Compiti 2010-1: limiti al mito vincente del regolatore pubblico
Rapido tentativo di baedeker liberale per il 2010, approfittando di un po’ di crestomazia tra le letture nei giorni in cui fervevano abbuffate di massa e relative pesanti digestioni. In tutto il mondo avanzato – oggi qui per poterlo domani fare anche nei Paesi emergenti tipo Cina e India, dove si rischia in concreto di eternare il ruolo preminente dello Stato – occorre serrare le file con un po’ di sano pensiero teorico che torni a ribadire i pesanti limiti della regolazione pubblica, oggi apparentemente trionfante dovunque per far fronte ai colpi dell’instabilità banco-finanziaria e della contrazione dell’economia reale. Se dovessi esprimerlo con una formula semplice, direi che occorre separare nettamente la regolazione prescrittiva da quella cooperativa.
La prima rinvigorisce il mito del comando-controllo top-down: si tratti dei popolarissimi limiti cogenti alle compensazioni dei banchieri, sino ai sussidi all’auto sì e a tutti gli altri no, all’ingresso nel capitale di questa o quella banca come dei colossi USA o francesi, come di chi scambia la tutela ambientale con velleitari limiti alle emissioni oltre i quali si impongono sanzioni monetarie o addirittura si fanno decadere contratti e concessioni. La regolazione cooperativa è quella che invece agisce bottom-up, cioè incentiva – cioè spinge e incoraggia attraverso il perseguimento del vantaggio, non sotto la sferza della coercizione – individui e imprese verso obiettivi di maggior efficienza e stabilità, dove la prima deve prevalere sulla seconda, a meno di perseguire obiettivi di illusoria maggior giustizia redistributiva attraverso stati stazionari.
La regolazione “buona” è quella che può indurre ad abbandonare stati di solo apparente miglior equilibrio sociale, in nome di utili e profitti privati che concorrono nel tempo ad innalzare l’efficienza non solo economica nel breve, ma altresì sociale nel medio e lungo periodo. Il caso italiano è pieno di esempi di regolazione prescrittiva apparentemente dettati e ispirati dalla costruzione a tavolino di ambiti di mercato considerati socialmente più equilibrati – si tratti dello switch off alla tv digitale o all’empasse della totale interoperabilità tecnologica che ostacola le reti NGN e la banda larga – che in realtà si rivelano inutilmente costosi e inefficienti sia per le imprese ai quali vengono imposti sia per i loro clienti e consumatori.
O mercatisti e liberali si mostrano capaci di una new light regulation, oppure la deregulation degli anni 80 e 90 rischia di essere archiviata per sempre. Utile per approfondire il paper di Robert Ahdieh, della Emory University School of Law.