Chi controlla la parola controlla anche il pensiero: il ruolo chiave dei social nel gestire gli spazi pubblici-informali
Opinioni e idee si scambiano in spazi e luoghi sociali diversi. Una suddivisione utile è quella tra spazio privato, spazio informale-pubblico e spazio formale-pubblico. Lo spazio privato è quello che ci vede interagire con persone con cui condividiamo molti valori e interessi, come quando, a tu per tu, ci si scambia un pettegolezzo tra amici (“mi raccomando non dirlo a nessuno”). Lo spazio formale-pubblico è quello in cui il nostro agire è, per così dire, “responsabile”, come quando siamo intervistati, scriviamo un articolo o parliamo rilasciando dichiarazioni in nome del nostro ruolo pubblico o esercitando la nostra professione. Tra questi due spazi, tuttavia, esiste uno spazio intermedio che consente l’interazione sociale tra persone né vicine né lontane, la cerniera naturale di una società libera e multivaloriale.
Questo livello intermedio, che potremmo definire lo spazio pubblico-informale, corrisponde alla chiacchera da bar o allo scambio di opinioni in una discussione aperta al pubblico, all’incontro alla fiera del paese, alla cerimonia religiosa o alla manifestazione sportiva. È un livello non ben definito, ma con un ruolo fondamentale: offre il punto di contatto tra persone che non appartengono agli stessi gruppi e che però sono parte della stessa società. È il livello che permette a idee e valori di poter circolare, confrontarsi, crescere, diffondersi, mettersi in discussione. Questo spazio sta scomparendo in senso fisico ed è sempre più occupato o sostituito dai social. Si tratta di una evoluzione con conseguenze importanti che vanno comprese.
È indubbio che, a causa dell’evoluzione del tessuto sociale, in parte accelerata a seguito della pandemia, lo spazio pubblico-informale, quello della piazza o del bar, stia scomparendo. Le persone non hanno più spazi sociali fisici di confronto al di fuori della cerchia di amici e dei colleghi. La agorà è stata eliminata. Il grosso della popolazione ha contatti umani “in presenza” soprattutto con amici stretti, con familiari o con persone del proprio ambiente di lavoro. Questi contesti non sono ideali per il confronto pubblico di idee perché sono caratterizzati sia da una elevata omogeneità sociale/culturale, sia da interessi diretti che impediscono e condizionano una discussione aperta tra persone con valori diversi.
Fino a qualche anno fa, esistevano spazi pubblici dove persone appartenenti a gruppi culturali e sociali diversi potevano incrociarsi (il foro, il mercato, la piazza, la scuola). In questi luoghi, pareri, valori e opinioni diverse potevano entrare in contatto senza un’autorizzazione formale o senza richiedere un’assunzione di ruolo. Non si trattava, ovviamente, di contesti perfetti perché erano comunque segmentati per genere e classe sociale, ma fornivano l’occasione di un confronto diretto. Sul sagrato della chiesa, sui sampietrini del mercato, sui tavoli della piazza, sui banchi della scuola pubblica, sulla spiaggia della riviera, il ricco, il povero, l’intellettuale e il contadino respiravano la stessa aria, anche se per poco. Non è più così. Questi spazi o sono scomparsi o sono stati regolamentati da norme che, per motivazioni di sicurezza, privacy, etichetta, stile, scoraggiano i contatti umani non autorizzati. Senza un permesso dall’alto, non si parla più con gli sconosciuti.
Senza questo spazio aperto e, in buona misura, libero, si sente l’assenza di una cerniera che permetta il confronto tra gruppi sociali diversi. Ovviamente, questo spazio deve essere libero e non governato da regole o ruoli sociali perché altrimenti viene meno la possibilità che sia aperto a ciò che non è ancora parte dei valori stabiliti. Il suo valore è permettere quegli scambi che consentono il confronto tra mondi diversi all’interno della società. Senza di esso ogni gruppo (e persino ogni individuo) si chiude in una serie di principi e interessi non più oggetto di discussione. Questo spazio è il polmone sociale dove la società respira nuove possibilità, idee e valori.
