Conflitti d’interesse e pm: sull’energia è caos, altro che i poteri forti di cui parla Renzi
Ministri in conflitto d’interesse. Politica e partiti che antepongono scontri interni e tra loro al merito delle scelte. Indagini della magistratura che intervengono su fatti puntuali destinati inevitabilmente a suscitare però vastissime onde politiche. Su tutto, l’incoercibile pulsione a non saper distinguere ciò che è bene per l’economia nazionale, dall’interesse di questo o di quello. Sono questi, i tre potenti fattori all’opera nella vicenda giudizial-politica trivelle-petroli. Purtroppo non è una novità. L’Italia procede così da molti anni. L’effetto a cui i tre fattori concorrono è innanzitutto uno. Non lo spostamento di consensi politici che ne deriva, e su cui molti si soffermano. Ma il consolidamento nei decenni di una vera e propria cultura anti industriale.
Occorre naturalmente distinguere, per non essere equivocati. L’ex ministro Guidi ha sbagliato a patrocinare e informare passo passo il suo compagno degli emendamenti sull’avvio dell’impianto estrattivo di Tempa Rossa. Il suo compagno è indagato e ne risponderà, per traffico d’influenze su pubblici ufficiali al fine di procacciarsene impropri vantaggi. Il conflitto d’interesse si dimostra ancora una volta problema numero uno della vita politica italiana. Ed è ancor più rilevante se a incorrervi è un ministro imprenditore, con l’azienda di famiglia attiva nel settore dell’energia. Fa testo una gran lettera che Quintino Sella scrisse al fratello Venanzio il giorno prima di assumere l’incarico di ministro del Tesoro, lasciando alle sue mani l’impresa di famiglia. Ti chiedo un impegno d’onore, gli disse: finché durerà la mia permanenza al ministero, prometti di non chiedere alcun contratto al governo. Il problema non è di oggi, visto che correva l’anno 1864.
C’è poi un secondo filone d’indagine, sull’improprio trattamento di oli di risulta dall’estrazione di fonti fossili in val d’Agri, e i responsabili di progetto Eni ne risponderanno. C’è infine un terzo troncone che riguarda addirittura potenziamenti dei terminal energetici del porto siciliano di Augusta collegati alla Legge Navale pluriennale di rifinanziamento della nostra Marina Militare, e qui già ci sarebbe molto da discutere. Avendo seguito per anni il confronto politico-parlamentare sulla questione di come evitare che la Marina si trovasse in ginocchio alla dismissione delle vecchie fregate classe Maestrale, solo dei matti possono credere che un simile piano strategico decennale possa dipendere da qualche piacere ai terminal energetici del porto di Augusta. E c’è infine l’ipotesi di far ricadere tutto sotto il grande ombrello dell’ipotesi di “disastro ambientale” contenuto nel nuovo testo di legge sugli ecoreati, e su questo ci sarebbe da discutere ancor più a fondo. Perché è la stessa leva giudiziale con la quale ci siamo inflitti l’enorme disastro irrisolto da 4 anni dell’atterramento via ripubblicizzazione giudiziale dell’ILVA.
Ciascuno di questi filoni d’inchiesta finisce per alimentare un’atmosfera caliginosa nella quale tutti i sospettati, implicati ed evocati vengono dipinti come spietati malversatori del bene pubblico, attentatori degli interessi economici nazionali e della salute dei cittadini. Multinazionali energetiche come Eni, Total, Shell, sottoposte in Italia a cervellotiche procedure di autorizzazione nazionali e locali con Stato e Autonomie tra loro in lotta e sindaci che presentano liste di persone da assumere altrimenti boccano tutto, sembrano diventare perversi burattinai di politici che si guardano solo l’ombelico: chi preso da un legame personale, chi dal tentativo di cambiare segretario al proprio stesso partito, chi invece proteso solo a spremere al massimo ogni limone possibile, si tratti di assunzioni oppure di consenso in vista di un referendum.
I grandi numeri dicono che l’effetto è un altro. Anche se non sembra interessare praticamente a nessuno. Riaprendo all’esplorazione e all’estrazione di fonti fossili nazionali, come il governo Renzi aveva fatto dopo i veti del centrodestra e di Monti, l’Italia avrebbe attirato un programma già delineato di investimenti – tra nazionali e soprattutto esteri – pari a 16 miliardi di euro. Espandendo la quota domestica di soddisfacimento del nostro fabbisogno oltre il 10% attuale.
