Bohemian Rhapsody dimostra che gli artisti devono tenere conto del loro pubblico
di Jeffrey A. Tucker
Bohemian Rhapsody è un film biografico sul cantante dei Queen e, al tempo stesso, anche una delle migliori pellicole su un grande musicista che io abbia mai visto. E lo dico sfidando alcuni critici. Secondo questi ultimi, infatti, il film si concentra principalmente sulla musica e sul genio creativo di Freddie Mercury e non abbastanza sullo stile di vita sregolato per cui era famoso.
È vero il contrario. Il difetto della maggior parte dei film dedicati a musicisti è che hanno lasciato poco spazio alla loro produzione artistica. Mi viene in mente Amata immortale (1994): se si desidera, infatti, vedere un film sul musicista Ludwig van Beethoven, non è questa l’opera adatta. A guardarlo si penserebbe che la sua vera passione non fosse la musica, ma un amore segreto non consumato. Persino Amadeus, benché sia il migliore tra i numerosi tentativi cinematografici, è stato deludente da questo punto di vista.
Può essere difficile trovare attori in grado di riprodurre la grandezza musicale del proprio modello. Seppellire, però, la storia della produzione artistica nel pantano dell’eccentricità personale non è un buon modo per onorare il genio. Bohemian Rhapsody è, principalmente, un film che parla di un cantante sorprendente e di un processo creativo che ha sconvolto il mondo del pop negli anni ’70 e ’80 e che ci ha lasciato canzoni che hanno cambiato l’intero genere musicale. Il film è un dramma emozionante: mostra il processo creativo in modo realistico.
Mercato e Arte
Questo film offre una lezione che riguarda la produzione artistica di qualità in una società di mercato. I Queen sono stati premiati in tutti i modi possibili per aver prodotto canzoni che il pubblico ancora ama. Lo stesso potrebbe dirsi oggi di molti artisti pop. Forse, questa affermazione sembrerà piuttosto radicale, ma nei circoli musicali elevati c’è ancora la tendenza a credere che qualità e popolarità siano opposte l’una all’altra.
Se diventi famoso e ricco, sei “finito”. Se prendi in prestito motivi pop per comporre musica, hai compromesso la tua arte. La tendenza a credere che ci debba essere uno steccato invalicabile tra integrità artistica e successo commerciale si estende molto indietro nel tempo ed è ancora presente.
All’età di 16 anni ero sicuro che sarei diventato un musicista professionista, così ho iniziato a dedicare tutto il mio tempo libero a frequentare una scuola di musica. Ho cominciato a notare, però, un certo ethos; infatti, a chi faceva parte di questi ambienti non piaceva il pubblico e non piacevano i consumatori. Percepivano come una terribile imposizione ogni richiesta di utilizzare l’arte per soddisfare i gusti popolari. Volevano essere esentati dal dover rispondere alle forze del mercato. Era un atteggiamento per me insopportabile, e così ho cambiato i miei progetti e, per reazione, sono entrato in un mondo che celebrava i valori borghesi: l’economia.
Sacralità e Secolarismo
La percezione che il mercato e l’arte non si dovessero mescolare ha prodotto nel XVI secolo un caso famoso. Orlando di Lasso era un compositore di musica polifonica particolarmente amato negli ambienti ecclesiastici. Molti dei suoi motivi e delle sue composizioni erano pezzi di repertorio durante le tradizionali esecuzioni liturgiche nelle cattedrali di tutta Europa. Monaci e sacerdoti, grazie al ritmo della sua musica pregavano ispirati e meditavano intensamente.
Poi, un giorno qualcuno notò una certa familiarità tra alcune di queste strutture melodiche; era sicuro, infatti, fossero identiche ad alcuni motivi popolari molto in voga tra comunità meno spirituali. Alcune canzoni inneggiavano all’alcol, alcune altre avevano nel testo parole oscene. La sua “Missa Entre vous Filles” era basata su brani che riportavano espressioni che non possono essere qui citate. La reazione fu isterica e le composizioni di Orlando di Lasso furono presto bandite da ogni chiesa.
Questi avvenimenti non erano rari nell’età in cui la fede religiosa aveva grande importanza. Si riteneva comunemente che la musica fosse composta per adempiere ad uno scopo elevato e non potesse mai essere contaminata da forme musicali provenienti dal basso, cioè dalla vita terrena. Due secoli dopo, con l’avvento della cultura commerciale, i compositori iniziarono a fare affidamento sulla vendita dei biglietti per le loro rappresentazioni e degli spartiti musicali. Il mecenatismo non era più l’unica opzione.