Lo spazio pubblico-informale sta scomparendo dal mondo fisico per essere sostituito dai social che tendono a enfatizzarne gli aspetti meno virtuosi, soprattutto a causa dell’assenza della presenza fisica delle persone. Interagire all’interno di un mondo virtuale, isolati con il proprio computer o cellulare, non contribuisce certo all’umanità degli scambi, anche se, indubbiamente, la comunicazione umana ha sempre avuto aspetti controversi e potenzialmente urtanti. Sono fenomeni ben noti su cui non c’è bisogno di dilungarsi – gli haters o odiatori da tastiera, i diffusori di fake news, gli stalker. Tuttavia, anche con questi limiti, dobbiamo riconoscere che oggi, che non c’è più la piazza e il mercato, lo spazio pubblico-informale è possibile soprattutto grazie ai social. E quindi i social, con i loro difetti, hanno la funzione di permettere che ci si parli tra persone con diverse provenienze. D’altronde tale comunicazione non può che portare a confronti vivaci e persino scontri feroci. Ma l’alternativa qual è? Sottoporre lo scambio di opinioni in un contesto semipubblico a un controllo dall’alto? Sulla base di regole morali non necessariamente condivise? L’ipocrisia buonista di molti social dove si può mettere il like, ma non il dislike, è una pietosa bugia.
Mi sento di difendere la tesi, sicuramente controversa, secondo cui lo scambio semipubblico in queste sedi informali dovrebbe avvenire senza alcun controllo legislativo. L’unico “controllo” avverrebbe tramite le obiezioni degli altri. Ovvero, il social dovrebbe essere uno spazio informale privo di controllo dall’alto, ma gestito unicamente dagli utenti che, condividendo o dissentendo tra di loro, fanno così emergere valori, opinioni e giudizi.
Si deve poter esprimere il proprio pensiero, per quanto aberrante, in un contesto pubblico, perché possa essere oggetto di riflessione pubblica, discussione ed, eventualmente, anche di riprovazione e condanna (ma condanna morale da parte delle altre persone, non condanna penale). In fondo la migliore punizione per una convinzione contraria al vivere civile è sempre stata la reazione sociale, e non la pena. A parte l’ovvio fatto che in ogni epoca si definisce ciò che è aberrante in relazione con quello che si è preso come modello.
Questa situazione è oggi particolarmente critica, perché lo spazio pubblico-informale è occupato dai social network che, offrendo sul livello digitale l’unica piazza oggi disponibile agli esseri umani, hanno condizionato il rapporto tra persone in quattro aspetti negativi: 1) la tracciabilità perfetta e permanente di ogni opinione e di chi la esprime; 2) il controllo contemporaneo del mezzo e dei contenuti; 3) la proprietà delle opinioni espresse dalle persone; 4) la cedibilità dello spazio pubblico a terzi.
Primo punto. La tracciabilità permanente di quello che le persone esprimono sui social – in molte legislazioni i social sono equiparati al mezzo stampa – è però contraria all’esercizio pubblico della doxa, dell’opinione, per sua natura incompleta, abbozzata, temporanea ed, eventualmente, modificabile. Se al mercato uno dice come la pensa, non è come se stesse leggendo una dichiarazione ufficiale alla Camera. La provvisorietà dell’opinione è una sua caratteristica intrinseca e, in larga misura, positiva proprio perché le persone debbono potersi formare una opinione, anche attraverso l’esercizio di punti di vista incompleti e temporanei. Senza parlare con gli altri, come faccio a sapere che cosa penso e se quello che penso è giusto o sbagliato? Ma se devo preoccuparmi di dire sempre le cose giuste, non posso più parlare e, quindi, nemmeno pensare. Una persona non può essere ritenuta sempre responsabile di ogni cosa che dice, altrimenti non potrebbe usare il linguaggio per formarsi un punto di vista. Se così fosse, si sarebbe eliminata completamente la funzione costruttiva dello scambio, nel contesto del quale si devono poter assumere e difendere posizioni controverse.
Il secondo punto negativo è il controllo contemporaneo di canale e contenuto. I fornitori di piattaforme per i social network, spesso in regime monopolistico di fatto, sono in grado di avere un potere enorme, controllando la piazza e quindi avendo il poter di limitare e stabilire contenuti. Chi controlla il canale non dovrebbe controllare il contenuto e viceversa. Invece, in numerosi casi (Facebook, Twitter, Instagram), i fornitori del canale possono decidere – e a volte lo fanno – quali contenuti e quali persone possono usare il canale. Chi ha il diritto di decidere quali valori siano più corretti? Chi ha diritto di stabilire che cosa sono la verità e il “giusto”? Trattandosi di social, ovvero di servizi che hanno un impatto notevole sulla società, da quando si è stabilito che questi privati (che altro non sono che le società che gestiscono i social) hanno tale potere politico, etico e civile?
