Brexit, un seminario on line
LeoniBlog ospita oggi una prima parte di commenti su Brexit, scritti da studiosi italiani e stranieri che, dalla prospettiva delle loro competenze e dei loro studi, possono aiutare a comprendere aspetti singoli e implicazioni particolari rimasti all’ombra dei pareri e delle reazioni di questi giorni.
Una seconda parte del «seminario on line» verrà pubblicata martedì prossimo.
Il Regno Unito deve affrontare un difficile problema, non dissimile da quello con cui dovranno venire alle prese diversi paesi del Continente. Il referendum sulla Brexit non ha fatto che metterlo in evidenza.
In generale non amo le espressione “di sinistra” e “di destra”, ma in questo caso le utilizzerò per indicare rispettivamente chi crede in un’economia pianificata dal centro e chi sostiene in libero mercato.
Grosso modo, i parlamentari britannici (MP) di destra sono abbastanza rappresentativi dei propri elettori. Questo vale tanto per la questione della Brexit, quanto per altre materie (il grado di conservatorismo sociale, la convinzione con cui auspicano imposte più basse e meno regolamentazione, e via dicendo). Le opinioni degli elettori che hanno scelto la Brexit sono straordinariamente variegate. Alcuni di questi elettori sono liberisti, internazionalisti sostenitori del libero scambio e della libera immigrazione. Altri sono più vicini al mainstream Conservatore. Vi sono infine i nazionalisti, chiaramente avversi all’immigrazione. Anche in questo caso, gli elettori Conservatori che hanno scelto la Brexit tendono ad avere un ventaglio di opinioni simili a quelle dei parlamentari che li rappresentano.
Tuttavia il voto sull’Unione Europea è stato perso per il fronte del “Remain” sostanzialmente a sinistra e il referendum ha messo in evidenza il completo distacco tra gli elettori di sinistra (in particolare laburisti) e i loro rappresentanti. Solo una percentuale minima degli MP laburisti ha votato a favore della Brexit, a differenza di una enorme parte dei rispettivi elettori. Sospetto che un divario non diverso separi I parlamentari Laburisti dai loro elettori anche in materia di immigrazione.
Questa è la spiegazione dell’evidente caos che possiamo osservare nel partito Laburista, per il quale non vi sono soluzioni evidenti. Gli elettori Laburisti contrari all’immigrazione potrebbero finire col riversare I loro voti sull’UKIP, mettendo questo partito in una posizione analoga a quella del Fronte Nazionale in Francia (sostanzialmente, un partito socialista contrario all’immigrazione). Altri ritengono che assisteremo ad un profondo riallineamento del panorama politico britannico, producendo un partito “liberale” globalista e un partito illiberale anti-globalista. Quale configurazione assumeranno gli schieramenti politici è difficile da immaginare in un sistema elettorale in cui i partiti più piccoli (a meno che non si tratti di partiti regionali) devono affrontare enormi ostacoli per affermarsi.
Se c’è una cosa di cui possiamo essere sicuri, tuttavia, è che per la sinistra la vita sarà piuttosto difficile. Per giunta, è improbabile che gli elettori tendenzialmente socialisti e anti-immigrazione vedano la loro voce rappresentata in Parlamento. Questo rende il Regno Unito decisamente diverso dagli altri paesi europei, in cui la sinistra socialista e la destra socialista stanno spodestando i partiti tradizionali.
Philip Booth
Philip Booth è Professore di Finanza, Politiche Pubbliche ed Etica presso la St. Mary’s University a Twickenham, nel Regno Unito e Direttore delle Ricerche dell’Institute of Economic Affairs di Londra.
ll primo insegnamento di Brexit è che non si mette in mano alla democrazia diretta la possibilità di decidere su questioni centrali per la definizione dell’identità nazionale senza un adeguato sistema di controlli e bilanciamenti. Non si tratta di un’affermazione anti democratica. Al contrario, di riconoscere che le motivazioni degli elettori sono diverse e non compatibili con la semplificazione imposta dalla struttura della consultazione referendaria e che la tutela delle minoranze è un tratto saliente del processo democratico, tanto più in decisioni così importanti.