L’effetto della caduta della Guidi, delle indagini in corso e del quesito referendario del prossimo 17 aprile – in realtà su un aspetto del tutto secondario, la durata delle concessioni non più coincidente con la vita dei giacimenti oltre le 12 miglia dalla costa – corre ormai il sempre più probabile rischio di far saltare anche i 6 residui miliardi di investimenti (di cui 5 al Sud) che sopravvivevano alla marcia indietro cui il governo è stato costretto nella legge di stabilità 2016 dai quesiti referendari.
E’ un colossale falò di risorse che freneranno la crescita italiana. In nome di più fonti rinnovabili sussidiate dal contribuente e dal cliente finale in bolletta, come già non avessimo dovuto far marcia indietro rispetto ai sussidi tropo generosi disposti per anni, che hanno prodotto essi sì disastri ambientali da eccesso di pale eoliche malgrado non siamo certo nelle condizioni di ventosità del Mare del Nord.
Delle 135 piattaforme marine presenti sul territorio italiano a fine 2015, quelle entro le 12 miglia oggetto del referendum sono 92, di cui attualmente 48 eroganti e rispondenti a 21 diverse concessioni. Dunque il presunto referendum “contro le trivelle” riguarderà tra queste solo il possibile effetto di farne smettere l’attività – con rilevanti problemi e rischi per il suggellamento – allo scadere della concessione invece che ala fine dei bacini estrattivi. Un effetto calcolabile dunque intorno all’1% del fabbisogno nazionale, rispetto al 10% complessivo di fonti estratte in Italia. Eppure, in caso di quorum raggiunto il 17 aprile e vittoria del fronte abrogativo, le conseguenze sarebbero rivendicate ed estese all’intero complesso delle estrazioni nazionali. Nel tentativo – diciamo le cose come stanno – di far perdere il lavoro a circa 30mila addetti diretti e in filiera, con un danno complessivo diretto stimato da Nomisma per oltre 5 miliardi di euro nel solo Sud del Paese. La comunità degli oltre 6 mila lavoratori del distretto adriatico oil e gas di Ravenna ha perso giustamente la pazienza, e di fronte alla strumentalizzazione referendaria ha intrapreso azioni pubbliche per far capire agli italiani che cosa davvero è a rischio. Si badi bene che quei 6mila sono tutti aggiuntivi rispetto ai dipendenti ENI, che a propria volta verrebbero colpiti all’effetto a cascata di un’impropria strumentalizzazione dell’esito referendario. Ma né della dipendenza energetica italiana, né dei lavoratori della filiera, né degli effetti sul Sud già disastrato sembra importare molto alla polemica referendaria. Naturalmente incentrata su “più rinnovabili sussidiate dallo Stato”.
Ripetiamolo. Se ci sono politici che commettono errori e reati, se ci sono manager industriali che ne approfittano, se nelle acque reflue della Basilicata finiscono prodotti tossici non adeguatamente trattati, se nell’impianto di Tempa Rossa c’è qualcosa da chiarire sulla sua sicurezza, tutto questo in un Paese consapevole della propria disastrosa dipendenza energetica – il 90% del nostro fabbisogno – si affronta e si tratta anche con dimissioni politiche e processi.
Ma gli errori si correggono senza procedere a sequestri e blocchi totali. Se si ha un’idea anche solo elementare di quanto pesi l’energia nella nostra bilancia dei pagamenti esteri, tutto si può fare tranne che prendere a calci in faccia tutti gli operatori mondiali del settore.
Se il Pd, com’è evidente, ha due anime interne contrapposte sulle scelte energetiche, si doveva confrontare al suo interno prima, non regolare i conti per via referendaria e giudiziale. Doveva farlo per primo Renzi che è segretario del partito, invece di straparlare oggi di poteri forti contro un governo – il suo – che di potere reale se n’è preso e ne esercita come mai altri nella storia repubblicana.
E invece no. E’ stata puntualmente avviata una nuova ordalia all’italiana, un’ulteriore gara a chi la spara più grossa. Regole certe di competenza tra Stato e Autonomie, autorizzazioni ambientali meno cervellotiche e non puntualmente smentite dai periti di parte dei procuratori della Repubblica, capacità di perseguire i reati senza farne ostacoli insuperabili alle scelte nazionali, questo dovrebbe essere l’ABC di un Paese avanzato. Insieme a partiti e ministri consapevoli che un conto è far polemica sulle auto in doppia fila, altro è il rigore da tenere quando sono in ballo punti di PIL e il futuro delle prossime generazioni.
Dispiace amaramente dirlo. Un Paese che non sa distinguere sanzioni a ministri e manager che sbagliano da scelte economiche complessive e di fondo gioca senza accorgersene sempre nuove partite di declino, e non di sviluppo.