Brava la Guidi, togliamo l’Irap e stimoliamo la competizione fiscale
(anche su Libertiamo.it)
Non si può nascondere una punta di soddisfazione nel sentire Federica Guidi scegliere, tra le proposte di policy che i Giovani di Confindustria hanno lanciato alla politica, una misura che l’Istituto Bruno Leoni aveva inserito un anno fa nel Manuale delle Riforme per la XVI legislatura: l’eliminazione dell’imposta regionale sulle attività produttive – l’Irap, l’imposta rapina – attraverso la sua “scomposizione” in due diverse componenti. Se quella del Manuale era una rivisitazione di un’intuizione di Francesco Forte, quella di Federica Guidi ne è una versione molto concreta e – se si volesse – facilmente attuabile. Le buone idee circolano, insomma.
La proposta, nei suoi caratteri generali, è quella che segue. A parità di gettito, le due componenti che sostituirebbero l’Irap sarebbero: la prima, un’addizionale dell’imposta sui redditi d’impresa, modificabile a discrezione delle Regioni entro una forchetta di alcuni punti percentuali; la seconda, un contributo sanitario regionale a carico dei soggetti che oggi sopportano l’Irap, detraibile dalla base imponibile Ires come costo di produzione.
L’addizionale Ires in sostituzione dell’Irap permetterebbe, finalmente, di eliminare quell’astruso meccanismo di imposizione del costo del lavoro e degli interessi passivi, che fa pagare le tasse anche alle imprese in perdita. In più, si stimolerebbe una concorrenza fiscale virtuosa tra le diverse Regioni: nel Manuale, avevamo proposto un’addizionale del 5 per cento, con un forchetta di 2 o 3 punti; potenzialmente, ciò potrebbe portare fino a 6 punti di differenza nel carico Ires tra la Regione più virtuosa e quella più spendacciona. In tempi di federalismo fiscale in fieri, quale migliore occasione per responsabilizzare le Regioni? La legge-delega sul federalismo fiscale che il Parlamento ha affidato al Governo, d’altro canto, prevede espressamente l’abolizione dell’Irap. Se non si vuole che la sua soppressione si traduca in una riduzione del livello di autonomia fiscale e finanziaria delle Regioni, è bene affidare il finanziamento della sanità alle amministrazioni regionali stesse, “condannandole” ad una maggiore responsabilità e ad una più decisa tensione competitiva. Chi saprà offrire una sanità efficiente con un costo più contenuto, potrà ridurre l’Ires ed attrarre investimenti, a danno delle Regioni meno virtuose.
L’istituzione di un contributo sanitario regionale (pro capite, per dipendente) permetterebbe di non escludere dalla nuova forma di tassazione i soggetti Irap non tenuti al pagamento dell’Ires, in primis le pubbliche amministrazioni. Così come per l’addizionale, anche con il contributo sanitario si stimolerebbe la competizione tra territori: le Regioni più capaci di ridurre le spese inutili e gli sprechi veri e propri riuscirebbero a ridurre il carico contributivo delle imprese.
Particolarmente interessante è la possibilità, che Federica Guidi ha richiamato nel suo intervento, che le imprese portino in detrazione dal contributo sanitario le eventuali polizze sanitarie stipulate per i propri dipendenti. Come ha rilevato la presidente dei giovani industriali Guidi, “oltre a favorire lo sviluppo della sanità privata, tale possibilità contribuirebbe alla modernizzazione del modello di relazioni industriali italiane”. La polizza sanitaria entrerebbe a pieno titolo nel gioco della contrattazione tra imprese e sindacati, favorendo uno spostamento del baricentro della contrattazione verso il livello più basso, l’azienda. Si consentirebbe ai lavoratori, come ha sottolineato Guidi, “di riappropriarsi di pezzi del proprio reddito”.
Le luci sono tante, ma non mancano le ombre e le incognite. E’ bene sottolineare che l’eventuale detrazione delle polizze sanitarie dal contributo sanitario rappresenterebbe una sfida tanto importante quanto rischiosa per il governo della sanità regionale. Se è ragionevole pensare che la promozione delle polizze sanitarie aziendali sposterebbe una porzione (limitata probabilmente, ma non per questo non significativa) della domanda sanitaria verso il privato, è altrettanto plausibile temere che l’offerta sanitaria pubblica non riesca automaticamente a ridursi di conseguenza, stante la sua strutturale rigidità. Il passaggio da un sistema all’altro, insomma, richiederebbe – da parte della classe dirigente regionale, sul fronte politico come su quello dirigenziale – uno sforzo rilevante, possibile solo grazie ad un radicale cambio di mentalità e di prospettiva.