“Classe dominante”, di Angelo M. Codevilla – recensione
“Nel breve periodo la country class non può che affidarsi ai Repubblicani, ma i candidati repubblicani e le loro idee e posizioni sono risultati perdenti […] Nel lungo periodo la country class non è disposta a sostenere un partito che intende cooptare i rappresentanti del popolo nella classe dominante”.
Mentre si svolgono le primarie del Partito Repubblicano e si avvicinano le elezioni presidenziali, il libro Classe Dominante di Angelo Codevilla (Grantorino libri, 2011, con postfazione di Alberto Mingardi) offre una visione critica della sempre più indifferenziata e autoreferenziale classe politica americana.
Il punto di vista dell’autore è interno alla classe dirigente, ma è anche quello di un uomo che riconosce di aver raggiunto la sua posizione grazie ai principi su cui si basa l’America, i quali hanno premiato non l’appartenenza ma l’intraprendenza di un italiano partito nel ’43 all’età di tredici anni da Voghera per gli Stati Uniti, dove diventò ufficiale di marina, per poi lavorare per le forze speciali dell’Intelligence, entrare nel Corpo Diplomatico, prendere il dottorato in filosofia per insegnare alla Georgetown University, quindi alla Stanford University e infine alla Boston University.
Classe Dominante è una appassionata difesa dei principi fondanti della società americana contro i tentativi di una classe politica bipartisan di escludere con dinamiche di potere – e di denigrare intellettualmente – gli americani che ancora credono in quei principi. A essere tradita sarebbe l’uguaglianza, fondamentale per garantire e difendere gli spazi per la libera intrapresa dalle pretese di dominio di una classe che si attribuisce una presunta superiorità morale e “scientifica”.
In ragione della presunta conoscenza esclusiva della formula magica per distribuire la ricchezza e realizzare la felicità sociale, il “partito del governo” si erge come arbitro della prosperità e della povertà: l’uguaglianza ne viene compromessa, in quanto a essere compromesse sono le libertà civili ed economiche delle persone, uniche vittime del “peso” dello Stato e dall’arbitrarietà dei suoi programmi.
La classe dominante ha ridotto sempre di più gli spazi di libertà del “popolo minuto”, incapace di comprendere e affrontare problemi troppo complessi (come la crisi finanziaria) e si è avvalsa di poteri arbitrari per estendere il suo raggio d’azione. Ma proprio la crisi finanziaria ha come complice l’“economia della dipendenza” promossa da Democratici e Repubblicani insieme, che facendo dipendere le regole economiche dalla discrezionalità del potere, ha obbligato le banche a concedere mutui per l’acquisto di case a tassi d’interesse che, in assenza di pressioni e distorsioni politiche, non sarebbero mai stati concessi. Il costo della crisi, poi, salvati i membri della rete clientelare creata dalla classe dominante, è stato trasferito alla “maggioranza non ammanigliata”.
L’uguaglianza che i “dominati” rivendicano consiste nel ricevere equi trattamenti meno invasivi e nel rifiuto di programmi che hanno il fine di correggere gli squilibri in vista di un’equità più giusta, la più giusta, l’unica giusta.
La country class, che Codevilla oppone alla classe dominate, riunisce, nelle pur varie diversità, chi nella società civile si sente distante dagli intrecci del potere del governo, delle grandi imprese, dell’alta finanza e vorrebbe rimanerne distante. La “mangiatoia pubblica” ha però dei costi che ricadono proprio su chi non ne prende parte. Così, i membri della country class sono costretti a dipendere da un’economia sempre più distorta da programmi che accordano privilegi a coloro che sono “vicini al regime” e che limitano la libertà individuale.
La country class può sì prendere le distanze dal nuovo “Stato amministrativo” gestito dalle élite washingtoniane, ma non può che farlo su un piano morale, perché su quello economico e giuridico, suo malgrado, vi si trova già dentro, pur esclusa dal potere. Per uscirne deve allora ridurre il potere che comprime la sua libertà, organizzandosi per prendere lo stesso potere, ma senza limitarsi a sostituire la classe dominante e senza cedere ai suoi tentativi di cooptare i nuovi arrivati: dall’interno della politica, dovrà condurre al ridimensionamento della politica.
Codevilla avverte che gli americani che supporteranno e condurranno la riconquista delle libertà perdute dovranno anche assumersi la responsabilità di affrontare le conseguenze del ritorno all’autogoverno. Il terreno morale è, secondo l’autore, la solida base da cui partire affinché la risposta alle imposizioni subite dalla classe dominante non diventi una rivoluzione a sua volta imposta, ma un riforma dal basso per rivalorizzare il modo di pensare che ha sempre contraddistinto gli americani.
Il fatto che la linea di confine tra il potere governativo e la vita degli individui sia diventata ormai indistinta non ha fatto svanire l’identità di quegli americani che si oppongono a un processo che, per quanto si dichiari scientifico (o tecnocratico), è per i membri della country class contro la loro morale e la loro natura – potremmo dire contro le loro intuizioni morali. Queste vanno d’accordo con la Costituzione americana (che si trova in fondo al libro insieme alla Dichiarazione d’indipendenza) piuttosto che con i partiti democratico o repubblicano.
É forse proprio nel sentimento, o meglio risentimento, degli americani che secondo l’autore può essere trovata la via d’uscita.
Anche se qui in Italia e in Europa si parla di altre “uscite di sicurezza”, questa lettura apre a una visione che può essere interessante per i lettori italiani, per pensare alla nostra cultura dell’autogoverno: la sua debolezza ha reso la società civile complice della casta o classe dominante, il fatto che non possa che svilupparsi dal basso dà speranza per diventare più “dominanti” nella propria vita.
Che anche in Italia, tolta di mezzo la brutta parola “forconi”, sia in arrivo una “country class”, sia pure con cinquant’anni di ritardo rispetto agli Usa?
E tutt’altro che reaganiana. Del resto, volendo restare nella metafora, i repubblicani di città (ingessati e in doppio petto) sono molto diversi da quelli di campagna.
Questa “country” trasversale rifiuta di essere rappresentata da Berlusconi o magari da Grillo. Già Pavese ne aveva anticipato l’essenza cogliendo la “dicotomia” Città-Campagna. Un Pavese che con gli amici di “Solaria” traduceva in quegli anni Joice , Elliott, Masters… (Toh, gli Americani in Italia sono stati tradotti dai comunisti) L’industrializzazione forzata ce l’aveva fatta dimenticare, ma la deindustrializzazione la ripropone, in forme nuove, nelle ragioni un pò neglette degli agricoltori, dei pescatori, dei camionisti.
Credo che relagare alle ultime 3 righe una riflessione sulla nostra situazione, così come scrivere saggi su mondi lontani sia il miglior segnale di una profonda rassegnazione su una condizione di assoluta dissoluzione rappresentativa, per giunta rafforzatasi con ingenti risorse finanziarie in mano ai partiti. Credo che sarebbe un valore “civico” concentrare analisi e cure sul nostro paese, ma nemmeno nella res publica di Cesare e Pompeo erano in molti a cercare rimedi, tranne un paio di giovani … ma fuori dalle regole.