Ma, anche in questo caso, persisteva la convinzione che il mercato potesse contaminare la musica autorevole. E persisteva nonostante tutto. G.F. Handel si era trasferito dalla Germania in Italia e, poi, in Inghilterra a caccia di opportunità commerciali. Handel riutilizzò le composizioni della musica liturgica italiana per gli oratori inglesi. E i temi degli oratori si ispiravano a storie tratte dalle scritture ebraiche, che nell’Inghilterra del XVIII secolo erano immensamente popolari.
Alcuni potrebbero immaginare che J.S. Bach si sia sempre tenuto lontano da “affari sporchi” di tal fatta; invece le centinaia di cantate che scrisse furono scritte in cambio di un salario. I suoi famosi concerti brandeburghesi erano stati concepiti come progetti dimostrativi per la ricerca di nuovi ingaggi. E proprio come i compositori successivi, come ad esempio Johannes Brahms, Bach riusciva a pagare le cambiali più con l’insegnamento che non con le esecuzioni in pubblico. Altri compositori come Gioacchino Rossini e Giuseppe Verdi furono straordinariamente popolari, mentre Richard Wagner divenne oggetto di un culto vero e proprio.
Si tenga presente che tutto ciò è accaduto prima dell’avvento del copyright musicale. Bach, Mozart, Brahms e Beethoven hanno raggiunto un certo grado di successo commerciale senza utilizzare alcuna legge che mantenesse l’esclusività dei diritti d’uso. Si sostenevano economicamente con l’insegnamento, con i concerti e con il grande seguito che aveva la prima esecuzione delle nuove composizioni. Una volta istituito il diritto d’autore universale, con la Convenzione di Berna, ci fu una nuova complicazione: i compositori credevano di non poter mai prendere nulla in prestito dai contemporanei, che fossero fonti elevate o provenienti dal basso. Come risultato sono venute a crearsi nuove forme di musica autorevole che hanno smesso di connettersi completamente con il pubblico (chi ascolta musica dodecafonica per rilassarsi a casa?).
Per tornare ai Queen
I Queen si sono distinti perché si sono sempre sforzati in modo particolare di raggiungere il loro pubblico, ma non l’hanno fatto imitando, bensì innovando. Il film ripercorre il momento in cui il gruppo decise, con una certa riluttanza, di cimentarsi in generi musicali da discoteca. Nessuno era veramente entusiasta dell’idea fino a quando il bassista non propose l’avvincente (e apparentemente eterno) riff d’apertura di “Another One Bites the Dust”. Probabilmente, la maggior parte degli esseri umani oggi riconosce la canzone solo ascoltandone il ritmo e dalle tre note che la caratterizzano. Viene persino utilizzato nell’addestramento alla rianimazione cardiopolmonare in modo che le persone sappiano la velocità con cui devono comprimere il torace.
Per quanto concerne, invece, “Bohemian Rhapsody”, straordinariamente bizzarra ed enormemente popolare, il pezzo ha ridefinito ciò che viene passato alla radio. Evoca una strana serietà con i suoi motivi lirici, il tema tragico e le transizioni incredibilmente levigate da uno stile all’altro. Basandosi sulle convenzioni dell’epoca, il produttore della band escluse categoricamente che il pezzo potesse uscire come singolo. Si sbagliava. La canzone è considerata una delle più belle nella storia del pop, arrivando addirittura in cima alle classifiche in un paio di occasioni.
Il film racconta la storia che si cela dietro alla canzone e le ambizioni della band nello sperimentare svariati generi musicali. Rimane una paradigmatica confutazione dell’idea che ci siano steccati che separano l’arte di qualità dai successi commerciali. La mia impressione è che questi muri oggi non siano così alti come lo erano diversi decenni fa. (L’Atlanta Symphony Orchestra ospita artisti pop, artisti folk, noti musicisti di tutti i generi, ognuno nella stessa stagione in cui viene riprodotta la 7° sinfonia di Mahler ad un pubblico entusiasta).
Questo film stupendo, incentrato sulla vita di Freddie Mercury e sulla sua band, è un ottimo esempio di come il mercato possa essere un buon alleato dell’arte. È sempre stato così, ma solo ora ci stiamo rendendo conto delle conseguenze che questo ha per la produzione artistica.
L’articolo è stato originariamente pubblicato col titolo “Bohemian Rhapsody Shows That Artists Should Care About Audiences” il 16 novembre 2018 sul sito dell’American Institute for Economic Research. La traduzione dall’inglese è di Cosimo Melella
“e, al tempo stesso, anche una delle migliori pellicole SU UN grande musicista che io abbia mai visto”