9
Ago
2010

Bp, la regolamentazione, e l’eterogenesi dei fini

I cittadini del mondo vogliono più regolamentazione. Nel senso che la larga maggioranza delle persone interpellate in un ampio sondaggio di cui dà contooggi il Financial Timescredono che il disastro del Golfo del Messico dimostri che la regolamentazione delle perforazioni in acque profonde non è sufficiente. In media, chiedepiù norme e più strette circa l’80 per cento del campione, con punte in Italia, Spagna e Francia superiori al 90 per cento. Bizzarramente, la domanda di regolamentazione è molto più alta dell’effetto reputazionale che l’incidente ha avuto su Bp, ossia la compagnia che l’ha causato: se è comprensibile che i due terzi degli americani abbiano maturato un’opinione negativa sul gruppo, lascia di stucco che solo il 33 per cento dei britannici abbia avuto la stessa reazione (va detto che “solo” il 73 per cento di loro vuole più regolamentazione). E’ una coincidenza curiosa, ironica e triste al tempo stesso, che questi risultati (i cui effetti politici si sono immediatamente manifestatianche in Italia) arrivino mentre aumenta l’evidenzasulle responsabilità di Bp e dei suoi subcontractors: il personale a bordo della Deepwater Horizon era inadeguato. Come mettere assieme i cocci?

Abbiamo, infatti, due aspetti diversi e sghembi. Da un lato, c’è la realtà di quello che è accaduto: un incidente che, se per un verso è comunque un’eventualità della vita (shit happens), per l’altro è spiegabile, almeno parzialmente, guardando alla cultura aziendale di Bp (come ho cercato di spiegare a suo tempo sul Foglio e come viene ulteriormente illustrato in una serie di postsu MasterResource). A farne le spese è soprattutto il Ceo uscente di Bp, Tony Hayward, che a ottobre abbandonerà la sua posizione nel disonore e tra i fischi consolato solo da una non disprezzabile buonuscita, ma la responsabilità (politica) ultima è del suo predecessore, l’inossidabile Lord Browne, che assieme al suo amichetto Ken Lay (l’onnipotente Ceo di Enron) aveva coniugato nel senso più profondo il senso dell’espressione “capitalismo politico”. Per loro, fare profitti (anche se poi, a conti fatti, di perdite si è trattato) era una faccenda più politica che economica; più di marmellamento con gli uomini di Stato che di soddisfazione dei clienti e dei loro bisogni. Così, Bp aveva baricentrato la sua strategia sulla caccia di favori politici, e aveva trascurato altri aspetti del business, come la costruzione di una solidità industriale e il continuo investimento in sicurezza. Da lì, le condizioni predisponenti il disastro (la condizione scatenante è, sempre, la sfiga).

Accanto a questa vicenda – che è soprattutto una vicenda relativa a una singola società, o addirittura allo specifico caso di Macondo, e non può in alcun modo essere generalizzata – c’è la vicenda, più ampia e politica in senso stretto, della politicizzazione del disastro. Da Obama in giù, virtualmente tutti i politici americani e poi internazionali hanno immediatamente colto la palla al balzo per chiedere più regolamentazione, inizialmente dell’offshore drilling, e poi di tutto e di più purché tenuamente collegabile (stile telefono senza fili) con quanto accaduto nel Golfo del Messico. Come è possibile? E’ la stessa domanda a cui ha risposto ieri Alberto Mingardi sul Riformista. Dice Alberto:

Oh sicurezza, quanti delitti si commettono in tuo nome! É così che si sono allargate senza controllo le maglie della regolamentazione e dell’intervento pubblico, nell’ultimo secolo. Ovunque, nel mondo occidentale, si è fatta prevalente una mentalità per cui se abbiamo un “problema”, ci serve un “programma”. In Italia, ancor più schiettamente, se abbiamo un problema facciamo una legge. Perché? Perché è facile. Mettevi nelle scarpe del legislatore – per ipotesi, un legislatore di un Paese con una legge elettorale che rientri negli standard minimi di civiltà: una legge elettorale che consenta agli elettori di concorrere a scegliere i propri rappresentanti sapendone nome e cognome. Questo legislatore ha un suo collegio. Succede l’incidente del kite surf. Il suo collegio è fatto di madri e di padri preoccupati che i figli possano fare uno sport pericoloso, persone per bene, persone attente, che amano i propri cari ma come tutti si fanno prendere dalla paura del momento, odiano sentirsi in balia dell’incertezza. Che cosa fa, il legislatore? S’imbarca nell’esercizio mentale che abbiamo fatto poc’anzi. Immagina i contorni di “regole” più stringenti, che in qualche modo contribuiscano a ridurre il rischio di incidenti tanto drammatici. Poi, aspetta l’arrivo dei gruppi d’interesse, ciascuno comprensibilmente propenso ad evitare che la scure ricada sul suo capo. Si rimpalleranno dati e statistiche, produttori di barche e commercianti di tavole e acquiloni. Cercheranno di prevenire il legislatore, presentandosi da lui con un elenco più ragionevole di restrizioni cui essi stessi suggeriscono lo Stato li sottoponga. Proveranno a raggrumare un proprio fronte contro il “nemico”. Il risultato sarà il più delle volte una normativa annacquata rispetto alle intenzioni originarie, ma che comunque andrà a regolamentare un altro pezzettino della vita dei cittadini.

