11
Mar
2010

Ci salverà il micro-mecenatismo?

Supponiamo che l’Italia detenga davvero il cinquanta per cento del patrimonio culturale del mondo interno. Come facciamo allora a conservarlo e a valorizzarlo? Lo Stato italiano destina una quota pari a circa lo 0,3 per cento del Pil alla cultura. Poco? Troppo? Secondo i più, tale cifra è insufficiente per preservare il nostro patrimonio. Naturalmente dovremmo intenderci prima di tutto su cosa sia un “bene culturale”. Cosa merita di essere conservato? E da chi? Ogni scavo che permetta di scandagliare il suolo italico porta alla luce reperti. Cosa salviamo e cosa “gettiamo”?
Evidentemente lo Stato non può farsi carico di gestire musei, aree archeologiche, ville storiche, archivi, ecc. A meno che la cifra del Pil destinata al ministero dei Beni e delle Attività culturali non decuplichi, lo Stato non ce la può fare. Ma anche se dovessimo trovare un governo particolarmente sensibile, emergerebbero questioni di opportunità. E allora, ipotizzando che lo Stato possa avere le risorse necessarie, si dovrebbe discutere dei suoi compiti: davvero deve occuparsi in toto del nostro patrimonio culturale? 
Di recente, il governo ha perso un’ottima occasione. Se lo Stato da solo non ce la può fare, una mano gliela possono dare le regioni. Nel decreto sul federalismo demaniale in un primo tempo erano stati inseriti anche i beni culturali. E’ bastata qualche polemica e i beni culturali sono stati stralciati. Ma oltre a regioni ed enti locali un importante ruolo sussidiario può essere svolto dai privati. Soggetti più o meno privati (dalle fondazioni di origine bancaria alle imprese che si occupano dei cosiddetti “servizi aggiuntivi”) e soggetti rivolti o non rivolti al perseguimento di un profitto (idem come sopra) sono attivi nella conservazione e nella valorizzazione dei beni artistico-culturali. Esistono veri e propri mecenati (che agiscono per passione) ed esistono società che, ad esempio sponsorizzando determinate attività, ottengono un ritorno di immagine. Insomma, il mondo dell’intervento dei privati nel mondo della cultura è variegato. Variegato ed originale. È infatti da questo settore che nascono le idee più creative. Il problema da risolvere è sempre lo stesso: come attirare denaro? Lo Stato, di suo, può incentivare (o per lo meno non disincentivare) l’intervento dei privati. Questi ultimi, a loro volta, devono avere il massimo della libertà consentita per produrre idee innovative e modalità di intervento. E non è detto che una iniziativa debba per forza contemplare lo stanziamento di ingenti risorse: il micro-mecenatismo può essere una risposta.
Una interessante proposta è quella lanciata da Franco Debenedetti in un recente articolo comparso sul domenicale del Sole-24 Ore. Nello specifico è applicata ai documenti posseduti dall’Archivio di Stato: «Lì stanno le carte del processo a Giordano Bruno: quelle della Reverenda Camera Apostolica possono destare, ovviamente per motivi diversi, fascinazioni che travalicano i confini nazionali; nei catasti degli stati pontifici nipoti e pronipoti di emigrati possono ricercare le proprie origini: c’è materia per creare un “mercato” internazionale del restauro di documenti d’archivio». Con una piccola quota si potrebbe diventare partecipi di una grande opera: il restauro di veri e propri beni culturali. Da 10 a 10.000 euro per acquistare il “diritto di proprietà del restauro”. Una idea semplice ma nello stesso tempo innovativa. Il possesso, vedere il proprio nome impresso in qualcosa a cui ci si sente legati, in qualcosa a cui ci si sentirà legati.
Una idea per certi versi simile è stata realizzata dal 1996 dalla Venice Foundation. Raccogliere risorse attraverso il coinvolgimento, il senso di sentirsi parte di qualcosa di importante e di culturalmente rilevante. In un certo senso si tratta di un comportamento “pedagogico”, soprattutto se fatto all’interno delle scuole: educare alla responsabilità attraverso la proprietà. Solo se ci si sente proprietari di qualcosa si è portati a rispettarlo. Non a caso, le cose di tutti (cioè di nessuno) sono le meno curate e rispettate. Un conto è il mecenatismo “mordi e fuggi” (che inevitabilmente ha un orizzonte limitato), un’altra cosa è il coinvolgimento diretto, il creare passione in chi può solamente contribuire in minima parte (ma tante piccole parti alla fine fanno il tutto). Fondamentale è il controllo sui propri soldi. Non è un caso allora che la Venice Foundation, pur proponendosi la finalità di “affiancare” i Musei civici Veneziani, raccoglie fondi senza però poi consegnarli ai Musei civici ma vengono gestititi direttamente dall’associazione. Il donatore vuole monitorare l’uso dei propri soldi. Un sistema trasparente agevola questo rapporto. Se il denaro raccolto venisse “girato” nelle casse dei Musei civici come faccio a sapere per quali finalità verrà utilizzato. Il piccolo mecenate vuole “comprare” qualcosa di identificabile. Nel caso di un restauro vuole “comprare” il restauro del pezzetto di un’opera, vuole seguire l’iter dei lavori, apprezza di trovare il suo nome tra i benefattori che hanno consentito il restauro, e sarà molto rispettoso del risultato (perché quanto è stato ottenuto lo sente come suo).
La cultura è di tutti? Sì, ma bisogna che qualcuno la senta come sua, altrimenti la cultura diventa di nessuno.

