Cent’anni di solitudine
Nel XVII Congresso di Livorno, il casus belli che determinò, un secolo fa, la scissione della frazione dei “comunisti puri” (mozione di Imola) dal Psi fu la decisione della maggioranza massimalista (frazione dei “comunisti unitari” raccolti nella mozione di Firenze) guidata da Giacinto Menotti Serrati di non espellere la frazione “concentrazionista” (mozione di Reggio Emilia) di Filippo Turati e gli altri dirigenti riformisti.
Dopo un dibattito caratterizzato da polemiche e interruzioni, le votazioni svoltesi nel pomeriggio del 20 gennaio diedero i seguenti risultati. Votanti 172.487 così suddivisi: mozione di Firenze 98.028 voti; mozione di Imola 58.783 voti: mozione di Reggio Emilia 14.685 voti; astenuti 981. Dopo la proclamazione degli esiti, la mattina del 21 gennaio, la frazione comunista dichiarò che la maggioranza del Congresso si era posta fuori della III Internazionale e invitava i propri aderenti ad abbandonare la sala e a recarsi, alle ore 11, presso il Teatro San Marco per deliberare la costituzione del Partito comunista, sezione italiana della III Internazionale. I militanti uscirono al canto dell’Internazionale.
Perché i comunisti fecero questa critica assumendola come motivo (pretesto?) per la scissione? Il Psi aveva deciso di aderire alla III Internazionale che si definiva “comunista”; ma per essere ammesso – come tutti gli altri partiti candidati – era necessario adeguarsi ai 21 punti dettati da Mosca. Uno di questi – contrassegnato dal n.7 – non ammetteva dubbi: «I partiti che desiderano appartenere all’Internazionale comunista sono obbligati a riconoscere la completa rottura col riformismo e con la politica del “centro” e a propagare questa rottura nella più ampia cerchia comunista». Il testo, poi, non esitava a chiamare per nome i social traditori. «L’Internazionale comunista non può tollerare che opportunisti notori, quali Turati, Kautsky, Modigliani, ecc., abbiano il diritto di passare per membri della III Internazionale».
I 21 punti erano stati votati al II Congresso della Internazionale comunista che si era svolto nell’estate precedente a Mosca. Vi aveva partecipato una delegazione del Psi composta da Serrati, Graziadei e Bombacci. Mentre gli ultimi due avevano condiviso in toto il diktat, Serrati pur dichiarandosi d’accordo in linea generale, aveva respinto il punto relativo all’espulsione. Il tema venne, quindi, sottoposto in Italia alla direzione del partito; la posizione di Serrati era passata con 7 voti contro 5, rinviando la decisione al Congresso. Ciò consentì al partito di presentarsi unito alle elezioni amministrative del 31 ottobre e del 7 novembre del 1920 nelle quali i socialisti vinsero in 2162 Comuni (tra cui Milano e Bologna) e in 26 amministrazioni provinciali.
Il nodo venne al pettine poco dopo a Livorno, ma, nonostante le pressioni esercitate dall’Internazionale, Serrati resistette; ma i massimalisti furono poi costretti a cedere – nel XIX Congresso, svoltosi a Roma nell’ottobre 1922, poche settimane (sic!) prima della Marcia fascista su Roma – e ad espellere i riformisti, che diedero vita al Psu, nominando segretario Giacomo Matteotti.
La storia, però, ha la memoria lunga. E consuma le sue vendette a tempo debito, senza fretta. Tra i 21 punti/ukase è interessante ricordare il 17° che obbligava tutti i partiti – intenzionati ad aderire all’appello di Mosca – a “cambiare nome” assumendo quello di “partito comunista (del Paese) sezione della III Internazionale comunista”.
L’assillo di “cambiare nome” di quel lontano 1921 lo si è ritrovato il 12 novembre 1989 (tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino) nella sezione della Bolognina (nella capitale del comunismo “di qua dal Muro”) dove Achille Occhetto fece capire ai militanti attoniti che era venuto il momento di costituire “una forza nuova”. Per due anni (fino al Congresso del 1991) la discussione sul “nome” divise il partito di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer (come recitava la tiritera dell’orgoglio comunista), le sezioni, il mondo intellettuale, le stesse famiglie. E tutti, anche quanti comunisti non lo erano mai stati, dovettero assistere a quel dibattito struggente come se si trattasse di una questione di rilevo nazionale. Bastò cambiare il nome del destino per mutare identità ed infilarsi in una serie di “ditte” (Pds, Ds, Pd in accomandita con una parte di ex Dc) che allontanavano sempre più il partito nuovo da quello vecchio.
