri è uno straordinario viaggio nelle relazioni tra individui sempre in bilico tra la razionalità di chi sa che comportarsi in un certo modo non dà i benefici sperati e la disperata e irrazionale ricerca dell’approvazione sociale da parte del gruppo di riferimento. L’analisi e le proposte contenute nel libro restituiscono al lettore la speranza nel cambiamento e la consapevolezza che nessuna dinamica sociale innovativa può prescindere dagli individui e dalla loro libertà di scegliere in assoluta autonomia; sbagliando, correggendosi e provando e riprovando, sempre consapevoli della propria immensa e straordinaria fragilità.
Carlo Amenta
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John Lachs, Lasciare in pace gli altri. Una prospettiva etica (IBL Libri, 2018.
Non sta bene che il direttore dell’Istituto Bruno Leoni consigli un libro della casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni sul blog dell’Istituto Bruno Leoni. No, non sta bene. Ma chissenefrega. Lasciare in pace gli altri di John Lachs è uno dei libri migliori che abbiamo pubblicato: quest’anno e in generale. L’autore non appartiene alle schiere dei liberisti-libertari militanti, e forse per questo porta in dote uno sguardo fresco e parole più semplici: è un importante filosofo americano, insegna alla Vandebilt University (Tennessee) dagli anni Sessanta, in questo lavoro si interroga sull'”impulso divorante” di controllare gli altri. “Lasciare che gli altri perseguano il proprio bene secondo i propri lumi è una condizione vitale di autonomia”. Ma ci riesce difficilissimo, per una sorta di “egocentrismo sociale” per cui anche quelli fra di noi che pervengono a posizioni un po’ più liberali degli altri credono comunque di conoscere quale sarebbe il “vero bene” altrui di quanto non facciano essi stessi. Lachs ci propone invece una meditazione filosofica sulla libertà che mira a convincerci della centralità del principio “lasciare in pace gli altri”. Il suo è un saggio delizioso, garbato, brillante, scritto con la semplicità dei grandi. Non a caso, in un Paese dove la strada più sicura per passare per intelligenti è rendersi incomprensibili ne abbiamo venduti pochi e il libro ha avuto recensioni scarse. È però la più bella lettura che mi venga in mente, per un Natale nel quale riflettere sulla libertà e le sue ragioni.
Alberto Mingardi
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Edwin Meese III, Ronald Reagan. Un conservatore alla casa bianca (Giubilei Regnani, 2018).
Dopo tanto tempo esce un libro in italiano su Ronald Reagan, grazie a Giubilei Regnani. Mentre ci avviciniamo al trentennale della caduta del Muro, è utile iniziare a prepararsi rivivendo l’opera di uno dei grandi protagonisti della sconfitta del comunismo. Anche se nelle intenzioni dell’editore l’iniziativa vuole avere tonalità più conservatrici che liberali, non c’è dubbio che la vicenda reganiana è una fondamentale storia di espansione delle libertà personali o perlomeno di un tentativo riuscito di limitare l’invadenza dello Stato, di focalizzarlo in ogni caso nelle sue aree proprie, come la difesa e la sconfitta della minacciosa potenza comunista sovietica. Il racconto rende questa storia concreta, a tratti avvincente. Anche venata di nostalgia, perché l’Italia non ha mai potuto godere di nulla di simile, neanche per un semestre.
Andrea Battista
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Stefano Mannoni e Guido Stazi, Is competition a click away? Sfida al monopolio nell’era digitale (Editoriale Scientifica, 2018).
