Commissioni interbancarie: quel che si vede e quel che non si vede
Nessuna sorpresa sul fonte delle commissioni interbancarie sulle carte di pagamento: com’era atteso, il Consiglio UE ha approvato il regolamento introdotto nel 2013 dalla Commissione e licenziato il mese scorso dal Parlamento, imponendo un limite dell0 0,3% dell’importo della transazione per le carte di credito e dello 0,2% dell’importo della transazione per le carte di debito e le cosiddette carte universali.
In particolare, la misura interessa gli schemi di carte di pagamento più diffusi, quelli a quattro parti, in cui la transazione tra debitore e creditore è regolata attraverso la mediazione delle rispettive banche: senza l’intervento della banca del debitore, che emette la carta di pagamento, non sarebbe possibile autorizzare il trasferimento di denaro. Sennonché, mentre il creditore (tipicamente un esercente) riconosce alla propria banca delle provvigioni a fronte della possibilità di ricevere pagamenti elettronici, di norma l’istituto emittente non scarica sul debitore (tipicamente un consumatore) il costo del credito: per garantire il buon funzionamento del sistema, allora, sarà la banca del creditore a remunerare la banca del debitore, retrocedendole parte della propria commissione.
Le intenzioni del legislatore comunitario sono commendevoli, ma sostenute da un’analisi lacunosa. Le commissioni interbancarie costituiscono una quota considerevole delle commissioni di pagamento, che a propria volta si riflettono sui prezzi al dettaglio; limitare le prime dovrebbe, dunque, aiutare a contenere gli ultimi. Perché ciò avvenga, però, è necessario che gli esercenti trasferiscano ai consumatori il risparmio ottenuto: un’eventualità che il provvedimento dà per scontata, con un’ingenuità inaccettabile diciotto secoli dopo Diocleziano. Inoltre, il regolamento non tiene in considerazione l’effetto dei mancati ricavi sulle strategie commerciali delle banche emittenti.
Misure simili sono state sperimentate in diversi paesi: Spagna, Australia e Stati Uniti, tra questi. I risultati sono stati uniformemente negativi: i ridotti introiti degli istituti emittenti sono stati prevalentemente intercettati della grande distribuzione, mentre i consumatori hanno visto aumentare le proprie spese bancarie; negli Stati Uniti, questi cambiamenti, ancorché limitati alle carte di credito, hanno spinto quasi un milione di famiglie a uscire dal sistema bancario – è il fenomeno degli unbanked.
Simili conseguenze si possono prevedere anche per i paesi dell’Unione: per la sola Italia, la società di consulenza Europe Economics stima in 494 milioni di euro i minori ricavi di competenza delle banche, che saranno compensati da un aumento proporzionale dei costi a carico dei correntisti, mentre i minori costi per gli esercenti, preventivabili in 445 milioni di euro, saranno incamerati quasi esclusivamente dalla grande distribuzione. L’effetto combinato di queste tendenze sarà quello di frenare la diffusione dei pagamenti elettronici, con conseguenze dannose per l’efficienza, la sicurezza, la speditezza e la convenienza dei traffici commerciali.
Il legislatore europeo si muove qui sulla scorta di una malintesa teoria della concorrenza nel campo dei pagamenti elettronici: la competizione tra schemi diversi, si dice, incentiverebbe un aumento delle commissioni interbancarie funzionale alla seduzione delle banche emittenti. Si tratta di una visione parziale, che sottovaluta le altre forze che influiscono sulla fissazione delle tariffe, ma soprattutto di una diagnosi incoerente con la soluzione proposta. Se è vero che parliamo di un mercato caratterizzato da un deficit di concorrenza, allora la strada maestra è quella di propiziare l’ingresso di nuovi operatori. Restringerne i margini di manovra va precisamente nella direzione opposta.