A questo proposito, nel centenario di Livorno, sarebbe più opportuno interrogarsi non sulla nascita del Pc d’I, ma sulla sua scomparsa senza lasciare eredi. Un’opportuna amnesia ha spazzato via un passato che aveva caratterizzato la storia del XX secolo. Viene da chiedersi, ormai a tanti anni di distanza dall’episodio della Bolognina (peraltro la sezione di via Tibaldi non esiste più), perché un “aggettivo” avesse un significato tanto identitario.
L’idea di comunismo non l’aveva scoperta Lenin, le opere di Marx ed Engels non erano state ritirate dalle librerie; anzi, negli anni avevano accumulato una saggistica in tutte le lingue che – messa per esteso – avrebbe potuto prendere il posto dell’Equatore. Miliardi di persone erano nate, cresciute e morte benedicendo o maledicendo quel nome. Peraltro si dice tuttora comunista, la Cina popolare, che rappresenta la seconda potenza economica e militare del mondo. Ma il comunismo cinese non viene preso in considerazione neppure da Marco Rizzo.
La questione, in verità, è un’altra. Nonostante le vie nazionali al socialismo, l’eurocomunismo, la denuncia dell’esaurimento della “spinta propulsiva”, la solidarietà nazionale, l’accettazione dell’ombrello della Nato e quant’altro, l’esistenza del blocco sovietico rappresentava pur sempre “il socialismo realizzato”, la prova che un altro modello politico e sociale era possibile; la continuazione dell’ambiguità su cui Palmiro Togliatti aveva costruito la forza e la grandezza del Pci.
L’esistenza dell’Urss, pur con tutti i suoi difetti, garantiva ai militanti che, in un domani magari lontanissimo, rimaneva la prospettiva del cambiamento rivoluzionario. Per questi motivi il Pci che aveva approvato l’invasione dell’Ungheria del 1956 (salvo ritrattare quando era già PDS), aveva difeso la Primavera di Praga e soprattutto venerato Mikhail Gorbaciov. Erano – a molti anni di distanza – leader che volevano riformare il comunismo, non abbatterlo.
In proposito, ho un ricordo personale molto netto. L’8 dicembre 1989 fui invitato, insieme ad Antonio Pizzinato, a Praga in una delegazione della Cgil. La Cecoslovacchia era in una fase di transizione; il regime comunista traballava, ma non era ancora stato travolto (si parlò della “rivoluzione di velluto” perché non ci fu spargimento di sangue). Noi andammo a cercare – portando appresso una concreta solidarietà – i sopravvissuti della Primavera del 1968, come se d’incanto fosse venuto il loro momento e toccasse loro di ripartire da dove erano rimasti vent’anni prima. In realtà, anche queste persone, ormai anziane, erano state superate dalla storia. La caduta del regime portava con sé anche quella dei suoi ‘’dissidenti’’, sconfitti ed emarginati, costretti a sopravvivere negli “antri muscosi e nei fori cadenti” dell’oblio.
Il nuovo corso cecoslovacco fu impresso da Vaclav Havel. Ricordo che ci recammo a casa dell’ex segretario parlamentare di Alexander Dubcek. Finito il colloquio lo accompagnammo sul luogo di lavoro: svolgeva le mansioni di custode notturno di un parcheggio. Allora, però, un certo mondo della sinistra (che aveva sempre osteggiato i “dissidenti”; si veda il caso di Jiri Pelikan) riteneva sbagliato rinunciare al comunismo se esisteva la possibilità di migliorarlo, sottoponendolo ad iniezioni di democrazia.
Ecco perché parlando, un secolo dopo Livorno, del comunismo e del Pci, vengono in mente le parole con le quali si chiude un grande romanzo: “Chi ha vissuto cent’anni di solitudine non avrà un’altra occasione nella vita”.