Caro Draghi, basta con i Dpcm, ora utilizziamo i Decreti legge
Ripubblichiamo l’articolo di Giovanni Guzzetta uscito oggi sul quotidiano Il Riformista
Non vi sono dubbi che il nuovo governo abbia tra le proprie sfide quella di muoversi con equilibrio tra continuità e discontinuità. Soprattutto in materia di gestione dell’emergenza. Non per ragioni di preferenza soggettiva del Premier, ma per ragioni politiche. Come direbbero i politologi, l’ampia maggioranza che sostiene il governo trova, infatti, uno dei propri cleaveges, delle proprie linee di divisione proprio nell’atteggiamento da assumere rispetto alla passata gestione. E non c’è dubbio che, soprattutto, in questi primi giorni, le difficoltà di trovare un equilibrio tra continuità e discontinuità siano amplificate dall’urgenza di provvedere che non consente grandi margini di manovra.
C’è da augurarsi, infatti, che, col tempo, man mano che il profilo dell’indirizzo politico del nuovo esecutivo acquisterà la sua più definita identità, il tema del confronto con il passato diventi sempre più recessivo. Perché questa è una delle scommesse: disincagliarsi dal fantasma del passato utilizzato come strumento di una dialettica logorante all’interno maggioranza.
Mario Draghi ha già sminato con equilibrio la prima insidia apparsa sul suo cammino ancor prima di ottenere la fiducia delle Camere. Allorché, con un provvedimento a dir poco intempestivo, il ministro Speranza, una domenica, letteralmente “dalla sera alla mattina”, ha gelato le attese dei tanti operatori pronti a riaprire le piste sciistiche e dei tanti clienti già in albergo in vista dell’inizio della settimana, l’indomani mattina.
Il premier si è scusato e, a quanto si legge dai giornali, anche nelle ultime ore ha ribadito che i cittadini non sono dei sudditi cui calare dall’altro le scelte di presunti sovrani illuminati. Uno stile che non può non essere apprezzato e cui difficilmente può negarsi l’attributo della discontinuità. Adesso però si tratta di accompagnare allo stile il metodo.
Al momento in cui scriviamo, sappiamo, sempre dai giornali (e dalle parole del Ministro Speranza al Senato), che Mario Draghi si starebbe orientando, almeno per questa volta, a ripercorrere la strada dell’emanazione di un DPCM, alla scadenza del precedente, per disporre le nuove misure anti-Covid. E’ una scelta di metodo che, invece, finirebbe oggettivamente per inquadrarsi nel segno della continuità. Ma è proprio necessario?
Certo potrebbe trattarsi, anche in questo caso, di una situazione necessitata dalla circostanza che il governo si è appena insediato e non c’è stato il tempo di elaborare una strategia adeguata per segnare un cambio di passo. Potrebbe essere cioè l’ultimo tassello di un vecchio mosaico. Già questa sarebbe una buona notizia.
Ma se effettivamente così accadesse, la giustificazione andrebbe ricercata probabilmente più in una necessità politica che tecnico-costituzionale.
La necessità politica sembra quella di evitare scossoni proprio sul crinale del difficile equilibrio tra continuisti e discontinuisti. Un passaggio intermedio, non il suggello di una prassi che così tanti dibattiti ha destato in questi mesi nell’opinione pubblica e tra gli addetti ai lavori. Persino molti di coloro che in passato si sono dimostrati benevoli verso le scelte governative sugli strumenti d’emergenza oggi riconoscono che, dopo un anno, l’emergenza somiglia sempre di più ad una situazione “diversamente ordinaria” e che dunque anche gli strumenti andrebbero ripensati.
Sul piano tecnico-costituzionale, infatti, sfuggono le ragioni per le quali la prassi dei DPCM dovrebbe continuare a perpetrarsi. La Costituzione, è stato detto tante volte, prevede uno strumento specifico per fronteggiare le emergenze. Uno strumento che, rispetto ai DPCM, presenta per lo meno sei vantaggi, senza che vi possa essere alcuno svantaggio (a meno di non considerare tale, la necessità conversione entro 60 giorni da parte dei Parlamento).
Il primo vantaggio è il più evidente. Esso è previsto dalla Costituzione, mentre questi DPCM sono stati un’invenzione di cui non si sentiva gran bisogno. Tanto che la stessa giurisprudenza amministrativa non sa nemmeno bene come qualificarli.
Inoltre il Decreto-legge è un atto collegiale del Governo, che soprattutto nel contesto politico attuale coinvolge la corresponsabilità delle forze politiche che sostengono la maggioranza anche attraverso i propri ministri. Il decreto-legge è, inoltre, emanato dal Presidente della Repubblica, consentendo formalmente al Capo dello Stato di esercitare quel controllo interlocutorio che la Costituzione gli riconosce persino nei confronti della legge del Parlamento.
Inoltre il decreto-legge può essere sottoposto al controllo del supremo organo di garanzia costituzionale che è la Corte costituzionale e potrebbe essere anche sottoposto al controllo politico dei cittadini attraverso il referendum.
Infine, ma non da ultimo, il decreto-legge dev’essere convertito dalle Camere, consentendo ai rappresentanti dei cittadini di valutare ed eventualmente modificare le scelte dell’esecutivo. Soprattutto nella circostanza attuale, di un governo istituzionale senza formula politica prestabilita, un tale controllo appare particolarmente cruciale. E più volte auspicato dallo stesso Premier.
Per il resto, il decreto-legge non presenta alcun inconveniente da cui sia immune il DPCM. Anch’esso, come quest’ultimo, entra immediatamente in vigore e nulla impedisce al governo di in-formare preventivamente il Parlamento sull’andamento della situazione epidemiologica che lo spingerà ad adottarne uno. Inoltre, mentre il decreto-legge è comunque sempre modificabile, a differenza del DPCM non ha una data di scadenza, non costringe il governo a infilarsi nell’imbuto della sua riedizione allo scadere dei fatidici 45 giorni.
Certo il DPCM non richiede che formalmente sia convocato il Consiglio dei Ministri per approvarlo. Ma risulta difficile credere che un Premier come Draghi, per il suo stile e per il senso della collegialità dimostrato, possa considerar questo un vantaggio su cui lucrare. Non è proprio il tipo da conferenze stampa su Facebook.
Insomma, non sappiamo come andrà a finire questa volta. Ma, in prospettiva, un ritorno alla Costituzione sarebbe veramente il segno, simbolico e politico, che lo stile si consolida nei gesti e nel metodo e soprattutto che il tema della continuità/discontinuità non è più un fantasma del quale i partiti possano cibarsi per nascondersi dietro alibi polemici, fuggendo dalle proprie responsabilità.