Terzo punto. Le persone non sono più proprietarie delle opinioni espresse, nel senso che chi esprime opinioni in un contesto semipubblico si trova a non poter più controllare quello che ha detto, nonostante che, per tanti aspetti, abbia le caratteristiche della transitorietà. Provate a recuperare quello che un utente ha detto qualche giorno fa e vi renderete conto che la disponibilità dei commenti è un mito. Certo, il gestore della piattaforma può accedere a tutto quello che avete detto, ma voi no, o con grande difficolta. Nella pratica c’è una asimmetria tra il gestore, che diventa il padrone di fatto di tutto quello che voi in fiducia e trasparenza avete detto, e l’utente che non può più accedere in modo efficiente ai propri commenti. Il gestore, poi, può usare le vostre parole in accordo con altri attori – altre società private, organi di governo, poteri politici – che, per i loro scopi, possono accedere ai vostri commenti e post, persino contro di voi. Tutto quello che dite potrà essere usato contro di voi…
Quarto punto. Lo spazio pubblico-informale, che non dovrebbe appartenere a nessuno e che dovrebbe essere un momento anche aspro di confronto in cui le persone si espongono per esprimere una voce, più o meno condivisibile, viene utilizzato a piacimento dai padroni della piattaforma senza che vi sia alcun efficace controllo da parte degli utenti. Lo spazio pubblico diventa così oggetto di controllo e sempre passibile di essere utilizzato per monitorare opinioni, desideri e altro ancora.
L’appropriazione dello spazio pubblico-informale da parte dei social e la totale asimmetria della sua gestione con strumenti legislativi inadeguati (per esempio la sua equiparazione a un mezzo stampa) ne snatura la funzione di cerniera sociale tra persone con opinioni diverse. Al potere ha sempre dato fastidio la piazza, oggi con i social si è trovato il modo di controllarla con strumenti nuovi.
Si nega alle persona la libertà di esprimere il proprio pensiero, e un pensiero che non si può esprimere è un pensiero morto. Con la scusa legale di avere equiparato lo spazio pubblico dei social a una pubblicazione a mezzo stampa, si sono espropriate le persone dello spazio semipubblico della piazza e si sono condannate a non poter avere nessuno spazio di confronto (se non quello intimo delle persone loro vicine, ma anche questo, fino a quando?). Se mi posso confrontare solo a condizione di essere certo che quello che dico è conforme con i valori pubblici o solo con le persone intime, viene meno la possibilità di far emergere in una discussione aperta, ma ancora non definitiva, opinioni, bisogni e valori.
In un mondo dove la discussione pubblica, per i motivi detti sopra (pandemia, isolamento, commercio online, assenza di aree pubbliche di confronto), non può che avvenire per via digitale, averla equiparata a pubblicazioni a mezzo stampa e quindi averla assoggettata a norme antiliberali ha privato le persone di uno spazio di confronto e di dibattito. Il confronto e il dibattito – non dovrebbe esserci bisogno di dirlo – richiedono la differenza di opinioni e di valori, altrimenti non si tratta di un vero confronto e di un vero dibattito. Lo scontro di idee non è qualcosa da evitare, ma da incoraggiare. È solo quando le idee possono scontrarsi che le persone possono rimanere insieme.
I cittadini non discutono dentro la chiesa o il palazzo, ma fuori, nella piazza, che non è di nessuno, nello spazio semipubblico in cui la legge dovrebbe difendere la libertà di espressione (anche abusata) e non la conformità dei contenuti: vox populi vox dei. I social dovrebbero favorire il dibattito pubblico tra persone anche diverse (l’opposto di quello che avviene oggi, dove i motori delle piattaforme uniscono i simili). Il confronto pubblico non è l’espressione di idee fatte e finite o di dichiarazioni definitive, non è un luogo sanificato e sicuro al 100%, ed è bene che sia così. La sanificazione delle opinioni è l’inizio di una società distopica che uccide il pensiero e, a lungo termine, se stessa. Le idee devono scontrarsi perché le persone possano unirsi.