Alberto prende spunto da un incidente sul lago di Como, ma la cicca è la stessa del caso Bp – e di molti altri. E’ un film già visto troppe volte e che troppe volte ancora vedremo. E non c’è veramente una via d’uscita. Tutti abbiamo diritto (e, in un certo senso, abbiamo ragione) a rimanere razionalmente ignoranti sulle reali conseguenze della regolamentazione, che ci tocca solo indirettamente. Tutti siamo pronti a indignarci quando vediamo la morte inspiegabile di un velista, o la marea nera devastare l’ambiente (anche se meno del previsto, per fortuna e perché il mondo è stato progettato perbene da uno che se ne intende). E così, il processo politico ci trascina su una discesa dove non c’è mai veramente un punto d’arresto.

Nel caso specifico di Bp, l’aspetto forse più paradossale è che l’azienda ha fatto di tutto per ottenere più regolamentazione in quasi qualunque campo della sua attività. Non so se abbia mai fatto lobbying per avere più regole anche all’offshore drilling, ma non mi stupirebbe. E’ nella cultura aziendale di Bp promuovere leggi che o risultino in un sussidio a suo favore, oppure limitino la concorrenza alzando le barriere all’ingresso sul mercato (che poi è lo stesso). Ma nessuna azione di lobbying avrebbe potuto generare una reazione tanto violenta, nell’opinione pubblica, quanto l’incidente di Macondo. A suo modo, è una manifestazione di eroismo postumo da parte di Lord Browne, che vede il suo disegno compiersi sempre più, e come con Enron, si compie infine a spese di chi l’ha perseguito, cioè Bp. Ma se la regolamentazione è il frutto di questo tipo di eroismo, e se il mezzo (inintenzionale) di questo eroismo è la devastazione che sappiamo, allora beato quel mondo che non ha bisogno di eroi. Le compagnie petrolifere che, come Bp, perforano in acque ultraprofonde, ma, a differenza di Bp, investono di più in cantiere e di meno a Washington, forse sono meno eroiche agli occhi del grande pubblico, ma fanno anche meno casini.

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3 Responses

  1. “Regolazione” vuole dire tante cose. Qui potrebbe anche volere dire solo tecnicissima revisione degli standard obbligatori di sicurezza di perforazione (evito i dettagli…); e se questo solo volesse dire , non sono certo che sarebbe il male, e neanche un male.

  2. Carlo Stagnaro

    Massimo, temo che in questo caso non si tratti di tecnicalità, che peraltro già ci sono e (nel caso della Deepwater) pare siano state in parte ignorate. La mia sensazione è che siamo all’assalto alla diligenza.

  3. luciano pontiroli

    Premesso che sarebbe necessario vedere come sono stati interrogati i campioni, mi pare importante considerare che ormai la cultura prevalente rifugge dal rischio. Le prescrizioni tecniche esprimono già un bisogno di prevenire danni, stabilendo in che modo gli attori economici devono comportarsi nell’esercizio della loro attività: quindi comportano già una restrizione della libertà delle imprese.
    Peraltro, come osserva bene l’autore, queste non sembrano dolersene più che tanto. Da un lato, esse possono spesso intervenire nel processo di regolazione, influendo sul regolatore; d’altro canto, sono portate a confidare che, se osservano le prescrizioni, non dovranno rispondere di danni eventualmente verificatisi. In un certo senso, la regolazione sembra essere vista come garanzia d’irresponsabilità.
    Questo modo di vedere le cose è ingannevole: quando il danno si produce, per lo più si risponde. L’introduzione dell’azione risarcitoria collettiva lo dimostra: essa riguarda proprio attività strettamente regolate, nelle quali si cumuleranno le sanzioni amministrative ed il risarcimento dei danni subiti dai consumatori.
    Il tema meriterebbe uno spazio maggiore; si può immaginare una discussione più ampia?

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