Bocciata la sola Giannini: ci sarà vera autocritica delle riforme di Renzi?
A giudicare dalla composizione del governo Gentiloni, con le conferme dei ministri Madia, Poletti e la promozione della Boschi, l’unico ministro del governo Renzi titolare di una “grande riforma” esplicitamente bocciato è Stefania Giannini, sostituita da Valeria Fedeli al MIUR. Del resto, il segretario del Pd da mesi ripeteva che il suo vero cruccio tra le riforme che andavano fatte meglio era proprio la Buona Scuola. Vista la sostituzione, cercare di capirne il perché aiuta a una considerazione di portata più generale: sulle riforme di Renzi e anzi sulle riforme più in generale quando nel nostro Paese intervengono su interessi di massa, generando dunque potenzialmente reazioni che hanno grande influenza nell’orientamento del corpo elettorale.
Non per concederle l’onore delle armi, ma se si considera il punto di partenza e quello di arrivo della Buona Scuola, Stefania Giannini a mio avviso non merita personalmente la bocciatura riservatale. Certamente, pesa molto il fatto che la Scelta Civica cui aveva dato vita Mario Monti, il partito cioè che ha espresso la Giannini, in Parlamento si è ridotta al lumicino, un’appendice dell’ALA di Verdini delusa dal governo Gentiloni. Ma in realtà le riserve esplicite di Palazzo Chigi e del Pd verso la Giannini datano da un tempo molto precedente. Ricapitolandone i motivi si capisce anche una parte di autocritica sull’operato dell’ex governo che oggi resta ancora molto implicita nelle riflessioni pubbliche del Pd, ma che è (forse) destinata a manifestarsi ora che il partito va verso il suo congresso anticipato.
Innanzitutto: se il Pd fosse convinto che il mancato consenso dei giovani clamorosamente manifestatosi al referendum sia figlio della Buona Scuola, è una tesi azzardata. I voti che tradizionalmente “sposta” il comparto della Pubblica Istruzione col suo 1,1 milioni di dipendenti sono quelli degli insegnanti e del personale tecnico ATA, non degli studenti. Ma va ricordato che l’età media degli insegnanti italiani è la più elevata in Europa. Eurostat certifica che nella scuola primaria italiana il 52,7% dei maestri ha più di 50 anni, nelle secondarie di primo grado la percentuale sale al 54,3%, in quelle di secondo grado si sale al 59,6%. In Gran Bretagna nella scuola primaria il 20% degli insegnanti ha tra i 25 e i 29 anni, mentre nel nostro paese questa fascia d’età rappresenta appena lo 0,5%, cioè un maestro ogni 200. Se dunque si dovesse giudicare semplicemente in base alle coorti anagrafiche, il no dei giovani non dipende della Buona Scuola. Ma resta vero che il Pd ha avvertito territorialmente in tutto il paese, che tra i dipendenti della scuola il consenso non era quello atteso e anzi, malgrado la riforma, il no era forte.
Diciamo allora che la glottologa Giannini, per anni rettore dell’Università per gli stranieri di Perugia, partiva con un duplice handicap. Non aveva nel suo passato né il patrimonio di aver rappresentato per decenni un punto di riferimento istituzionale nel dibattito sull’istruzione per conto dell’area politico-culturale di cui il Pd odierno è erede, per intenderci di un Luigi Berlinguer. Né l’aura di accreditato intellettuale d’area, grazie al quale per esempio Tullio de Mauro, da giovane liberale che era, divenne dagli anni Settanta sempre più riconosciuta autorità della scuola in un mondo che si estendeva dal Pci alla sua sinistra. Fino a ricevere il ministero sotto il governo Amato II, nel 2000. La Giannini aveva un duplice difetto: il mancato pedigree politico, e lo scarso appeal verso i due mondi tradizionalmente essenziali per ogni possibilità d’intervento sulla pubblica istruzione: la pachidermica e gelosa burocrazia ministeriale, alla testa di una macchina che da sola vale più di un terzo del pubblico impiego nel nostro paese, e ovviamente i sindacati. Se al posto della Giannini viene oggi nominata una sindacalista di lungo corso della Cgil come Valeria fedeli, alla testa per dieci anni di una delle categorie per altro più riformiste come i tessili (insieme ai chimici, la categoria con contratti storicamente più aperti alla flessibilità sin dagli anni Novanta) c’è una prima tessera utile per comprendere la ratio della scelta. tessera amara: la Fedeli sa nulla di scuola e università, di fatto si sceglie una sindacalista (non molto esperta a far di conto, visti alcuni suoi incidenti sul PIL e calcolo di unità e percentuali su social…) ma è il Pd che “commissaria” in quanto tale il MIUR