Il secondo insegnamento è scritto nei numeri del voto. A parte alcuni miei amici libertari e un manipolo di Lord nostalgici dell’Impero, motivati da snobismo intellettuale, secondo il Financial Times hanno votato Leave soprattutto le persone meno istruite e non in possesso di passaporto. Leave ha anche prevalso nelle aree meno prospere del Paese e tra le persone più anziane. Queste associazioni statistiche non sono nuove: nella recente elezione per il sindaco di Londra, per esempio, Britain First — un partito di estrema destra — ha riscosso maggiori consensi nei quartieri dove meno persone hanno il passaporto.
Quindi, nessun parallelo con i coraggiosi aviatori della RAF che ingaggiarono le armi sui cieli della Manica o con i baroni che costrinsero Re Giovanni a firmare la Magna Carta per controllare il potere centrale, please. Hanno chiuso le porte all’Europa gli emarginati dalla globalizzazione, gli impauriti dall’immigrazione, gli oppressi dalla stagnazione della produttività e, paradossalmente, i beneficiari dei trasferimenti comunitari, manifestando preferenze politiche stabili.
Resta la domanda sull’Europa che vogliamo. L’UE spende troppo e non ha controllo sulla qualità della spesa poiché ai Mandarini di Bruxelles non conviene. Questa spesa foraggia interessi particolari senza garantire la coesione sociale. Il progetto europeo deve recuperare l’ethos di libertà che ha forgiato l’Europa moderna tra i canali di Amsterdam, alla fine del ‘600, e nei caffè di Londra, alla fine del ‘700. Un ethos che promuove la realizzazione personale e la dignità del perseguimento della prosperità materiale e immateriale attraverso l’eguaglianza delle opportunità e regole uguali per tutti. L’ethos respirato a Londra negli ultimi vent’anni.
Nonostante Brexit, dovremo continuare a parlare inglese. C’è bisogno di essere ottimisti, proprio perché oggi abbiamo meno ragioni per esserlo.
Sebastiano Bavetta
Professore di economia politica, Università di Palermo
Dopo il voto pro Brexit, e su un piano più di fondo rispetto al negoziato che si aprirà, segnalo quattro nodi.
1. Ripercorrendo a ritroso il 2015, e riconoscendo gli errori del Governo Cameron, risulta tuttavia imperdonabile la scelta di Bruxelles (e dei governi: da Berlino a Parigi, passando per Roma, che sarebbe stata la più interessata a un esito diverso) di gestire al ribasso la rinegoziazione con il Regno Unito, prima del referendum. Quella trattativa non doveva essere vissuta come l’occasione di “concedere” o “negare” qualcosa a Londra, ma come l’opportunità storica di modificare regole e trattati. Non lo si è fatto, si è stati miopi e ingenerosi, e gli elettori inglesi hanno emesso il loro responso.
2. Ora, dentro l’Ue, si confronteranno due visioni. Da un lato, chi proporrà, fedele alla solita euroretorica, uno “scatto”. Il problema è che tale scatto sarebbe – temo – nella direzione sbagliata, quella del famigerato documento dei cinque Presidenti: ministro delle finanze unico Ue, ulteriore armonizzazione, eccetera. Occorre organizzare la visione opposta: di chi dice no a tutto questo, e vuole più competizione (in primo luogo fiscale) tra territori. Per dare all’Ue un futuro credibile, non si può scegliere (ancora) una camicia di uniformità imposta dalla Finlandia al Portogallo, ma si deve puntare su un sistema elastico e flessibile, che attribuisca ai Parlamenti nazionali un potere di opt-out su ciò che giunge da Bruxelles, e la possibilità di aderire ai programmi Ue condivisi e di astenersi da quelli non condivisi.
