Cibo spazzatura: statistiche spazzatura e tasse spazzatura
Le malattie non trasmissibili non rappresentano solo un serio problema di salute – per la prima volta hanno superato le malattie infettive come causa di morte – ma anche economico, in quanto riducono la produttività e aumentano il bisogno di servizi sanitari a livello globale.
Poiché tra i principali fattori di rischio ci sono le diete poco sane, ossia quelle che includono un alto consumo di grassi saturi e sale ed escludono frutta e verdura, un recente paper pubblicato su Plos Medicine (H. Eyles, C. N. Mhurchu, N. Nghiem, T. Blakely, “Food Pricing Strategies, Population Diets, and Non-Communicable Disease: A Systematic Review of Simulation Studies”) ha condotto una revisione sistematica degli studi di simulazione con lo scopo di verificare l’associazione tra il prezzo dei cibi, i cambiamenti nel consumi di cibo (ossia l’elasticità del consumo rispetto al prezzo) e le malattie non trasmissibili.
Essi hanno trovato che, aumentando il prezzo dell’1%, i consumi delle bibite gassate si riducono dello 0,93%, mentre quello dei grassi saturi dello 0,02%; invece la riduzione di egual misura (1%) del prezzo di frutta e verdura aumenterebbe i consumi dello 0,35%.
Questi risultati evidenziano che le strategie di prezzo potrebbero potenzialmente migliorare la dieta della popolazione, perlomeno nei paesi sviluppati, ma tuttavia non sono sufficienti a giungere a conclusioni definitive, per cui sarebbero necessarie ulteriori analisi. In particolare, i dati non sono stati sufficienti a quantificare gli effetti di tali policy su salute e malattia, per cui non è di fatto possibile verificare se in ultima analisi ci siano dei miglioramenti sullo stato di salute della popolazione e neanche sulla riduzione della mortalità da malattie non trasmissibili. Non è un esito sorprendente, in quanto tendenzialmente gli studi non hanno mai trovato una correlazione forte tra il consumo di “cibo spazzatura” e l’obesità. In mancanza di un nesso di casualità tra i due, è lecito dubitare che una tassa sul junk food (per quanto questa definizione sia davvero porosa, e troppo spesso si rischi di far passare per “junk” ciò che “junk” non è) possa essere efficace come strumento per ridurre l’obesità.
Non sono neppure chiari i possibili effetti dei comportamenti compensatori, ossia dell’acquisto di cibi sostitutivi: ad esempio, se aumenta il consumo di frutta e verdura potrebbe ridursi l’acquisto di pesce. La sostituzione tra cibi e bevande è potenzialmente molto pericolosa: basti pensare a quanti, a fronte degli incrementi di prezzo, saranno costretti a scegliere cibi di qualità più scadente perché meno cari. Se, poi, si considera che cibi e bevande alternativi acquistati potrebbero avere più calorie, l’effetto finale potrebbe essere quello di un incremento di peso, l’esatto opposto di quello auspicato.
Non sono poi riusciti a verificare se questi risultati siano differenti tra gruppi socio-economici. In altre parole, c’è il rischio che la tassa abbia un effetto regressivo: basti pensare che i cibi relativamente più sani (pesce, carne, ma anche le stesse frutta e verdura) costano più di quelli relativamente meno sani (hamburger, patatine). Questi ultimi sono consumati soprattutto dai più poveri, che risulteranno quindi quelli più danneggiati dal balzello.
La regressività è un rischio da non sottovalutare. In generale, è ingenuo pensare o sperare che tale tassa contro il sovrappeso possa contribuire a una maggiore equità: del resto, ne sarebbero colpiti anche coloro che consumano tali alimenti pur essendo magri. In tal caso, è proprio il sistema sanitario pubblico in sé che non consente di far pagare a ciascuno per ciò che consuma, in quanto il servizio è finanziato già tramite la fiscalità generale. Introducendo il balzello, i cittadini, anche quelli senza problemi di linea o salute – dunque chi non contribuisce all’aumento dei costi – sarebbero costretti a finanziarlo due volte. Quale effetto prevarrebbe, se il maggior benessere delle persone obese, o la perdita dello stesso benessere dei normopeso, non è chiaro.
Senza contare che, in un sistema dove la finanza pubblica è opaca come quello sanitario, e i contribuenti non hanno alcuna possibilità di verificare dove vanno le imposte “di scopo” pagate sul consumo di uno specifico bene, non è neppure possibile verificare se i loro versamenti siano effettivamente utilizzati per contrastare i problemi di obesità o per altri fini, come accadde nel 1992 in Arkansas, dove il gettito di una tassa per finanziare specificatamente il programma Medicaid finì invece nel fondo generale, mescolato insieme alle altre entrate fiscali generali.