La concorrenza non è a un click di distanza. Lo spiegano Stefano Mannoni e Guido Stazi. Gli autori prendono le mosse dalla frase pronunciata dal Ceo di Google, Eric Schmidt, di fronte al Senato Usa nel 2011, per affrontare il tema del monopolio nell’era digitale e affermare la necessità che l’Autorità antitrust non resti indifferente di fronte alle grandi piattaforme digitali, protagoniste della “manifestazione più totalizzante, inedita e pericolosa del monopolio che la civiltà occidentale abbia mai conosciuto”. Il testo parte dalla considerazione che operatori quali Alphabet (Google), Amazon, Apple, Facebook hanno posizioni praticamente monopoliste, ma “mai nella storia si sono visti monopolisti così popolari”. “Delle due l’una allora: o non sono veri monopolisti: o lo sono in modo così assoluto da vincere senza clamore la partita più difficile: quella del consenso. Diciamo subito che propendiamo per la seconda ipotesi”. E si tratta di “un monopolio dalle sembianze così inedite, e dal viso così amichevole, da essere sfuggito per molto tempo, per troppo tempo, alla rilevazione”. Gli autori si pongono, quindi, una domanda: “l’autorità pubblica può fare qualcosa nel mondo della nuova economia?”. Per poter rispondere, affrontano una serie di profili di rilevante interesse. Dal “mito della gratuità” dei servizi digitali: “un mito ingannatore, una promessa non mantenuta e un miraggio. I consumatori pagano, sicuro che pagano, sotto forma di attenzione e dati, la nuova moneta circolante nell’economia digitale”; al tema del pluralismo e del populismo: “Internet è un mezzo che agisce sull’emotività più che sulla razionalità deliberativa. Chi naviga cerca l’asseverazione dei suoi giudizi a priori (o appunto pregiudizi), piuttosto che schiudersi alla messa in discussione della propria visione in dialettica con altri punti di vista. La politica si trasforma in uno sport nel quale le tifoserie si contrappongono senza la mediazione di quello spazio di confronto e di mediazione che è, o piuttosto era, la sfera pubblica”. Nonostante gli interventi effettuati – documentati puntualmente dagli autori – l’antitrust non riesce a salvaguardare la struttura pluralista del mercato: i colossi del digitale “fagocitano con un ritmo impressionante chiunque possa ergersi a potenziale sfidante”. Per ristabilire una condizione di equa concorrenza – secondo Mannoni e Stazi – serve non solo “un antitrust che ritorni alla sua ispirazione fondatrice”, ma anche “una regolazione che sappia adattarsi rapidamente a quelle esigenze della concorrenza che il primo da solo non può soddisfare”. Del resto, affermano gli autori, non si può restare indifferenti dinanzi alla “monumentale centralizzazione delle informazioni industriali” o al “tecno-feudalesimo”, che estrae “valore di mercato della nostra attenzione liberamente concessa”. Al lettore resta una domanda: fino a che punto la regolazione, che è sempre frutto di faticose mediazioni ed è “già datata prima ancora di entrare in vigore”, saprà operare un efficace contemperamento tra tutti gli interessi coinvolti?
Vitalba Azzollini
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Eric. A. Posner e Glen Weyl, Radical Markets: Uprooting Capitalism and Democracy for a Just Society (Princeton University Press, 2018).
Diciamocelo: non se ne può più di teorie che si propongono di affrontare, in un modo o nell’altro, la cosiddetta crisi delle democrazie liberali. Il libro di Posner e Weyl, però, è una vera mosca bianca, che propone una serie di soluzioni alquanto originali a problemi complessi delle nostre società. Soluzioni, come indica il titolo del libro, di mercato, ma radicali e non basate semplicemente sulla conservazione dello status quo. Interessante anche l’excursus storico a sostegno dell’idea di fondo, che pone in una luce meno istituzionale e più radicale, nel contesto in cui vissero, i grandi pensatori della tradizione liberale.
Giacomo Mannheimer
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Pascal Boyer, Minds Make Societies. How Cognition Explain the World Human Create (Yale University Press, 2018).
I più influenti classici del pensiero liberale spiegavano la natura e le cause della libertà politica o economica usando modelli che derivavano dalle scienze naturali. Il newtonianismo fu a lungo uno di questi modelli, e certamente lo fu per Lo spirito delle leggi, per L’indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, per la Dichiarazione di Indipendenza del 1776, etc.; nella seconda metà dell’Ottocento sarebbe stato sostituito dal darwinismo. Probabilmente una scienza naturale attendibile dell’uomo come animale sociale è degli ultimi decenni, grazie alle scienze cognitive e alle neuroscienze. Il libro dell’antropologo Pascal Boyer riassume con chiarezza e acume critico le spiegazioni cognitive del tribalismo, del razzismo, delle fake news, perché esistono le religioni, cosa è il nucleo familiare umano, perché e come si può costruire una società giusta attraverso le transazioni economiche e come le nostre intuizioni politiche limitano la capacità di apprezzare i benefici delle società complesse. Il dibattito culturale e politico dovrebbe usare anche gli strumenti delle scienze cognitive se si vuole capire la natura delle difficoltà delle persone con i metodi e le forme politiche del liberalismo, malgrado le prove che portano alla soluzione dei problemi meglio di quelle illiberali; ovvero perché gli esemplari di Homo sapiens sono così facilmente ed erroneamente portati a seguire le sirene paternaliste e illiberali.
Gilberto Corbellini
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Antonin Scalia e Richard A. Epstein, Scalia v. Epstein. Two Views on Judicial Activism (Cato Institute, 1985).