3. Occorre prendere come bussola il discorso della Thatcher del 1988 a Bruges. Bisogna puntare a una “willing cooperation between sovereign states”, e soprattutto rivolgere l’attenzione non tanto agli “institutional tools”, quanto piuttosto alla volontà politica sottostante. Occorre far crescere le posizioni a favore del mercato, del ridimensionamento del “pubblico”, della promozione di libertà e democrazia: le istituzioni sono mezzi attraverso cui realizzare questi obiettivi, non il contrario.
4. Anche gli inglesi (from the outside: anzi, auspicabilmente, dentro il mercato comune, ma fuori dall’Ue) hanno interesse a questa dinamica. Perciò mi auguro che in particolare il mondo conservatore valorizzi strategicamente l’AECR, l’alleanza dei partiti e movimenti liberalconservatori, come strumento per la crescita in tutta Europa di quella volontà politica e di un network pro-libertà e pro-mercato.
Daniele Capezzone
Deputato Conservatori e Riformisti
Brexit è un guaio nei tempi medi. Nei tempi lunghi nuove generazioni riporteranno il Regno Unito (quel che ne resterà) nell’Unione. Quel che ne resterà perché la Scozia è sul piede di partenza e quanto al Nord Irlanda si vedrà. In entrambi i casi ci potranno essere complicazioni. E poi potrebbero esserci effetti in altri contesti: penso ovviamente alla Catalogna (una Scozia bis?). Ci sono tante piccole patrie in Europa vogliose di far da sé: un fenomeno in sé non negativo, alimentato dalla comune appartenza all’Unione, ma difficile da gestire.a
Quanto ai 27, l’indebolimento è grave: politico, militare, finanziario, economico. Andrà sostituita l’adesione di UK con altre forme di collaborazione, nuove e già in essere da rafforzare. Ma non sarà la stessa cosa. Il bilanciamento liberale garantito dal Regno Unito ci mancherà, o meglio mancherà ai liberali europei. Sarà il trionfo senza contrappesi del modello franco-renano-italiano, più omogeneo di quel che appare. A quel modello le iniezioni di liberalismo fanno venire l’orticaria e le subisce solo se e quando non ne può fare a meno. Spero almeno che prevalga la componente renana, comunque la più dinamica, ancorché corporativa assai. Il pericolo per l’Italia sarebbe appoggiarsi troppo alla Francia la cui pesantezza burostatalista si sposa a un sindacalismo anni Settanta in un mix dal quale dovremmo, se mai, scappare (ne siamo la versione sbrindellata, per fortuna in lento ridimensionamento).
Non ho strade da suggerire. Ci siamo incartati: la strada della più Europa è preclusa da tendenze oggi travolgenti dell’opinione pubblica, difficili da contrastare, e che non hanno raggiunto l’apice. Ed è inutile parlare di errori di questo o di quella.
La vedo così: un continente invecchiato e stanco, ma prospero, si rivela (non sorprendentemente) incapace di reggere le dosi di cambiamento che il contesto esterno gli impone. Crisi economico-finanziaria, terrorismo, immigrazione, emergenza rifugiati lo mostrano. Pezzi interi delle nostre società sono sull’orlo permanente di una crisi di nervi. Di qui la fuga, in sé irragionevole, verso un sovranismo nazionale che non potrà funzionare e che promette solo guai. Allora, temo, sarà necessario volare bassi, tener duro sui fondamentali, evitare di sfidare pubbliche opinioni oggi riottose davanti ad argomenti razionali: e lasciar passare la nottata. Il giorno verrà. Quando, non so.
Carlo Fusaro
Professore di diritto pubblico comparato, Università di Firenze.
17.410.742. Non era mai accaduto che un numero tanto elevato di elettori britannici si fosse espresso in favore di una qualsiasi questione. Si tratta del numero di elettori che la settimana scorsa si è espresso in favore dell’uscita dall’Unione Europea. Questi 17 milioni e passa di elettori ha votato contro il Primo Ministro, il Cancelliere dello Scacchiere (il ministro del Tesoro), I leader del Partito Laburista e del Partito Liberal Democratico e persino contro le raccomandazioni del Presidente Obama, del cancelliere Merkel e del capo del Fondo Monetario Internazionale, per non parlare delle schiere di esperti e di celebrità messi in bella mostra per convincerci a votare all’unanimità per la UE. In effetti si può dire che il Popolo britannico abbia votato contro l’Establishment. Ma a favore di cosa ha votato?