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4 Responses

  1. carlo

    bella idea. escono sempre dalle testoline che considerano la spesa pubblica di questo paese perfettamente allocata e incomprimibile. naturalmente queste menti illuminate non accarezzano l’ idea di cancellare un pò dell’ esercito di parassiti della nostra burocrazia borbonica per sfornare specializzati dalle università umanistiche e indirizzarli alla conservazione e valorizzazione del patrimonio artistico.non è che una tassa di scopo mascherata da una pergamena gli interventi sui beni culturali sono comunque assoggettati ala catena burocratica ministeriale.
    l’ idea poi che il rispetto debba essere ancorato al diritto di proprietà è quanto di più antisociale e diseducativo . pedagocico sarebbe semmai far capire che la responsabilità deve esistere a prescindere dalla proprietà.che esistono beni comuni che vanno preservati alla fruizione degli altri e delle generazioni future. avviando al volontariato nei musei e nelle aree archeologiche.far apprendere il valore del sacrificio anonimo per la conservazione di un identità culturale comune.invece no. bisogna perforza possedere. avere il proprio nome sulla targhetta. comprarsi il proprio spicchio di cultura a buon mercato da fare vedere agli amici.la propria sdraio con ombrellone nella spiaggia dei beni culturali.personalmente ha dedicato per dodici anni della mia vita tre mesi di ferie a fare l’ archeologo volontario in etruria merdionale. pala piccone e carriola dall’ alba al tramonto e magari anche vigilanze notturne per via dei tombaroli. non ho un certificato che lo attesti e non possiedo nemmeno un manico dei vasi che ho restaurato e consegnato alla soprintendenza.la considero una delle esperienze più formative della mia vita oltre che un servizio civile reso a questo disperato paese.
    ma effettivamente vuoi mettere la soddisfazione e il valore pedagogico? mi da due etti di restauro?fa duettemmezzo ,che faccio lascio?