Perché i Tribunali sono tanto attivi nel proteggere rigorosamente i diritti “civili”, quanto inclini a non dare seguito alle garanzie costituzionali poste a tutela dei diritti “economici”? È possibile – e soprattutto augurabile – un attivismo giudiziale in difesa della libertà di intrapresa e dei diritti di proprietà dei cittadini? Queste sono alcune delle domande intorno alle quali, in una conferenza tenutasi nel 1984, si confrontarono l’allora giudice d’appello Antonin Scalia – più tardi indimenticabile giudice della Corte Suprema – e Richard Epstein, professore dell’Università di Chicago. I loro interventi, espressioni di due visioni contrapposte, sono raccolti in questo piccolo gioiello, edito dal Cato Institute, che, al pari del miglior vino, ha solo tratto giovamento dal trascorrere del tempo. Da una parte, Scalia – dopo aver riconosciuto l’importanza di incoraggiare politiche ispirate alla promozione del libero mercato: «were I a legislator, I might well vote for them» – esprime un fondato dubbio circa l’opportunità di avere delle Corti attivamente impegnate a sindacare la costituzionalità delle leggi che limitino i diritti “economici”, temendo che i giudici potrebbero o imprimere le proprie personali preferenze politiche nelle sentenze pronunciate (visto che «a law can be both economic folly and constitutional», come spiegò in CTS Corp. v. Dynamics Corp. of America [1987]), o, peggio ancora, prendere decisioni fondamentali essendo privi delle necessarie competenze tecniche. Dall’altra parte, Epstein ribatte che «Scalia’s plea for judicial restraint» non soltanto «accepts government control over economic affairs», ma, soprattutto, si trasforma in una ingiustificata espunzione delle garanzie che i Costituenti hanno dettato a tutela dei privati cittadini contro le indebite invasioni dei pubblici poteri: se esistono, tra le altre, una taking clause o una contract clause, è perché la protezione dei diritti patrimoniali è essenziale per la sopravvivenza di una società libera. Ci sono solide verità in entrambe le argomentazioni: ed esse non valgono solo per il contesto americano, ma meritano di essere valorizzate anche per il nostro ordinamento nazionale, dato che – troppo spesso – i giudici italiani si sono mostrati eccessivamente timidi nell’applicare le garanzie inscritte nella Costituzione a tutela della proprietà e dell’iniziativa economica privata. Leggere e diffondere questo libricino potrebbe essere un primo passo nel necessario cammino di riforma dello stato delle cose.
Giuseppe Portonera
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Luigi Sturzo, Il pensiero economico (Il Sole 24 Ore, 2009).
In queste ultime ore dell’anno a infuriare sono le polemiche sulla prima legge di bilancio giallo-verde. Al di là dello scontro tecnico su numeri e percentuali, però, a tornare di attualità sono temi classici delle discussioni politico-economiche di ogni epoca della storia recente. I punti più critici a base della manovra in corso di approvazione, infatti, ripropongono le principali questioni che, secondo uno schema desueto ma comunque valido, contrappongono coloro i quali hanno cuore le libertà d’impresa e coloro i quali invece sono pronti a sacrificarle in cambio di un po’ di protezione sociale: la questione dell’intervento pubblico nell’economia, prima fra tutte. Cos’è che fa guardare, a seconda, con preoccupazione o con speranza, a misure come reddito di cittadinanza, quota 100, nuove tasse ecologiche? Non è forse, in definitiva, una diversa impostazione di fondo con riferimento al ruolo dello stato nelle vicende economiche? Pare ovvio che misure incentrate su maggiore spesa improduttiva siano valutate con una certa apprensione non soltanto da chi teme per la tenuta dei conti pubblici ma soprattutto da chi diffida dell’autentica efficacia di soluzioni assistenzialistiche. Al fondo, esse sembrano infatti alimentate ancora una volta da un fiducia (malriposta) nelle capacità dello stato di produrre prosperità e, d’altra parte, da un’ostilità (malcelata) all’iniziativa privata. Paradossalmente, almeno sotto questo aspetto, l’attuale governo si pone quindi in perfetta continuità con tanti precedenti governi repubblicani di tutti i colori. Al riguardo, a distanza di decenni, si presentano di estrema utilità riflessioni di don Luigi Sturzo che, seppure riferite a ben altre contingenze storiche, mettono in guardia proprio da una certa mentalità statalista. Il sacerdote di Caltagirone nei sui scritti, specie nel secondo dopo guerra, ha più volte suonato il campanello di allarme a fronte di iniziative legislative tassa-spendi: “lo Stato getta milioni e miliardi dalla finestra per quella demagogia che è penetrata nelle ossa dei politicanti italiani. Così nulla si salva; né lo Stato né gli enti statali e parastatali, moltiplicati all’infinito, né i comuni né i cittadini”. A giudicare anche dall’ultima legge di bilancio non pare sia stato ascoltata abbastanza.
Luigi Ceffalo
desidero ringraziarVi per avermi messo a disposizione una tale varietà di libri che aiutano a pensare e razionalizzare le cose e gli eventi. Chiederò alla mia libreria di fiducia di acquistare per me alcuni di essi.