Catasto, quel vizio delle riforme a spizzichi e bocconi
Si è acceso lo scontro politico intorno alla “riforma del catasto”. Uno scontro in cui si litiga sul non detto, l’excusatio non petita lascia pensare a una accusatio manifesta; i retropensieri hanno la meglio sulle parole. La riforma è inserita in un disegno di legge delega per la riforma del sistema fiscale. Il termine per l’esercizio della delega è fissato in diciotto mesi.
In materia di catasto, i principi e criteri direttivi fissati nel disegno di legge prevedono, tra le altre cose, che vengano rilevati e periodicamente aggiornati il valore patrimoniale di ciascun immobile e la sua rendita di mercato.
Ma veniamo alla excusatio non petita; secondo quanto affermato al comma 2, lettera a dell’articolo 6, tali informazioni non saranno “utilizzate per la determinazione della base imponibile dei tributi la cui applicazione si fonda sulle risultanze catastali né, comunque, per finalità fiscali”.
Cosa cambierebbe se questa norma non ci fosse? Assolutamente nulla. In presenza di questa norma, per modificare ad esempio la base imponibile dell’Imu, oggi legata ai valori già inseriti in catasto, ed utilizzare invece i valori di mercato in futuro rilevati, sarebbe necessario un atto avente forza di legge. Esattamente la stessa cosa che servirebbe per produrre il medesimo effetto in assenza di questa norma.
Allora perché è stata inserita una norma inutile? Per tranquillizzare le forze politiche che temono che i nuovi valori inseriti in catasto possano servire per innalzare l’imposizione sugli immobili. Ma, se la norma è inefficace, non tranquillizza proprio nessuno.
Qui entrano in ballo i retropensieri: perché mai dovremmo sopportare l’immane e costoso sforzo di riformare il catasto, introducendo valori patrimoniali e rendite valutate a prezzi di mercato, se poi davvero pensassimo di non utilizzare queste nuove informazioni a fini fiscali? Non viene ragionevole pensare che quanto oggi si scrive – non lo si farà mai – nasconde il retropensiero secondo il quale una volta che di queste informazioni potremo disporre le utilizzeremo precisamente a fini fiscali?
Da qui lo scontro politico. Allo stato delle cose, la riforma è passata in Commissione alla Camera, e la maggioranza si è spaccata. Possibile che se ne esca con una qualche mediazione. Ma a costo di accrescere ulteriormente l’ambiguità che avvelena il rapporto tra Stato e contribuente.
Il tutto perché non si è scelta la strada maestra: una riforma vera, complessiva, del nostro sistema fiscale. Che riconsideri l’impianto delle imposte principali e le loro relazioni. Meglio ancora, come sostenuto in 25xtutti, proposta dell’Istituto Bruno Leoni, che consideri anche la relazione tra le imposte e gli strumenti assistenziali di sostegno ai redditi.
Vaste programme, viene da dire. Ma abbiamo già visto come le riforme fiscali fatte a spizzichi e bocconi finiscano per generare un sistema iniquo, inefficiente, inutilmente complicato. Il disegno di legge delega di cui si discute, purtroppo, non fa eccezione.