Catastrofi innaturali
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Mario Dal Co.
Abbagli
Questa riflessione è nata nei giorni in cui mettendo e togliendo gli stivali per l’acqua alta, riflettevo sull’impossibilità per il politico contemporaneo, di qualsiasi schieramento, di condurre a termine grandi progetti nel nostro Paese. Balza agli occhi il fatto che il Mose, sostanzialmente finito, non abbia ancora una governance e quindi non possa essere attivato né manutenuto e gestito. Parliamo di 100 milioni all’anno, non proprio bruscolini, e di decisioni sul limite per la chiusura delle paratoie che possono portare, con 10 cm di differenza, chiudere per 10 giorni o per 100 giorni all’anno.
Il buon funzionamento dell’amministrazione pubblica si basa oltre che sulla conoscenza puntuale dei meccanismi di finanziamento e di spesa, anche sulla capacità di stimare i tempi di predisposizione delle norme, i tempi di attuazione delle stesse, i tempi di monitoraggio e infine i tempi di valutazione. Questi diversi ritardi amministrativi e gestionali sono decisivi per la valutazione dell’impatto delle norme e quindi per consentire all’opposizione e ai cittadini di controllare l’operato del governo. Questi ritardi hanno un impatto enorme, che può vanificare qualunque volontà politica e qualunque velleità riformista; basti pensare al fatto che, quando si intende erogare un nuovo servizio, occorre predisporre sistemi informativi, assumere risorse, disporre di locali, testare il funzionamento delle procedure.
In materia contrattuale, inoltre, occorre che le norme siano stabili e non ballerine: questo lo sanno a loro spese i cittadini che pagano le tasse, ogni anno diverse, e le imprese avvolte in una ancor maggiore incertezza con costi amministrativi crescenti nonostante le nuove tecnologie. Queste incertezze sono letali per gli investitori esteri: essi sono disposti a rischiare in un paese che comunque conoscono poco, solo a condizione che vi sia certezza del diritto e procedure comprensibili e prevedibili nella loro esecuzione.
Siamo un Paese fragile: il nostro territorio è delicato e sottoposto a scosse e catastrofi naturali che richiederebbero una amministrazione responsabile, ossia capace di guardare al futuro e protesa nello sforzo di responsabilizzare enti locali e cittadini nella tutela del territorio e nella realizzazione e manutenzione delle infrastrutture. Un Paese fragile ha bisogno di una amministrazione che si relaziona con famiglie e imprese in modo semplice, univoco, chiaro.
Possiamo dire che oltre alle catastrofi naturali, il Paese deve sopportare una amministrazione pubblica foriera di catastrofi amministrative e normative. Anzi, i nostri operatori – famiglie e imprese – soggiacciono ad una amministrazione pubblica che è di per sé una catastrofe innaturale, ma sulla quale il politico continua a caricare nuove e spesso assurde e sempre velleitarie incombenze.
Dopo 7 decenni con 66 governi di durata media pari ad un anno, e di sostanziale dominanza del sistema proporzionale, l’eletto, che negli ultimi decenni è prescelto da segreterie di partito o insondabili piattaforme web, ha introiettato un senso di precarietà del proprio ruolo che lo rende poco sintonizzato con i suoi elettori, i quali non lo conoscono e che infatti votano per il leader da cui il cosiddetto eletto è stato prescelto. Il legame con gli elettori, quando si diluisce, come sta avvenendo da anni, produce una adesione dell’eletto al modello di offerta politica che si basa sugli annunci e sull’effetto di abbaglio dell’elettore. La forte luce polemica dell’annuncio, la sua valenza divisiva e la sua finalità teso solo ad accrescere lo scontro con i nemici, serve a far perdere di vista gli elementi reali dell’azione politica. Il nuovo politico conosce poco l’amministrazione, le sue debolezze e i suoi limiti, e quindi aderisce volentieri al modello propostogli dal leader con gli annunci abbaglianti. Gli annunci abbaglianti sono generatori di catastrofi amministrative, e nel caso dei servizi e delle infrastrutture di sperperi enormi di denaro, assai più rilevanti di quelli della corruzione su cui sempre si concentra l’attenzione, anche qui alla ricerca dell’effetto abbaglio.