L’Unione Europea è un progetto ispirato al razionalismo politico, un progetto inaudito mirante a unificare 28 nazioni diverse, prive di una lingua, una storia, e tradizioni o istituzioni economiche comuni. È diretta da una burocrazia che, per ammissione dei suoi stessi sostenitori, è lontana dai governati, arrogante e antidemocratica. Le riforme che, a detta di tutti, sono necessarie non si concretizzano. Al contrario, il controllo delle nostre vite da parte dell’Unione Europea viene rafforzatoe sempre più centralizzato, a dispetto degli evidenti fallimenti che questo sistema ha prodotto in questioni come l’euro, l’immigrazione e le dispute sui confoni interni.
Per giunta, dal punto di vista britannico, il metodo razionalistico adottato dalla UE per venire alle prese con le più fondamentali questioni politiche e legali è profondamente diverso dalla nostra concezione, vecchia di 800 anni, della libertà del concetto di rule of law. Una Corte Europea che non deve rispondere a nessuno ci dice quel che possiamo fare e quel che ci è proibito in materia di diritti umani e in innumerevoli altri campi. Molte delle leggi alle quali dobbiamo obbedire provengono da Bruxelles e non sono decise dal nostro Parlamento: la legislazione sull’IVA, sull’edilizia, sulle prove cliniche dei farmaci, sull’ambiente, sugli orati di lavoro e persino sulla possibilità di deportare criminali stranieri, solo per prendere alcuni esempi recenti. Perfino le leggi approvate dal nostro Parlamento, il più antico del mondo, devono passare l’esame dell’Unione Europea al fine di garantire che si conformino alle direttive dell’UE.
Votare per la Brexit ha significato ribadire il controllo democratico del popolo britannico. L’immigrazione ha giocato un ruolo in questo, perché da una quindicina di anni il nostro paese ha visto l’arrivo di enormi ondate di immigrati (mezzo milione solo l’anno scorso) in un’isola piccola e già sovraffollata. Ma la questione non è se la Brexit sia stata un voto contro l’immigrazione o se I suoi sostenitori fossero xenofobi. Molto di noi sono a favore dell’immigrazione e amano l’Europa e il resto del mondo. La questione consiste semplicemente nel riprendere il controllo del nostro paese, non solo dei suoi confini, ma della vita della nazione nel suo complesso.
Prima che la Gran Bretagna entrasse in quella che all’epoca era la Comunità Economica Europea, nel 1973, il grande Charles De Gaulle ci aveva detto che il Regno Unito non si sarebbe mai trovato a suo agio in quell’”Europa”. Aveva ragione. Fin da quel 1973, tra noi e I nostri partner europei vi sono stati attriti continui e improduttivi. La situazione dei 27 paesi restanti dell’Unione Europea sarà molto migliore senza di noi e potrà continuare quello che è sostanzialmente il loro progetto. E anche noi ci troveremo meglio riguadagnando la nostra indipendenza, in amicizia con il resto d’Europa ma anche con gli occhi e I nostri cuori aperti al resto del mondo, agli Stati Uniti, all’India, all’Africa e all’Estremo Oriente, per non parlare dell’America latina e dei nostri partner del Commonwealth.
Anthony O’Hear
Professore di filosofia, University of Buckingham
Nel caso Brexit stiamo assistendo alla narrazione che tende a essere quasi un fatto a sé stante.
Ciò rende utile tornare ai fatti e soffermarsi su alcune conseguenze possibili in termini economici e finanziari, in particolare quelle di breve periodo. Forse in questo contesto gli unici tentativi di previsione razionalmente affrontabili.
Vi sono a mio avviso due meta meccanismi che tendono a influenzare il quadro complessivo e gli eventi specifici.
