3
Nov
2010

Come leggere il voto Usa. Senza paraocchi. di Alessandro Tapparini

Proponiamo questa approfondita analisi del voto Usa di Alessandro Tapparini, originariamente pubblicata sul suo blog “Jefferson”.

Lo Tsunami repubblicano, o forse più propriamente il mega-collasso democratico, è arrivato eccome – altro che “clamoroso pareggio” (ma per favore).

Per capire la portata dell’esito di queste midterm, va tenuto ben presente che in gioco erano non solo tutti i seggi della Camera ed un terzo di quelli del Senato (che negli USA si rinnova “a scaglioni”), ma anche ben 39 dei 50 governatori, più moltissime altre importanti elezioni “locali”, a cominciare dai parlamenti degli Stati, più i sindaci di città grandi e piccole, i giudici (che in molto Stati sono eletti dal popolo), e così via.

Quella che fino a ieri chiamavamo opposizione repubblicana era tale anche a questi livelli: i Dem oltre a detenere una vasta maggioranza in entrambi i rami del Congresso erano anche al comando nella maggioranza assoluta degli Stati, sia quanto a governatori che – ancor più – quanto a maggioranze parlamentari locali (le quali a loro volta determinano lo spazio di manovra del governatore).

Inoltre va anche considerato – e non mi pare che i commentatori in queste ore lo stiano facendo – che questa ormai ex opposizione non è certo in forma smagliante (come lo era, ad esempio, nel 1994 quando Clinton subì la rimonta della Republican Revolution); al contrario, è divisa, disordinata e drammaticamente sprovvista di leadership.

Eppure, è andata come è andata.

Alla Camera, per riprendersi la maggioranza ai Rep bastava rimontare di 39 seggi. Nel 1994 ne avevano strappati 54. Oggi se ne sono assicurati almeno 60, almeno il doppio di quanto Larry Sabato vaticinava quest’estate.

Si tratta della più grande vittoria elettorale parlamentare repubblicana dell’ultimo secolo: bisogna risalire al 1894, ai tempi della seconda elezione di Grover Cleveland, per trovare un record superiore. Trombati anche alcuni “inossidabili”, come Ike Skelton, presidente della commissione forze armate della Camera e deputato di un collegio del Missouri dal 1976, quando Obama era un liceale di Honolulu.

Adesso cambierà tutto. Tanto per fare un esempio: sarà ora il “Young Gun” Paul Ryan a presiedere il cruciale House Budget Committee, poltrona che fino ad ora era occupata dal Dem John Spratt così come il seggio del South Carolina dal quale questi è stato detronizzato dopo quasi trent’anni (significa che aveva vinto 14 elezioni consecutive).

Al Senato, dove una opposizione di 41 senatori su 100 ha di fatto un potere di veto su tutte le questioni importanti, i Rep a scrutinio ancora in corso se ne vedono già accreditare non meno di 46. I Dem non hanno perso la maggioranza assoluta ma sono passati dalla “supermaggioranza” (che avevano già perso all’inizio dell’anno con l’elezione di Scott Brown in Massachusetts) ad una risicata maggioranza di cinque o sei senatori (di cui uno è quello col fucile).

A Chicago, sweet home di Obama e roccaforte democratica da decenni, i Dem hanno perso anche il seggio senatoriale che dal 2004 al 2008 fu di Barack Obama (quello, per intenderci, che il famigerato Blago aveva cercato di rivendersi), il quale Obama aveva fortemente appoggiato il candidato Dem cui aveva riservato il suo comizio finale di sabato scorso. Non solo: hanno perso anche il seggio di Springfield, la capitale dell’Illinois, città-simbolo dalla quale Obama lanciò la sua candidatura alle primarie, dove il deputato uscente è stato scalzato da un esordiente “uomo qualunque” sostenuto dai Tea Party, papà di 10 figli e proprietario nientemeno che della pizzeria St. Giuseppe’s Heavenly.

Per quanto riguarda i governatori i Dem, che fino a ieri ne detenevano la maggioranza assoluta (26 su 50), hanno perso circa una dozzina di Stati. Sono tanti. Vuol dire che da oggi tre quarti degli Stati USA saranno governati dai repubblicani. Tra questi alcuni decisivi per vincere le presidenziali, come l’Iowa, lo swing-state per antonomasia Ohio (il neogov. repubblicano è l’ex conduttore Fox News John Kasich) e la Pennsylvania.
Il MidWest da oggi è interamente governato da quei repubblicani che appena due anni fa venivano dati come ridotti a partito regionale del profondo Sud.
Ma il picco più impressionante si è registrato nelle elezioni dei parlamenti “locali”, che non vanno sottovalutate.

Una valanga rossa di queste proporzioni nei parlamenti statali non si ebbe nemmeno ai tempi di Reagan. In una dozzina di casi i Rep. hanno conquistato la maggioranza in parlamenti dove sino a ieri erano all’opposizione da un’eternità.

