Come (non) attrarre gli investimenti stranieri
Due settimane fa, proprio nelle stesse ore in cui Enrico Letta esponeva all’Assemblea Generale dell’ONU il progetto “Destinazione Italia”, l’affare Telefonica-Telecom scatenava le reazioni indignate di gran parte dell’opinione pubblica: una coincidenza temporale degna della miglior satira, che però ha il merito di far tornare in auge il tema dell’investment climate.
Daniel Ikenson, direttore del Center for Trade Policy Studies al CATO Institute, ha scritto di recente un paper (http://object.cato.org/sites/cato.org/files/pubs/pdf/pa735_web_2.pdf) in cui analizza lo stato dell’arte degli investimenti diretti esteri (FDI) negli USA.
Secondo l’autore, il tema è di cruciale importanza: i FDI rappresentano il giudizio del mercato globale sulle istituzioni, le politiche, il capitale umano e le prospettive di un paese.
Il trend negativo che ha contraddistinto i FDI delle maggiori economie occidentali negli ultimi 20 anni può essere spiegato in larga misura con l’emergere di paesi sempre più attraenti per gli investitori; ma una parte di questo declino va certamente attribuita agli errori della politica.
Tra questi, Ikenson rileva tre equivoci di fondo.
Il primo è quello di chi non reputa redditizi i FDI passivi (cioè quelli in entrata), adducendo preoccupazioni soprattutto in ordine alla diminuzione della competitività interna con conseguente affossamento del mercato nazionale e alla perdita di controllo su settori-chiave.
Numerose ricerche, tuttavia, smentiscono questi scetticismi: ai benefici di lungo termine sulla concorrenzialità del mercato, dovuta all’aumento degli investimenti nei settori liberalizzati, si somma un deciso incremento dell’occupazione.
Il secondo equivoco, strettamente legato al primo, è il timore dello squilibrio della bilancia commerciale. Se le importazioni superano le esportazioni, si dice, ne sarà intaccata la produzione nazionale, e con essa l’occupazione e la domanda interna.
Questa tesi, però, si basa sul presupposto che il denaro investito all’estero non rientri nell’economia interna; un presupposto quanto mai infondato. Se il deficit commerciale riduce l’attività economica e distrugge posti di lavoro, infatti, perché intercorre un rapporto positivo fra queste variabili?
Non solo: la percentuale di deficit commerciale che i cittadini dovranno ripagare è all’incirca quella che finanzia il debito pubblico. Dunque non un fallimento delle politiche d’investimento, bensì una conseguenza dell’eccessiva spesa pubblica.
Si potrebbe allora pensare, ed è il terzo equivoco, che a essere dannosi per l’economia siano i FDI attivi: delocalizzando, ci sarà meno produzione interna, con tutte le conseguenze del caso.
Ma investimenti all’estero e attività economiche nazionali sono generalmente complementari: gli uni e gli altri sono spesso passaggi di un’unica filiera, con un netto accrescimento della domanda per risorse amministrative e manageriali interne. Per non parlare dell’incremento potenziale degli investimenti passivi che possono generarsi da investimenti attivi grazie all’intensificazione degli scambi commerciali.
Riconosciuta l’importanza strategica dei FDI, dunque, cosa (non) attrae gli investitori?
Dipende indubbiamente dal settore economico e dal momento storico. Tuttavia, vi sono alcuni parametri trasversali e universali, che nella loro interezza costituiscono proprio quell’investment climate alla cui base dovrebbe collocarsi ogni politica di attrazione degli investimenti.
Prerequisito fondamentale per l’attrazione dei FDI è l’apertura del sistema giuridico-economico al loro ingresso; dalle statistiche dell’OCSE risulta che l’Italia non pone particolari restrizioni all’accesso di capitali stranieri, se non nei settori dei media e dei trasporti. I problemi, dunque, vanno cercati altrove.
Fornisce alcuni dati interessanti l’ultimo rapporto Economic Freedom of the World, che mette l’accento sull’eccessiva influenza del Governo e delle authorities nei processi di mercato, sull’inefficienza del sistema giudiziario e sui troppi vincoli regolatori posti alle attività economiche.
Ma ancor più significativo è il Global Competitiveness Index, secondo cui i maggiori ostacoli che l’Italia affronta nell’attrazione degli investimenti si riscontrano nella rigidità del mercato del lavoro, nello scarso sviluppo dei mercati finanziari, nella mancanza di trasparenza all’interno delle istituzioni, nell’alto debito pubblico e nell’elevata tassazione.
