21
Lug
2013

Bono, la Francia e il capitalismo

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Emmanuel Martin.

Lo scorso 15 luglio Bono, la rock star irlandese, voce degli U2 e attivista internazionale per i diritti umani, è stato insignito del titolo di Commendatore dell’ordine delle arti e delle lettere della Repubblica francese. Forse avrebbe potuto approfittare dell’occasione per impartire una lezione di economia al Parlamento della repubblica transalpina, che sta discutendo l’ennesima proposta di legge di stampo socialista, in questo caso un provvedimento che vieterebbe alle aziende in attivo di chiudere le loro fabbriche.

Bono?! Non è famoso per sostenere soluzioni statali a ogni problema di sviluppo economico?

Un tempo era vero.

Alla fine dell’anno scorso, in occasione di una conferenza della Global Social Enterprise Initiative della Georgetown University, Bono ha fatto marcia indietro e ha sostenuto che la via per stimolare lo sviluppo economico nei paesi più poveri consiste nel commercio e nell’imprenditoria capitalistica. Decisamente un cambiamento tanto piacevole quanto stupefacente!

Se il commercio e l’attività imprenditoriale sono un bene per le popolazioni impoverite dell’Africa, dovrebbero esserlo anche per il popolo francese e ogni altro popolo, in verità. Gli interventi pubblici tolgono spazio alla libera impresa e, così facendo, ostacolano la crescita e la libertà. Vietare la chiusura degli stabilimenti può apparire un’iniziativa meritevole, ma le imprese hanno bisogno di flessibilità per poter servire le esigenze dei propri clienti. Una barriera alla chiusura di una fabbrica serve inevitabilmente anche da barriera alla loro apertura. A vantaggio di chi può andare una legge del genere?

L’intuizione di Bono lo rende unico nel suo genere. È inusuale che una rock star sostenga il libero mercato: solitamente gli appartenenti a quel mondo preferiscono apparire utopisti e anti-materialistici. Tuttavia, a ben vedere, si tratta di una posa alquanto bizzarra: dopo tutto, cosa farebbero questi musicisti senza il capitalismo e la libera impresa? È proprio la crescita della ricchezza pro capite in Occidente, generata da mercati relativamente liberi, che ha messo un maggior numero di individui nella condizione di seguire una carriera artistica e ha reso possibile ad un numero ancora maggiore di persone di comprare i loro dischi, cosa abbastanza problematica quando il livello di vita è basso.

Non parliamo poi del fatto che i moderni strumenti e apparati musicali – dalle chitarre elettriche ai microfoni, dagli amplificatori alle luci – sono il prodotto dei rischi che innumerevoli imprenditori hanno saputo assumersi in un mercato dominato dalla concorrenza. Pensiamo a Leo Fender, uno degli inventori della chitarra elettrica: la sua celeberrima Stratocaster è una delle chiavi del leggendario sound degli U2 e di moltissimi altri gruppi e artisti, come Jimi Hendrix, Dire Straits, Eric Clapton e i Pink Floyd. Cosa avrebbero fatto queste colonne del rock se lo Stato avesse pianificato l’economia? Siamo sicuri che i burocrati avrebbero permesso a Fender di creare le sue chitarre?

Senza un mondo capitalista e imprenditoriale che abbraccia l’intero pianeta le rock star non avrebbero potuto realizzare guadagni per milioni o addirittura miliardi. In che modo, allora, avrebbero potuto dedicarsi ad attività di beneficenza e con quali soldi avrebbero finanziato la loro lotta contro la fame e la povertà? Le loro fortune sono l’esito di innumerevoli scambi – tutti mutualmente vantaggiosi – tra i produttori e i consumatori di musica, il che è un altro modo di dire che sono il risultato della cooperazione che si svolge nel mercato.

E non dimentichiamo la cosa più importante: la libertà del capitalismo e dell’impresa – quel paziente processo di ispirazione, innovazione, creatività e collaborazione – è l’essenza stessa dell’arte! Pertanto la tradizionale posizione di inimicizia nei confronti del libero mercato da parte degli artisti è straordinariamente incoerente, come Bono sembra aver capito.

Si dirà che il mercato va benissimo per le rock star dell’Occidente, ma come possono sopravvivere i poveri dell’Africa senza interventi statali? La risposta di Bono è un capolavoro di sintesi: «Quando si vuole venire alle prese con la povertà, qui e nel resto del mondo, il welfare e gli aiuti sono un cerotto, ma la libera impresa è la cura».

La soluzione preferita da Bono non è assolutamente estranea alla cultura africana, anzi: la libera impresa rappresenta una pratica tradizionale nel continente, come dimostrano i milioni di minuscoli negozi lungo le strade africane. Ma le elite dominanti si trovano a maggiore agio con l’intervento statale, nella migliore tradizione dirigista francese o sovietica. Il nesso essenziale tra un sano clima imprenditoriale e la crescita economica sfugge alla maggior parte dei politici, che per lo più sono interessati a favorire i loro protetti soffocando le attività produttive degli altri. In altre parole, l’imprenditorialità africana viene soppiantata da un capitalismo di relazione, con tutto quel che esso comporta: influenza politica, monopolio, protezione dai concorrenti e corruzione. Disgraziatamente tutto ciò viene sovente favorito dalle grandi potenze “amiche”, che cercano di ottenere favori coltivando i potentati locali al fine di ottenere concessioni o mercati per le proprie grandi aziende.

Grazie al suo passato e alla sua fama, Bono si trova in una posizione straordinariamente vantaggiosa per insegnare al mondo che gli aiuti allo sviluppo danneggiano i poveri, anziché aiutarli, giacché creano incentivi politici controproducenti e ostacolano la libera impresa. Libri come I disastri dell’uomo bianco. Perché gli aiuti dell’Occidente al resto del mondo hanno fatto più male che bene, di William Easterly e La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo, di Dambisa Moyo forniscono esempi particolareggiati del fallimento delle sovvenzioni pubbliche agli Stati più poveri.

Più in generale, Bono potrebbe far capire a tutti che la libera impresa è un bene per tutti, non solo per le nazioni sottosviluppate.

Emmanuel Martin è analista per LibreAfrique.org, un progetto della Atlas Network.

You may also like

Consigli di lettura per il 2025 – Seconda parte
Consigli di lettura per il 2025 – Prima parte
Politicamente corretto 4.0: motivi storici e contromosse culturali
Per una cultura del rispetto

1 Response

  1. ALESSIO DI MICHELE

    Vogliamo essere ottimisti ? Bono è sempre stato pro-mercato: quando faceva il socialista aveva capito (direi, anche , indovinato) che le platee VOGLIONO sentire questo; cioè vendeva quello che il volgo vuole sentirsi dire. Come dargli torto ? Oggi ha solo fiutato un’ aria nuova. Darei giusti riconoscimenti, da noi, ad Enrico Montesano che più o meno disse: “Aborro il FUS, il successo economico dell’ artista si misura al botteghino, no nei corridoi ministeriali”, e questo più o meno mentre i soliti (Moretti, Verdone, De Sica iunior, …) marciavano per alimentare il FUS. Addirittura De Sica lo difendeva sbagliando un congiuntivo ! Sta tutto su internet:

    http://www.dailymotion.com/it/relevance/search/Celestini+tagli+fus/1#video=xdlnr4 (vedi soprattutto da 2:03 a 2:10), perchè “dasse” è proprio Qultura chonsolidata !

Leave a Reply