Per quanto riguarda, infine , l’elasticità della domanda rispetto al prezzo, la letteratura non mostra consenso unanime, per cui le stime a riguardo sono molto variabili. Soprattutto, spesso si ipotizza che l’elasticità sia la medesima tra i diversi gruppi di reddito, quindi tali stime sono ulteriormente distorte, perché le risposte agli incrementi di prezzo dei gruppi a basso reddito probabilmente saranno sovra-stimate, mentre saranno sotto-stimate quelle dei benestanti. Tuttavia, se anche fosse possibile quantificare gli effetti della tassa sulla domanda, le conseguenze potrebbero comunque non essere desiderabili: se l’impatto fosse basso, allora cambierebbero poco gli stili di vita, vanificando l’obiettivo del balzello; se fosse alto, i minori consumi potrebbero portare conseguenze peggiori dal lato della produzione, crescita e occupazione dell’industria coinvolta, con un peggioramento del benessere complessivo.
Anche questo studio sembrerebbe essere coerente con gli esisti prevalenti della letteratura, per cui la tassa sul junk food non è efficace né come tassa sull’obesità (e, di conseguenza, neanche come strumento di prevenzione delle malattie per cui il sovrappeso rappresenta un fattore di rischio), né come strumento per garantire maggior equità. Per questo è maggiormente auspicabile una collaborazione tra pubblico e privato per finanziare campagne di educazione alimentare già nelle scuole, strumenti che tendono a rendere consapevoli i consumatori, sono meno intrusivi della libertà personale e consentono di spalmare i costi su tutti gli attori coinvolti.
Analisi ben argomentata e convincente. Lo Stato etico – peraltro, lo stesso che fa poi la cresta su sigarette ed alcol – è servito.
Non capisco dove sta l’onestà intellettuale a dubitare dei dati sopra – certo provvisori – per proporre un approccio su cui i dati non ci sono (le collaborazioni pubblico privato sull’educazione alimentare? efficacia?). Non si possono chiedere i dati solo quando confermano le proprie teorie o ideologie, ed essere contrari ai dati quando non piacciono. E soprattutto formulare proposte ridicole.
Che basi ha questa conclusione: “Anche questo studio sembrerebbe essere coerente con gli esisti prevalenti della letteratura, per cui la tassa sul junk food non è efficace né come tassa sull’obesità (e, di conseguenza, neanche come strumento di prevenzione delle malattie per cui il sovrappeso rappresenta un fattore di rischio), né come strumento per garantire maggior equità. Per questo è maggiormente auspicabile una collaborazione tra pubblico e privato per finanziare campagne di educazione alimentare già nelle scuole, strumenti che tendono a rendere consapevoli i consumatori, sono meno intrusivi della libertà personale e consentono di spalmare i costi su tutti gli attori coinvolti.”???
Caduta di stile del sito.
@Mike
1%, 0,93%, 0,02%; (1%) 0,35%.
La questione mi ricorda la faccenda della lotta fra virus e antivirus informatici: quelli che lavorano nel settore, di norma cominciano la carriera come adolescenti antisistema creatori di virus, poi finiscono assunti con lauti stipendi dalle societa’ multinazionali che vendono antivirus.
Ragionando come la ragioneria dello stato non si va lontani, quelli che servono, e non abbiamo piu’, sono saldi principi.
Permettetemi un’osservazione da “uomo della strada”, di scarsa e abborracciata cultura, poco in grado di afferrare le sottigliezze della matematica statistica applicata alla sfera socio-economica del nostro agire.
La funzione primaria del cibo e’ di nutrire, fornendo energia.
Il nostro occidente, con alcune sporadiche eccezioni tipo la Grecia della crisi attuale, ha risolto da tempo il problema di riuscire a fornire abbastanza energia, cioe’ calorie, a buon prezzo, alla quasi totalita’ della sua popolazione, miserabili compresi.
Anzi per una percentuale non trascurabile della popolazione tanta abbondanza, unita alla quasi totale assenza di esercizio fisico (fanno tutto le macchine) ha spostato il problema dal procacciamento delle calorie quotidiane necessarie per la sopravvivenza, al reperimento di cibo a basso contenuto calorico ed eventualmente sapore sopraffino per soddisfare il palato e la voracita’ dei membri di questa societa’ opulenta senza che essi divengano in breve tempo dei ripugnanti grassoni.
Tale cibo a basso contenuto calorico, a causa dell’uso anomalo e, permettetemi, innaturale cui e’ destinato (senza il bozzolo tecnologico che ci avvolge questa intenzione, assumere cibo che non nutra, sarebbe impensabile, anzi assurda, anzi offensiva), costa di piu’, anche molto di piu’ del cibo il cui unico scopo e’ quello, proprio del cibo, di fornire le calorie quotidiane al minor prezzo possibile.
Se si guarda la situazione con gli occhi del miserabile non del tutto sprovveduto, con cui mi identifico, la si vede come descritto sopra.
Ora, lo stesso miserabile, se dovesse ad un certo punto scoprire che lo Stato, nei paesi opulenti descritti sopra, impone con la forza una tassa per far si’ che quelli che sono i suoi compagni di vita, i piu’ poveri, debbano pagare artificialmente di piu’ il cibo che nutre per “disincentivarne” il consumo e deviarlo nella direzione del “cibo per ricchi”, credo avrebbe dei problemi di orientamento.