Questi prodotti della politica nostrana sono vere catastrofi innaturali, un termine per contrastare il sentimento, oggi maggioritario tra i concittadini, che tali catastrofi politico-burocratiche siano inevitabili, ovvero naturali. E tali non sono.
Catastrofi innaturali
Il Mose
Si continua a riproporre l’abbaglio che il problema della realizzazione dell’opera di difesa di Venezia dalle acque alte, una delle più complesse opere di ingegneria della storia, sia la corruzione, da affrontare e risolvere non responsabilizzando istituzioni, aziende, cittadini nè predisponendo gli strumenti indispensabili per il il controllo della realizzazione dell’opera, il suo governo e la sua manutenzione, ma istituendo dei commissari.
Si sente dire che anche i tecnici non sono d’accordo sull’utilità e sul funzionamento del MOSE. In realtà, anche chi è sempre stato contrario a quella soluzione oggi sostiene che bisogna completare l’opera, e soprattutto bisogna provvedere alla sua manutenzione e gestione.
Questo tema della gestione e manutenzione è sul tavolo da dieci anni: è il tema della governance dell’opera, quello che un governo e un Parlamento dovrebbero affrontare e decidere la sera stessa in cui si è verifica la seconda maggiore acqua alta della storia di Venezia, incastonata in una settimana in cui l’evento si ripeteva a livelli eccezionali senza dare tregua. La catastrofe innaturale è più grave ancora di quella naturale perché impedisce l’utilizzo dell’opera pressochè compiuta. L’acqua alta recente è risultato delle due catastrofi, non di una sola!
BOX: Il commissariamento del Mose
ANSA Venezia 31 luglio 2019: Il Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Danilo Toninelli, d’intesa con il Presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha individuato nell’ingegnere Gaetano De Stefano il nome da proporre a Palazzo Chigi per ricoprire il ruolo di commissario straordinario al Mose.
La Nuova Venezia 11 ottobre 2019: Ma tre mesi dopo, del commissario veneziano non c’è traccia. Il ministro Toninelli aveva indicato il colonnello dei carabinieri Gaetano De Stefano, dirigente incaricato di «valorizzare» il patrimonio del Demanio militare. Ma il colonnello non è mai arrivato. Mancata firma del presidente Conte, stipendio troppo basso.
Corriere del Veneto 13 novembre 2019: «In questo momento il Mose non si può alzare per difendere Venezia dall’acqua alta. Nel 2019 erano previsti solo dei test di sollevamento che stiamo svolgendo e lo avevamo scritto al ministero delle Infrastrutture lo scorso 10 dicembre. E comunque non siamo certo noi commissari a poter decidere se alzarlo, serve una cabina di regia istituzionale». Francesco Ossola, ingegnere, docente universitario a Torino, è il «commissario tecnico» del Mose, mentre l’avvocato Giuseppe Fiengo segue gli aspetti contrattuali e legali. «Quando abbiamo fatto i test, abbiamo dovuto ottenere tutti i via libera della Capitaneria di Porto su giorno, ora e modalità. Questo per dire che non basta che i commissari premano un fantomatico “pulsante rosso”, ma è necessario istituire una cabina di regia e un protocollo d’intesa con tutti i soggetti istituzionali competenti: Capitaneria, Comune di Venezia, Regione, Provveditorato, Prefettura. Anche questo l’abbiamo detto al Mit a dicembre (2018 ndr).
Corriere della Sera 14 novembre 2019: Elisabetta Spitz, ex direttrice dell’agenzia del Demanio, sarà il supercommissario per completare il Mose. L’ha indicata il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli durante un’intervista a Radio Capital e ora, per la nomina ufficiale, bisognerà attendere solo il via libera del governatore Luca Zaia.