In primis, gli effetti saranno altamente dipendenti dai meccanismi di azione-reazione progressivamente indotti negli attori politici ed economici, in una sorta di “gioco” a più stadi, ove l’equilibrio a T+1 è altamente dipendente da quello verificatosi in T. E’ la dinamica della negoziazione politica multilaterale, dove i costi di transazione aumentano e i giochi a somma zero (se e dove si sposterà il principale financial center europeo), quando non a somma negativa (”facciamogliela pagare agli inglesi”), potrebbero anche prendere il sopravvento.
In secondo luogo, al centro delle aspettative si installa la politica, intesa come azione discrezionale pubblica locale e internazionale. I mercati nel breve dipenderanno molto – ancor più di prima – da queste decisioni e dalle relative aspettative.
Il combinato disposto delle due dinamiche diminuisce la prevedibilità degli eventi di breve-medio periodo, perché questi tendono a dipendere da catene di azioni discrezionali e condizionate, non necessariamente e sempre trasparenti.
In questo contesto abbiamo una sola granitica convinzione, se non certezza.
La liquidità mondiale – iniettata da tutte le principali banche centrali del mondo – non mancherà di certo. Si allontana nel tempo ogni significativo aumento dei tassi americani – unica ancora di normalizzazione in vista – il QE, ammesso che abbia una reale scadenza, potrebbe essere prolungato, l’era dei tassi negativi estendersi, non solo come reazione immediata.
L’illusione della liquidità come medicina ne uscirà rafforzata, l’exit strategy ne potrebbe venire ulteriormente complicata.
Più liquidità e più politica sono alla base dell’aumento della volatilità dei mercati finanziari, che osserviamo e osserveremo.
Se la volatilità aumenta, i rischi ne sono amplificati, i capitali sempre pronti a muoversi da un punto all’altro del sistema.
In sintesi, il mondo dei prossimi 6/12 mesi sarà “più politico”, quindi più incerto.
Andrea Battista
Amministratore delegato, Eurovita
Nel commentare i risultati di un referendum i cui effetti coinvolgono in profondità la realtà in cui viviamo, ognuno di noi non ha che da offrire una visione parziale e limitata di ciò che più ci ha colpiti, interessati o infastiditi.
Mi ha colpito la differenza con cui l’opinione pubblica ha trattato il voto della Brexit rispetto a quello della Grexit, meno di un anno fa. Naturalmente le condizioni dei due paesi al momento del voto erano diverse, così come diversi erano i quesiti proposti agli elettori. Se il quesito proposto ai cittadini del Regno Unito era piuttosto chiaro (restare o meno nell’Unione Europea), quello proposto ai greci era in qualche modo più subdolo. I creditori internazionali avevano proposto un piano di rientro in cambio del proseguimento del supporto finanziario, con la formula prendere o lasciare. I greci decisero di lasciare.
Non ricordo, nel caso Grexit, un clamore paragonabile a quello a cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, da parte di commentatori illuminati, contro la scelta scellerata di Alexis Tsipras di consultare il popolo su una questione tanto delicata. Ricordo piuttosto l’entusiasmo di tanti (premi Nobel inclusi, vedi qui Stiglitz), prima del voto, per la possibilità che veniva data al popolo greco di sottrarsi alla diabolica austerità, e la soddisfazione di tanti altri, dopo il voto, per il cambiamento che il popolo aveva reclamato a gran voce. Non mi sembra che, da allora, molto sia cambiato in Grecia.
È lecito presumere invece che diverse cose cambieranno dopo il voto in Gran Bretagna, se non altro perché da quelle parti la legittimità popolare parrebbe una questione seria, diversamente da quanto accade per le istituzioni dell’Unione, che di quella legittimità non si sono mai preoccupati.
Purtroppo è altrettanto lecito essere preoccupati che cambieranno in peggio (per coloro che hanno a cuore la libertà delle persone), a giudicare dalle reazioni in corso da entrambi i lati della Manica.
Quel che più mi preoccupa è la tensione che si sta già manifestando tra diversi rappresentanti di poteri enormi che saranno, nel futuro prossimo, presumibilmente separati.