E a dire il vero, credo che considererebbe dei mascalzoni o degli imbecilli (senza che una cosa escluda l’atra) coloro i quali potessero anche solo pensare un attimo all’introduzione di una tassa del genere, senza rendersi conto che le sue implicazioni, un giorno, per vie traverse perche’ la nemesi non arriva mai diretta, li chiamerebbero a risponderne senza poter addurre a loro discolpa alcun argomento moralmente accettabile per giustificare la loro volonta’ impositiva.
Pensiamoci, e’ caratteristica di tecnici ed esperti perdersi nei particolari della propria circoscritta competenza senza cogliere gli effetti assurdi e dirompenti su tutto cio’ che ne sta appena al di fuori.
Questo stesso argomento si puo’ applicare a moltissime delle imposizioni normative e tassatorie contemporanee.
La capacita’ di conoscere, e la potenzialita’ di agire, comporta una schiacciante responsabilita’ la cui consapevolezza, se la possedessero, condurrebbe i nostri arroganti decisori a disertare a coda e orecchie basse le loro cattedre e i loro scranni del parlamento e del governo.
Qualsiasi persona che ha un cervello che non serve per tenere separate le orecchie si chiederà perché si abusa di tanto “cibo spazzatura”.
Dinanzi ad un piatto prelibato di un buon ristorante e un Hamburger di Mc neppure i più masochistici opterebbero per il secondo, ma perché viene fatto ? Prezzo, tempo a disposizione, comodità, moda, fa molto giovane…
L’obesità dei giovani non è sempre dovuto alle bibite gasate o al “cibo spazzatura” di un fast food. I bambini di oggi non si muovono come quelli di una volta, ore davanti al PC, TV o a fare i compiti e pochi che si arrampicano sugli alberi o giocano correndo per strada fino al tramonto. Provate a verificare, con 100 ragazzi di paese dove non esistono i fast food, quanti sono in grado di salire, oggi, lungo una fune di 10 mt.
Sono stato in Germania, una struttura coperta nel centro della città con anche macelleria e pescheria che oltre a vendere carne e pesce avevano annesso una zona ristorante a self service: un piatto unico (con coltello e forchetta) con enorme bistecca di pesce impanata, patate lesse, carote e piselli con bicchiere d’acqua gasata 6 (sei) €. Meno di quello che costa un “pranzo” da Mc.
Anche un pranzo all’Ikea costa poco di più, basta far passare un’ideologia diversa nelle menti delle persone, soprattutto giovani. Lo stato è bravissimo a fare propaganda per ciò che gli conviene e troppo spesso questo non coincide con il bene dei cittadini.
Tassare ciò che costa meno ed è più veloce da preparare e/o consumare è il metodo migliore per fare cassa a danno della popolazione meno abbiente. E’ un esempio di come si applichi la cosiddetta “redistribuzione” ovvero “trasferire ricchezza nelle tasche dei boiardi“. Solo i ricchi che possono permettersi la cuoca possono mangiare sano. Per questo i loro cibi sono tassati di meno. Cornuti e mazziati: questo è in sostanza il marketing del “politically correct“. Altro che nostra salute. Loro salute!
L’altra sera ci siamo fatti una cena a base di hamburger (anzi, come diceva la mamma, di svizzere).
Il pane l’ho fatto io (ci vuole poco tempo e ci si diverte pure) e mi è costato quasi niente, le svizzere me le ha fatte (macinate fresche) il macellaio al prezzo di 1 € cadauna, l’insalata comprata al mercato contadino ha un costo simbolico in rapporto all’uso e abbiamo aggiunto frutta (mele del contadino, cultivar Florina, eccellenti, al prezzo di 1,30 €/kilo). Conclusione: non è vero che mangiare sano costa di più che non mangiare schifezze, la verità è che è più scomodo perché devi cercare il cibo, lavarlo, cucinarlo, pulire dove hai cucinato. E’ MOLTO più comodo andare al supermercato e infilare nel carrello pacchi di roba già pronta da mangiare o andare al fast food ad ingurgitare megapanini e patatine con ketchup.
Tassare il cibo spazzatura non serve a nulla, il problema sta nella nostra testa e nel valore che diamo alle cose, al nostro tempo e a quello che facciamo. Forse è meglio dedicare maggior attenzione a quello che mangiamo che non devastarlo in un sacco di attività inutili, tipo leggere e commentare post sui blog.
Ops! Ma è quello che sto facendo!
Smetto subito e mi vado a fare un bel risottino. Anche quello a farlo da zero (brodo, scalogno, riso, burro, formaggio) costa quasi niente ed è buono e sano.
Si, ma lei deve avere un mare di ore in cui, mi scusi, si gratta la pancia. Io lotto anche per avere 5 minuti.
@Antonio Cappa
Mi dispiace contraddirla ma è solo un problema di priorità, e garantisco che il risottino si prepara in 25 minuti.
Per lavora in un ufficio il processo di preparazione è pure terapeutico perché costringe per quei 25 minuti a mollare tutto e a concentrarsi su quello che si sta facendo e sul risultato che si ottiene.
Se poi uno preferisce il faccialibro, il cinguettio e assimilati, peggio per lui.