L’ ILVA
Si tende a considerare il caso ILVA come esempio di complessità e quindi a giustificare la situazione drammatica in cui si trovano in particolare ma non solo i dipendenti e i cittadini di Taranto. Eppure, a fronte della complessità degli interventi, le previsioni contrattuali sono abbastanza lineari. Viene da chiedersi se la privatizzazione di un complesso siderurgico come quello di Taranto, con i problemi ambientali e industriali che comporta, non dovesse essere affidata ad una Agenzia investita dallo Stato del potere di condurre in porto l’operazione, nell’ambito di una legge che la proteggesse dall’interferenza della politica nazionale e locale in corso di trattativa e in pendenza di clausole di rescissione così puntuali. Ciò era necessario fin dal lontano 2015, quando Oscar Giannino parlò di deindustrializzazione per via giudiziaria a proposito dell’ILVA (Leoni Blog 24 luglio 2015). Già allora era necessario indicare in modo chiaro le responsabilità imprenditoriali e gestionali passate, presenti e future di fronte alla magistratura e all’opinione pubblica. Così non è stato e la miopia del politico ha impedito di discernere le conseguenze degli annunci e delle deliberazioni guidate dalla necessità di abbagliare l’elettore, senza tener conto dell’impatto sulla trattativa e sul rischio di rescissione.
Riassumiamo i fatti: nel 2017 viene firmato, dopo le procedure di gara e di selezione dell’acquirente, il contratto tra i Concedenti ovvero i commissari ILVA autorizzati dal Ministero dello Sviluppo e Arcelor Mittal (AM Invest Co).
- I principali impegni assunti da AM erano:
- 180 milioni all’anno per l’affitto del ramo d’azienda;
- impegno all’acquisto dell’azienda per 1,8 miliardi;
- investimenti industriali (piano industriale) e ambientali (piano ambientale) per 2,4 miliardi;
- salvaguardia dei livelli occupazionali (oltre 10.000 dipendenti).
Questi impegni erano subordinati al superamento del sequestro dell’altoforno 2, operato dalla magistratura prima della sottoscrizione del contratto e al mantenimento del cosiddetto scudo penale, concesso ai commissari straordinari prima della sottoscrizione del contratto e necessario per l’attuazione del piano ambientale.
Questi impegni, già previsti dal contratto siglato il 28 giugno 2017 (governo Gentiloni), dopo l’emanazione del nuovo piano ambientale (Autorizzazione Integrata Ambientale – AIA) nel DPCM 29 settembre 2017 sono stati rafforzati nell’addendum al contratto siglato il 14 settembre 2018 (Governo Conte-Di Maio-Salvini) nel quale si prevedono puntualmente le clausole di rescissione del contratto da parte dell’Affittuario (AM) «Nel caso in cui …sia disposto l’annullamento integrale del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 29 settembre 2017 adottato ai sensi dell’art. 1, comma 8.1, del D.L. 191/2015, ovvero nel caso in cui ne sia disposto l’annullamento in parte qua tale da rendere impossibile l’esercizio dello stabilimento di Taranto (anche in conseguenza dell’impossibilità, a quel momento di adempiere ad una o più prescrizioni da attuare, ovvero della impossibilità di adempiervi nei nuovi termini come risultanti dall’annullamento in parte qua), l’Affittuario ha diritto di recedere dal contratto».
A maggio 2019 il ministro dell’ambiente Costa (Governo Conte-Salvini -Di Maio) annunciava che voleva rivedere l’AIA, che faceva parte dell’accordo di ottobre 201, per accogliere le richieste del sindaco di Taranto.
Che ArcelorMittal fosse un osso duro, doveva essere ben chiaro ai governi italiani. Non solo le recenti prese di posizione della stampa italiana, ma anche una ricerca finanziata dall’Unione Europea e dal Ministero dello Sviluppo Economico Olandese, già dal 2009 faceva un quadro allarmante dell’impatto ambientale di ArcelorMittal (Bankwatch Network et alii, ArcelorMittal: Going nowhere slowly A review of the global steel giant’s environmental and social impacts in 2008-2009).
A maggio e giugno sia il Foglio, sia fonti internazionali, tra cui l’autorevole sito della Federazione Europea del Commercio dell’Acciaio (EUROMETAL) mettevano in guardia rispetto al rischio di rescissione del contratto per effetto del combinato disposto chiusura dell’altoforno n. 2 e abolizione dello scudo penale.