In Texas, il secondo stato dopo la California per dimensioni demografiche (ed il più promettente di tutti per vitalità economica), dopo le elezioni del 2008 concomitanti con l’elezione di Obama alla Casa Bianca, i 150 seggi della locale Camera dei Deputati erano perfettamente ripartiti 75 Rep. e 75 Dem.; oggi sono diventati 99 Rep. e 51 Dem.
Spostandosi a nord, uno stato “operaio” come il Minnesota, dove il giovane governatore repubblicano Tim Pawlenty (segnatevi questo nome: ne sentirete parlare parecchio l’anno prossimo, quando si approssimeranno le primarie repubblicane) si destreggiava con un parlamento locale da decenni saldamente in mano ai Dem, stamattina si e’ svegliato con una maggioranza repubblicana addirittura di 87 a 47.

Quanto ai “candidati dei Tea Party”, molto banalmente, sono andati bene quando erano dei buoni candidati, e male quando più o meno “impresentabili”: emblematiche, rispettivamente, la vittoria di Marco Rubio in Florida, e la sconfitta della O’Donnell in Delaware e di Paladino a New York.

L’ultima grande roccaforte democratica resta la California, il più grande stato USA per popolazione ma anche quello che per burocrazia, pressione fiscale, strapotere dei sindacati, normative in materia ambientale, e soprattutto debito pubblico, assomiglia più di ogni altro ad uno della vecchia Europa. Lì i Rep. hanno perso sia la sfida per il seggio senatoriale, dove la ex supermanager della HP Carly Fiorina non è riuscita a scalzare la navigata “boss” democratica Barbara Boxer, che quella per la poltrona di governatore, che il repubblicano “anomalo” Schwarzenegger passerà nemmeno ad un volto nuovo, ma al 72enne democratico Jerry Brown che aveva già lungamente governato il Golden State subito dopo Ronald Reagan. La sfidante supermanager di EBay e Disney Meg Whitman, che complici le sue cospicue finanze personali ha speso per la propria campagna più soldi di rtasca propria di chiunque altro nella storia, ha perso di brutto. Ricordatevene la prossima volta che vi ripetereanno che in America le elezioni le vince il più ricco.

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4 Responses

  1. Mario

    Un’altra lezione dagli States: la democrazia funziona sempre quando ci credi, quando ti sbatti e quando hai le idee. Peccato che in Italia manchino proprio questi tre fattori.

  2. Federico

    Encomiabile commento, senza pregiudizi e fuori dal coro dei luoghi comuni sugli USA che ci propina la stampa europea, spesso a mezzo di giornalisti che, se mai han messo piede sul suolo americano, manco parlano inglese magari.
    Mi permetterei di aggiungere, visto che ho letto titoli secondo cui il “voto giovane” avrebbe tradito Obama (cosa che per certa stampa “progressista” vuole significare che il presidente non è stato abbastanza radicale) che avendo vissuto in USA per gran parte della campagna presidenziale, era evidente che per molti, anche under 30, Obama segnava sì una speranza di cambiamento, ma accompagnato da scetticismo sulla sua effettiva preparazione e sull’efficacia delle sue ricette. Gli americani sono fondamentalmente pragmatici per spirito, dunque difficilmente radicali nelle scelte. L’osservazione di questo articolo sulle fortune alterne dei candidati usciti dai Tea Party lo spiega emblematicamente.

  3. Riccardo

    Due anni fa una valanga blu, quest’anno una valanga rossa, sinceramente non credo si possa prevedere come andrà a finire tra due anni, in realtà c’è solo stato molto malcontento e non credo che si possa rimediare facilmente alla grave situazione USA, vedo qui a lato un commento di Giorgio Resca Cacciari, ultimo intervenuto sul blog prima di me, che mi sembra spiegare molto bene e sinteticamente i problemi degli USA ( e direi del mondo “sviluppato” tutto)

  4. Giuseppe

    “L’ultima grande roccaforte democratica resta la California, il più grande stato USA per popolazione ma anche quello che per burocrazia, pressione fiscale, strapotere dei sindacati, normative in materia ambientale, e soprattutto debito pubblico, assomiglia più di ogni altro ad uno della vecchia Europa. ” Negli ultimi 15 anni ne ho vissuti 4 in California (2000-2004) e 2 in Texas ( 2004-2006 ). Arrivato a Berkeley da cittadino italiano ho impiegato 6 giorni per completare tutte le pratiche. Ho cambiato 3 lavori senza problemi, mentre ho avuto delle noie quando sono andato a Dallas convinto di dare una svolta alla mia vita, così come quando sono stato a Plano. Per quanto riguarda la tassazione abbiamo una tassa federale sul reddito del 7% contro il 4.5% del Texas. Unica differenza è la progressività accentuata in Cal, mentre praticamente assente in TX. Tornato negli Usa di recente devo dire che c’è sempre un abisso tra il Golden State and the “Lone Star State”.

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