Infine, vale la pena prendere in considerazione l’analisi fornita dall’Index of Economic Freedom, che conferma l’apertura formale del mercato italiano agli investimenti, puntando il dito contro le complessità burocratiche e l’incertezza dovuta all’arbitrarietà e imprevedibilità delle regolazioni del mercato, oltre a confermare il peso dell’alto debito pubblico, della lentezza della giustizia e della rigidità del mercato del lavoro.
Alla luce di questi dati, c’è da chiedersi quale sarà il reale impatto di Destinazione Italia.
Il piano preliminare elenca più di 50 punti che vanno dalla creazione di una sezione dell’Agenzia delle Entrate dedicata espressamente agli investitori stranieri alla semplificazione della burocrazia autorizzativa; dalla creazione di un fondo per l’investimento nel “Made in Italy” al rafforzamento del tribunale delle imprese.
Le idee contenute nel documento sono tante e ambiziose; sappiamo bene, però, quanti ostacoli e compromessi debba affrontare un progetto del genere prima di tramutarsi in misure concrete, a maggior ragione in questo momento politico.
Sarebbe ingenuo, insomma, illudersi che dalle parole si riesca a passare ai fatti in tempi ragionevoli. Il vero problema, però, è a monte: come rilevato da Gianfilippo Cuneo in un recente articolo sul CorrierEconomia,
“per attirare gli investimenti le soluzioni ci sarebbero, ma non bisogna chiedere di identificarle a chi gli investimenti non li ha mai fatti”, bensì “chiedere ai manager delle multinazionali di definire cosa serve e, dopo che l’Italia lo avrà realizzato, diventare essi stessi gli ambasciatori dell’investire in Italia”.
Ci si può solo augurare che il periodo di consultazione aperto dal governo sul provvedimento faccia emergere contributi significativi da parte del mondo dell’impresa. E che dalla satira si passi, finalmente, all’azione.
Purtroppo non esiste una cura dei mali italiani. O meglio esisterebbe, ma si scontra con gli interessi dei partiti, delle corporazioni, della burocrazia.
Pensate a sportelli unici integrati per le imprese ed i privati, aiutati dall’integrazione delle diverse basi dati. Non si scontrerebbe forse con gli interessi dei burocrati?
Pensate alle concessioni edilizie ed ai piani regolatori. L’attuale normativa concede un potere immenso alla politica locale, agli uffici tecnici, ad Enti che non centrano nulla ma possono intervenire, a danno della libertà delle imprese e dei privati. Purtroppo le attuali normative, che danno così tanto potere al settore pubblico, non ci salvano dall’abusivismo e tanto meno dall’esposizione ai rischi idrogeologico e sismico.
Pensate di togliere le aziende municipalizzate e regionali alle amministrazione locali. Quanti politici “trombati” riciclati come manager improvvisati perderebbero il lavoro? Quanto potere (e clientelismo) in meno per i partiti?
E così via per ciascuno dei settori invasi dallo Stato.
Il mio timore è che quando la maggioranza degli italiani si sveglierà dal sogno statalista sarà troppo tardi. Dovremo ripartire da zero, come un Paese del Patto di Varsavia 30 anni dopo. Solo che l’Est Europa ha fatto passi in avanti, gli emergenti sono emersi e i soldi per gli investimenti saranno sempre più scarsi e difficili da attrarre.
Tutto bello. Tutto giusto.
Ma va tenuto presente che gli investimenti esteri sono belli, portano sviluppo, posti di lavoro, determinano perfino gettito!
Ma per noi italiani, che li riceviamo, sono e restano debito estero. Non dico che non servano allo sviluppo. Dico che non possiamo basare la crescita solo sulla nostra colonizzazione. Inoltre l’elevato sbilancio dei conti con l’estero e’ unanimemente riconosciuta come la causa del declino dei piigs.
Gentile Giancarlo,
sarebbe ingenuo pensare che l’attrazione di IDE in entrata -così come qualunque altra misura economica- possa essere la panacea di tutti i mali. Si tratta di scelte, e ogni scelta ha pro e contro.
Che il debito estero abbia inciso sulla crisi di alcuni paesi europei (soprattutto l’Irlanda) è fuori discussione. Ma proprio l’Irlanda, grazie al regime fiscale particolarmente favorevole e al conseguente ingresso di IDE in entrata, tra il 1990 e il 2006 ha registrato un tasso di crescita del 7% e portato il rapporto debito/PIL dal 91% al 25%. E mantenendo conti esteri tutt’altro che negativi (grazie ai forti guadagni dati dalle esportazioni delle merci prodotte proprio nell’ambito degli IDE)!