Quindi il rischio che le scelte della magistrature e quelle del governo potessero portare alla rescissione del contratto da parte di Arcelor Mittal, erano sul tavolo fin dalla primavera del 2019, con il precedente governo.
Il governo attuale, autore ed erede di ondeggiamenti contraddittori e incompatibili con gli impegni assunti e responsabile della definitiva scomparsa della clausola di protezione legale, corre il rischio non solo di perdere l’investitore impegnatosi a portare avanti il progetto di adeguamento ambientale e produttivo dell’ILVA, ma anche quello di dover far fronte ad una richiesta di danni da parte dell’azienda che, carte alla mano, sosterrà che non siano state mantenute le condizioni normative previste, attivando quindi con la possibilità di rescissione del contratto.
BOX: La rinuncia di Arcelor Mittal non è un fulmine a ciel sereno
Gazzetta del Mezzogiorno 28 maggio 2019: la risposta al ministro Costa di Matthieu Jehl, Amministratore delegato pro tempore di Arcelor Mittal Italia: Come ArcelorMittal abbiamo firmato un contratto nell’ambito di un quadro normativo chiaro. Dobbiamo andare avanti con la certezza che questo quadro di legge ci sia… La certezza normativa è fondamentale. Non si possono cambiare continuamente le regole. Il piano ambientale è pensato per trovare soluzioni ai problemi del passato.
Il Foglio 27 giugno 2019: Dopo una lunga trattativa, nove mesi fa il gruppo siderurgico ha rilevato l’Ilva, accettando di lavorare a Taranto con determinate condizioni. Le stesse che oggi sono messe in discussione dal provvedimento che nel governo gialloverde è la massima espressione della politica pro industria, il decreto crescita, convertito in legge ieri, che rischia invece di produrre un effetto devastante sull’occupazione in Puglia. Arcelor ha detto che sarà costretta a chiudere lo stabilimento, mettendo in discussione il lavoro di circa 13 mila persone più l’indotto, per via della norma che dal 6 settembre cambierà le condizioni relative alle responsabilità penali dei suoi manager. D’altra parte, durante la trattativa i rappresentanti di Arcelor sono stati chiari col ministro Di Maio: senza scudo penale l’accordo salta.
EUROMETAL 10 luglio 2019: il contratto firmato tra ArcelorMittal e le autorità italiane consente ad ArcelorMittal di annullare l’accordo nel caso in cui le regole vengano modificate dopo la firma del contratto. La società sembrerebbe quindi in grado di rinunciare al controllo dell’impianto già dal 6 settembre…quando l’attuale decreto potrebbe rimuovere le garanzie legali esistenti…per problemi ambientali verificatisi prima che prendesse il controllo dell’impianto. Di Maio ha spiegato durante un incontro con i sindacati e i rappresentanti di ArcelorMittal martedì che l’immunità legale non verrà restituita ad ArcelorMittal, nonostante le minacce di chiusura. Ha assicurato che ArcelorMittal non avrebbe avuto problemi purché rispettasse il piano ambientale, ma questo potrebbe non essere sufficiente. Nel frattempo, anche martedì, un magistrato locale ha ordinato ad ArcelorMittal di avviare le procedure per far funzionare temporaneamente l’altoforno numero 2 dell’impianto di Taranto… Questo nuovo problema nella fabbrica potrebbe tuttavia avere un impatto anche sulle imminenti decisioni dell’acciaieria in merito all’esecuzione delle precedenti operazioni di Ilva.
Corriere della Sera, 4 novembre 2019: «Togliere lo scudo penale ai vertici di Arcelor Mittal, scrive il segretario nazionale della Fim Cisl, Marco Bentivogli, è stato «un capolavoro di incompetenza e pavidità». E ora, dice ancora Bentivogli, al mancato disinnesco della «bomba ambientale» si unisce anche la «bomba sociale».