In principio, non serve l’Unione Europea per avere un’Europa pacifica in cui capitali, merci, idee e persone si possano muovere liberamente. In realtà, però, senza l’una non ci sarebbe stata neanche l’altra. Speriamo che questo non sia altrettanto vero per il futuro. Nel frattempo, per favore, non diamo la colpa a Cameron.
Paolo Belardinelli
Research fellow, Istituto Bruno Leoni
Se è ancora presto per ipotizzare le conseguenze ‘politiche’ della Brexit, su quelle strettamente commerciali c’è già, purtroppo, una certezza: non saranno buone notizie.
Non lo saranno, innanzitutto, per il Regno Unito. Alcuni ricercatori della London School of Economics hanno calcolato gli effetti della Brexit tenendo conto della perdita dei (soli) vantaggi comparati derivanti dall’appartenenza al mercato unico, e li hanno quantificati in una contrazione del reddito nazionale pro-capite compresa tra l’1.2 e il 2.6%. Ciò significherebbe che il reddito annuale medio di ciascuna famiglia britannica diminuirebbe di una cifra oscillante tra 850 e 1.700 sterline. E si tratta di stime prudenti, perché non tengono in considerazione tutti i benefici indiretti del mercato unico.
L’Unione Europea, da questo punto di vista, potrebbe beneficiare della necessaria ricollocazione di numerosi headquarters del settore finanziario sul continente: così come i servizi finanziari sono sempre restati fuori dagli accordi con la Svizzera, è assai improbabile che l’Ue faccia sconti al Regno Unito, Londra compresa. Ma si tratterebbe di un misero ‘contentino’ rispetto a una conseguenza commerciale ben più seria (e anche più probabile): la fine del Ttip. Il premier francese Valls l’ha detto chiaramente qualche giorno fa, e sarebbe difficile immaginare un esito differente: sia perché le negoziazioni sul Ttip rappresentano nell’immaginario collettivo la faccia più antidemocratica dell’Ue, sia perché il Regno Unito era il maggiore sostenitore dell’accordo, sia infine perché ogni sforzo, nei prossimi mesi, sarà presumibilmente concentrato a tessere nuovi rapporti commerciali con lo stesso Regno Unito.
Si tratta di una gigantesca occasione persa, non solo per la mancata conclusione dell’accordo, ma soprattutto per le caratteristiche dell’assetto futuro dei rapporti commerciali tra Ue e Stati Uniti. Con ogni probabilità, infatti, qualunque nuovo accordo – che dovrà inevitabilmente essere sottoscritto, a prescindere dal nome e dal grado di ambizione – sarà orientato (ancor di più) verso la progressiva armonizzazione delle normative esistenti, più che verso la deregolamentazione dell’economia, di cui l’unico parziale sponsor all’interno dell’Ue era, appunto, il Regno Unito.
Giacomo Mannheimer
Research fellow, Istituto Bruno Leoni
E se invece non si trattasse affatto di una catastrofe?
Cosa è messo effettivamente in discussione dalla Brexit?
Non la Nato. Anzi, con la Brexit, la Nato si manifesta ancora una volta come la principale e la più inclusiva organizzazione politica della parte d’Europa in cui la democrazia è meno fragile. E (la Nato) si manifesta anche la più realistica organizzazione politica di quest’area, dacché per statuto si confronta con il problema costitutivo della politica: la gestione ed il controllo di una misura rilevante di forza fisica legittima.
La Brexit, di per sé, non mette in discussione neppure un mercato comune europeo, almeno nella misura in cui – ad esempio – anche la Norvegia ne è parte; mercato comune come spazio di sufficientemente libera circolazione di persone, beni e capitali.
La Brexit, ultimo esempio, non mette in discussione neanche la inclusione dell’Europa democratica in quello spazio giuridico globale entro e per mezzo del quale il diritto sta avendo una rivincita sulla legge dello stato persino nella provincia europeo-continentale.