Andiamo al merito della riforma. Naturalmente NON parlo qui dal mio punto di vista, cioè di una riforma liberale dell’istruzione costruita sui voucher e sulla piena libertà delle famiglie e studenti di “spenderli” nell’offerta formativa che giudichino più efficace, in base alla piena concorrenza sotto standard qualitativi misurati per performance di risultato. Parliamo invece della Buona Scuola. Al Pd non piacque sin dall’inizio il testo di princìpi generali che la Giannini mise in consultazione. Non è un mistero: molti dei suoi punti non trovarono infatti traduzione nel testo del disegno di legge, nel tardo autunno 2014. E attenzione, fu allora che nella riforma assunse peso una delle novità destinata a suscitare tantissime critiche da parte di sindacati e insegnanti, cioè il rafforzamento dei poteri del dirigente scolastico rispetto ai docenti, e alla scelta delle piante organiche per la parte relativa al completamento dell’offerta formativa in ogni istituto. Il presidente del Consiglio era fortemente a favore del rafforzamento di quelli che un tempo si chiamavano presidi, anche se la storia preferirà invece dire che la responsabilità di quella scelta è della Giannini. Ma proprio tale rafforzamento complicò ulteriormente i rapporti coi sindacati, che invece erano giunti a trattare esplicitamente un ridimensionamento significativo degli scatti di anzianità retributivi uguali per tutti al posto di una componente molto più rilevante da destinare alla retribuzione differenziata merito, secondo le nuove procedure di valutazione, una delle vere potenziali grandi novità annunciate della riforma.
A quel punto, avvenne l’errore fatale. Si decise cioè di concentrare la vera grande ragione della riforma – cioè la messa in regola impostaci giustamente dall’Europa di centinaia di migliaia di precari, che dagli anni Ottanta la politica italiana aveva vergognosamente accumulato nella scuola italiana – in un solo anno scolastico. Opera erculea rivelatasi del tutto impari alle possibilità della macchina burocratica centrale e periferica del MIUR. Il che spiega perché di anni ne saranno necessari almeno un altro paio, stante che ancora oggi almeno 30mila restano i precari supplenti, e molti di più coloro che o non hanno superato il concorso quest’estate o restano nelle graduatorie. Si può credere di darne colpa alla Giannini, ma è molto improbabile che chiunque altro al suo posto sarebbe riuscito nell’impresa. Era semplicemente impossibile: la ragionevolezza avrebbe dovuto sin dall’inizio far prevedere un ciclo triennale di procedure per la messa in ruolo.
Anche perché, se l’attesa era il consenso dei messi in ruolo, era un calcolo mal fatto. La politica italiana per decenni ha coltivato oscenamente l’esercito dei precari perché quello sì era un meccanismo capace di portare consensi, promettendo a ogni elezione regolarizzazioni che poi regolarmente mancavano. La messa in ruolo di massa, con un’estrazione territoriale tanto diseguale dei precari al Sud rispetto a una domanda da coprire soprattutto al Nord, ha inevitabilmente imposto procedure di assegnazione a mobilità regionale molto elevata, anche a centinaia di chilometri dagli incarichi a tempo per anni ricoperti dai precari nelle province e nelle regioni di residenza. Altra ragione che ha fatto esplodere le proteste.
Conclusione. La Giannini paga per colpe che governo e Pd hanno in realtà ampiamente condiviso. Piuttosto, la morale è un’altra. Quando si varano riforme ad alto impatto, come Renzi ha tentato di fare, proprio la Buona Scuola dimostra che è meglio preferire interventi con princìpi chiari e forti da difendere con coerenza, piuttosto di piegarli nel tempo sminuendoli. Perché altrimenti si suscitano comunque vaste e dure proteste, ma insieme si attenuano però i consensi di chi le ha inizialmente condivise. Alla fine, la Giannini paga semplicemente perché è più debole dei suoi ex compagni di governo, punto.