Conclusioni:
Abbagliare, voce composta da abbaiare e sbagliare. Indica una malattia degenerativa del sistema istituzionale, di cui la politica è responsabile, che si realizza quando l’orizzonte del politico di professione è talmente breve (inferiore all’orizzonte elettorale normale) che esso (il politico) non si cura minimamente di assicurarsi che gli annunci possano essere realizzabili e verificabili da parte degli elettori, immaginati sempre in procinto di recarsi alle urne prima di qualunque possibilità di verifica degli annunci stessi.
L’abbaglio è una rappresentazione o se si preferisce una forma di intrattenimento dei media e dell’opinione pubblica allestito dalla politica per abbagliare l’elettore e impedirgli di scoprire la pochezza delle scelte e delle proposte che essa (la politica) sta approntando. Non è equivalente alla distrazione di massa, ossia a sostituire un problema reale con un altro inventato indicando al pubblico solo quest’ultimo. Il politico predispone la messa in scena basata su slogan, sull’individuazione di nemici della patria o del popolo o della religione o del territorio o dell’ambiente etc, in modo che l’elettore sia deliberatamente abbagliato e non possa chiedere conto al politico delle sue scelte nella loro concretezza e quindi della loro efficacia. Si tratta di una forma di comunicazione politica mirata ad impedire all’elettore di vedere la sostanza dei problemi reali, sia di quelli che stanno sul tavolo, sia di quelli messi in atto dalle scelte del politico. Nell’abbagliare il politico inventa un’architettura normativa che obbedisce solo alle esigenze della sceneggiata, senza minimamente curarsi dell’applicazione e dell’implementazione della produzione normativa. Non cambia l’oggetto reale, ma lo traveste in modo che risulti irriconoscibile.L’abbaglio conclude il suo ciclo affidando all’alta burocrazia pubblica l’obbligo di produrre i decreti attuativi o che dovrebbero rendere operative le nuove norme, che in realtà sono costruite e promulgate non per funzionare ma per fare ammuina. All’interno di quell’alta burocrazia pubblica rientrano a pieno titolo i commissari straordinari, costretti a muoversi come marionette tra i vetri di Venini.
Ma la politica dell’abbaglio è come una casa priva di fondamenta, di porte d’ingresso, di scale, di ascensori di impianti igienici: essa è solo una scenografia di cartapesta, la sua illuminazione sono girandole e la sua musica petardi e castagnole. In quell’architettura si aggirano solo attori e comparse che recitano con le maschere della Commedia dell’Arte, le litanie autoassolutorie: “mancano i decreti attuativi” “l’inefficienza degli uffici” “inspiegabili ritardi” “misteriosi gruppi di pressione” “logica del profitto” “resistenza al cambiamento” “sospetto ritardo nella disponibilità di fondi” etc etc etc. L’abbaglio, alla fine colpisce anche il politico che lo pratica, poiché l’architettura di cartapesta si macera dietro alla sua rappresentazione rendendola ridicola e facile alimento della critica e dell’opposizione.
A meno che…
E qui si affaccia la tentazione, così forte e così estesamente praticata negli ultimi anni anche in Europa, di trasformare la democrazia liberale in una democrazia autoritaria, tagliando le unghie all’opposizione e alla critica, con l’obiettivo tanto duramente raggiunto nei decenni più oscuri del novecento- di sintonizzarsi su un’unica emittente e di far leggere un unico giornale.
La degenerazione della politica che abbaglia e non morde diviene ancora più esasperata qualora una larga parte dell’élite politica sia stata, per così dire, baciata dalla fortuna (o da una segreteria di partito o da una piattaforma telematica), fortuna che porta a sedere in Parlamento, senza detenere alcuna propria capacità di rispondere agli elettori del mandato ricevuto, senza poter svolgere un ruolo consapevole e responsabile, e quindi confidando solo nel ripetersi della vincita alla lotteria.
Di necessità, quella classe politica esprimerà un governo e cercherà di mantenerlo in vita, al di là di ogni ragionevole dubbio sulla sua inefficacia, lasciando che esso governi non già a vista, ma a svista, poiché tale è la nebbia che lo circonda nelle sue deliberazioni che sono più frequenti le cose non viste di quelle avvistate con sufficiente anticipo da poter evitare al Paese collisioni istituzionali e catastrofi innaturali.