Semmai la Brexit mette in discussione il progetto-Bruxelles, ovvero l’alterazione (sconfitta e discutibile) del ben differente intento con cui era sorta la CECA, sarebbe dovuta sorgere la CED, e che aveva avviato la vicenda piena di successi e di contraddizioni che ha portato alla attuale UE. La CECA nacque come superpower che limitava, per la prima volta nel loro stesso bacino di cultura (l’Europa continentale centro-occidentale), gli stati ed il loro progetto di sovranità. La vicenda non scorse liscia e dritta e se, ad un certo punto, anche il Regno Unito era entrato nella partita, per bocca di un suo premier (T. Blair) era stato ribadito la UE stessa doveva ancora scegliere in modo definitivo tra il modello super power e il modello super state.
“Bruxelles” è il nome in codice del processo di riduzione dell’Europa alla UE (e perché no?), ma anche del progetto di farlo adottando lo schema di un super (nelle pretese) state, comunque di uno state. Che questo progetto non fosse desiderabile, che fosse più feconda e provvida la intuizione poliarchica ed eterarchica di Schumann, Adenuer e De Gasperi, può essere materia di discussione (per quello che conta questa è l’idea dello scrivente), ma che questo progetto-state sia in enormi difficoltà è evidente da ben prima della Brexit. (Si pensi alla sorte dei referendum nazionali sul trattato costituzionale). In ogni caso, il recentissimo referendum britannico sembra aver solennemente proclamato questa sentenza.
Ora, però, il problema è se entro l’ambito idealmente definito (per fare solo i tre esempi di prima) da una parte dalla Nato e dell’altra dal mercato comune e dallo spazio giuridico globale, invece di darsi un solo tipo di network politico di livello meso (la UE di “Bruxelles”), dato che questa insiste a voler essere super (si fa per dire) state, se ne danno due: UK e UE.
Persino nella “prima repubblica” italiana c’erano Regioni amministrative di due (o meglio di tre) tipi diversi. In tempi di incerti e profondi mutamenti, conservare entro l’Europa la varietà delle istituzioni politiche è di grande valore, soprattutto se quella che rischiava di andar persa era – per non dire altro – la più compatibile con il paradigma della global governance.
L’ipocrisia del progetto “Bruxelles” è stata svelata dopo essere stato tante volte sconfitto. Berlino, Parigi (se ancora può), altre (se verranno ammesse), provino ora a farsi un loro stato. (Certo, non sarà come come assorbire i laender ex DDR.) L’alibi inglese non coprirà più i fallimenti di una idea che resta vecchia anche se tornata di moda. Non facciano però la guerra a Londra, e lascino stare la Scozia. Magari, un regime di cooperazione-competizione farà bene alla qualità ed alla capacità di innovazione politica tanto di UE quanto di UK.
Luca Diotallevi
Professore di sociologia, Università di Roma Tre
Uk bye,bye:se ne vanno gli europeisti “a la carte”; nessun rimpianto. TTP rimandato alle calende (cancellato): una buona notizia x la democrazia. Liberisti,Globalisti, Rigoristi, Mercatisti di tt le fogge e colori sotto shock e inconsolabili vedovi del Modello Anglosassone che fu. Più Modello Renano,più Keynes, più regolamentazione dei mercati,più manifattura (e meno finanza),più sovranità nazionale,più diritti x i lavoratori. Ottimo.
Povero illuso Carlo… Semmai quelli che se ne vanno (dall’Italia socialista e catto comunista che affonda) sono quelli più capaci e intraprendenti. E guarda caso se ne vanno in Inghilterra, in USA… Cioè nella patria del liberismo…
“Più modello renano, più Keynes”? Ah, perché non ce n’erano già abbastanza? Forse sei uno di quelli convinti che tutti i nostri mali derivino da eccesso di liberismo? Con il 50% del PIL italiano intermediato dallo Stato? Forse quando arriveremo all’80% (e il debito pubblico al 200% del PIL) ti sveglierai anche tu.
Carlo,
una volta, i troll, erano piu’ intelligenti 🙂