Il sistema irlandese ha iniziato a traballare dall’ingresso nell’Euro. Dal 2000 al 2008 il cambio ha subito un apprezzamento reale del 40% e il saldo commerciale è diminuito del 13% del PIL. E’ evidente, dunque, come l’improvviso cambiamento della moneta e del regime fiscale abbia giocato un ruolo decisivo nella crisi dei conti irlandesi. Qui come ovunque, insomma, la verità sta nel mezzo.
I motivi a fronte dei quali i capitali stranieri evitano l’Italia come la peste sono stati ben evidenziati nell’articolo, non concordo con le conclusioni preliminari relative alle delocalizzazioni produttive e sui relativi ritorni finanziari, chi delocalizza molto spesso mantiene fuori dal Paese i proventi della delocalizzazione sia per alternative di investimento migliori, sia per motivi fiscali, quindi la delocalizzazione si traduce quasi sempre con una perdita di PIL e un aumento della disoccupazione. Inoltre il ritorno a lungo termine ipotizzato dalle liberalizzazioni intese come aperture alla globalizzazione, sono ipotetiche, mentre nel medio periodo scontrandosi fattori produttivi a costi ampiamente differenti, si ottiene un impoverimento massiccio dei Paesi industrializzati con un aumento drastico della disoccupazione e un crollo dei salari che durerà fintanto che i costi di produzione non torneranno ad essere confrontabili. In parole povere gli FDI passivi portano competizione e stimolo mentre quelli attivi intesi come investimenti nei Paesi in via di sviluppo, in quanto alternativi e non aggiuntivi, impoveriscono il tessuto produttivo del Paese, aumentano la disoccupazione e non è detto che comportino un ritorno nemmeno finanziario.
Gentile Gaetano,
grazie per il commento.
Che la delocalizzazione produttiva comporti mancati introiti e provochi un (leggero, a dir la verità) aumento della disoccupazione è fuori discussione.
Sarebbe grandioso riuscire a scoraggiare i FDI attivi, convincendo le imprese a rimanere in Italia. Ma farlo attraverso politiche protezionistiche, privatizzazioni di facciata e misure di incentivo all’italianità è una vittoria di Pirro. Così facendo, cioè forzando le regole del mercato e della concorrenza globale, prima o poi i nodi vengono al pettine e gli effetti saranno del tutto controproducenti. Non solo: in questo modo aumenta la percezione della sostanziale bontà del nostro investment climate, impigrendo le aziende e sfavorendo l’innovazione. Bisognerebbe invece intervenire con forza, soprattutto in materia fiscale, per convincere le imprese a rimanere pur potendo queste, teoricamente, delocalizzare la produzione. Quella, sì, sarebbe una vittoria.
Caro Giacomo, l’Unione europea era nata con l’intento di creare un grande mercato interno europeo in grado di incentivare la concorrenza e dando la possibilità di crescere dimensionalmente alle imprese. La differenza concettuale tra l’Unione europea e la globalizzazione senza limiti è data dal costo standard dei fattori produttivi, confrontabili nell’Unione europea, fuori target e destabilizzanti a livello globale. L’analisi non può essere fatta solo in base all’utile netto di fine esercizio, perché l’impresa non vive nella stratosfera, e implica tutta una serie di conseguenze a livello nazionale e sociale che non possono essere ignorati e bypassati. Solo creando pari condizioni nei costi produttivi puoi creare competizione vera tra le imprese, viceversa distruggi un sistema produttivo in un Paese avanzato per crearne uno senza regole in un Paese in via di sviluppo. I dazi sulle importazione da sempre servono proprio per regolare la competitività tra diversi sistemi produttivi tra loro incompatibili, non è il “protezionismo” inteso come difesa senza se e senza ma dei campioni produttivi nazionali, è l’unico sistema per creare un sistema equamente competitivo.
Gentile Gaetano,
senza voler mettere in discussione la sua competenza (che è sicuramente superiore alla mia), non sono d’accordo.
Un conto è l’aumento della concorrenza interna all’UE, unita ai benefici di stabilità economico/fiscale che questa indubbiamente comporta, un altro è il mercato dei FDI.
Non credo che favorire i FDI implichi necessariamente la corsa al ribasso (verso paesi non regolamentati, tassazioni favorevoli, negazione di diritti fondamentali dei lavoratori) paventata da alcuni economisti. Un dato su tutti conferma questa ipotesi: la maggior parte degli investimenti dagli USA sono diretti proprio verso l’UE. Non solo: aumentano anno dopo anno ormai da diverso tempo. Questo perché i benefici offerti dai “paesi in via di sviluppo senza regole” sono e restano minori di quelli che garantiscono i paesi avanzati. Segno che l’investment climate non è legato esclusivamente alla possibilità di spendere meno, ma anche e soprattutto a quella di spendere meglio.