  2. Luca Segafreddo

    Egregio Filippo, ci sono dati Unesco che accrediterebbero all’Italia una percentuale maggiore,circa il 60%, dei beni culturali mondiali conosciuti; di questa fetta il 60%, da stentare a crederci ma è così, si trova nella sola Sicilia. Sottolineo “conosciuti” in quanto nel nostro paese abbiamo una notevole quantità di opere di proprietà privata non ancora catalogate, inoltre lo stato degli scavi archeologici langue in parecchi siti di spessore, da dove sicuramente emergerebbe altro materiale d’indubbio valore. L’argomento da lei affrontato è uno degli aspetti che più mi sta a cuore dell’Italia e, allo stesso tempo, uno dei tanti, tantissimi, che mi fanno incazzare come una bestia. La frase fatta che noi potremmo vivere soltanto di turismo, non sarebbe tanto buttata là se si prestasse una cura adeguata alle risorse che il fato ha assegnato al nostro paese. Consideri, ed esempio, i sotterranei degli Uffizi; dico gli Uffizi, ma non ritengo differente la situazione in altri musei italici. Sono stipati di opere d’arte di valore incommensurabile perché il museo non ha più posto nelle sue sale. Vi si trovavano addirittura dei Cimabue, quadri che in una qualsiasi struttura anglosassone meriterebbero una stanza dedicata. In Italia saltano ancora fuori oggigiorno dei Raffaello, dei Giotto sconosciuti, forse perché un tempo catalogati frettolosamente o dimenticati in un deposito. Con le opere “in cantina” si potrebbero costruire mostra itineranti, affittare opere ad altri musei stranieri, in conformità con la legge internazionale sulla tutela dei beni culturali, il diritto lo consentirebbe, ed introitare per continuare ad investire nel settore.
    Pompei è stata scavata per circa la metà, forse meno. Ci sono zone degli scavi non visitabili, con erbacce alte due metri. Mi da fastidio fare paragoni assurdi con altri paesi, tuttavia negli USA la manutenzione delle autostrade, lo sfalcio dell’erba sui bordi ecc.. è affidata a gruppi di detenuti. Perché non utilizzare anche noi il lavoro dei carcerati per tagliare l’erba a Pompei e tenere in ordine questo gioiello che una tragedia ci ha consegnato? Ritengo che più di uno sarebbe felice di poter stare fuori ad effettuare questo lavoro, ma forse, qui da noi, saremmo capaci pure di farceli scappare. Personalmente non me ne frega niente che ci siano carceri con celle da 8 detenuti quando dovrebbero essere massimo in 4. Avrebbero dovuto pensarci prima ed evitare di finirci in prigione, tuttavia il nostro Stato costruirà nuovi carceri, non nuovi musei. Investirà in strutture che costituiranno solo e soltanto un’ulteriore spesa continua, mentre sembra tralasciare l’opportunità di recuperare palazzi e strutture, già di Sua proprietà, per convertirli in musei, ottenendo il doppio beneficio di aver, in alcuni casi, restaurato un’opera architettonica e di ottenere un rientro delle spese grazie agli ingressi, alle stampe, alle pubblicazioni e quant’altro che da tale struttura potrebbe derivare. Bene ha fatto a citare Venezia, ma sono mosche bianche, come i Getty.
    Verosimilmente la cosa sarebbe del tutto differente se vigesse, anche in Italia, la legge anglosassone, la quale prevede che tutto ciò che si trovi nel sottosuolo di un terreno privato, o che piova dal cielo su di esso, sia di proprietà del possessore del terreno stesso. Mi rimane tuttavia il dubbio sulle conseguenze di ciò nel nostro paese. Concordo pienamente con quanto asserito dall’altro commentatore, sig. Carlo, e sulla incommensurabile burocrazia del nostro paese, che dà da mangiare a orde di ruffiani nullafacenti che rappresentano soltanto un’emorragia economica per lo Stato. Tuttavia ritengo utopia il fatto di liberarcene un giorno. Concordo con il sig. Carlo anche sul fatto del “possedere” in quanto anch’io, studente di archeologia a Cà Foscari per passione, vedo il bene culturale come lo vede lui però, da imprenditore, guardo anche il risultato pratico. Qui andiamo avanti a volontariato, abbiamo volontari ovunque (grazie a Dio) ma i beni culturali non sono una disgrazia, non sono malati in un ospedale e, inoltre, sono solo e soltanto proprietà dello Stato. E lo Stato? Bene ha fatto Rutelli ad andare a richiedere opere nostre in giro per il mondo, ma non stride con l’incuria con cui trattiamo quelle che abbiamo già qui da sempre?
    A me non interessa per nulla sul come si arrivi al restauro di un’opera, da dove siano venuti i soldi, chi li abbia messi, quanti ne abbia dati, pur di vederla perfettamente restaurata, conservata, esposta. Non m’importerebbe nemmeno se fosse la camorra che completasse lo scavo di Pompei, a patto che non si trafugasse nulla. A me andrebbe benissimo anche di vedere le tabelle e le targhette in mandarino, poiché è stato un cinese a far effettuare un restauro. Io voglio vedere, voglio capire, voglio conoscere, voglio fare. Di fronte al patrimonio culturale nostro non transigerei, io perdo la testa, farei qualsiasi cosa per esso, ma non per una targhetta o una pubblicazione con il mio nome. Quello che importa è l’opera, non io. Io dipingo, ma non sono stato destinato ad essere Cenni di Pepo. Scolpisco, ma non sono stato destinato ad essere Michelangelo. Suono, ma non sono stato destinato ad essere Segovia. Sono quasi archeologo, ma non diverrò Howard Carter. Io sono come il sig. Carlo, pala e carriola gratis dalla mattina alla sera, per questo disperato paese. Tuttavia se posso fare qualcosa per un’opera qualsiasi, o veder fatto qualcosa da altri che possono, ben venga. Michelangelo Merisi è stato di passaggio su questa terra, i suoi quadri no. Quelli, forse, possono restare, se qualcuno di passaggio continuerà a volerli custodire.

  3. Filippo Cavazzoni

    Il senso del mio post era questo: come facciamo a dirottare sempre più risorse verso la conservazione e la valorizzazione dei beni culturali? Ben vengano esperienze di volontariato o di puro mecenatismo ben rappresentate dal FAI. Naturalmente tutto questo non è sufficiente. Le strade che si possono percorrere allora sono due: aumentare gli stanziamenti pubblici o incentivare e sostenere il coinvolgimento dei privati. Per una serie di motivi, preferirei battere quest’ultima via. Sì, ma come? Il caso della Venice Foundation o l’idea progettata da Debenedetti mi sembra vadano nella direzione giusta. Mettono in campo una serie di maccanismi che rendono appettibile il coinvolgimento delle persone verso finalità che ci stanno a cuore.

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