Biotecnologie: nuove opportunità e vecchi pregiudizi
Si sta svolgendo in questi giorni a Philadelphia la BIO International Convention, il più grande e prestigioso evento al mondo sul tema delle biotecnologie. Per l’occasione è stata presentata un’edizione speciale di Scientific American Magazine, popolare rivista scientifica americana, ideata con l’obiettivo di valutare le capacità d’innovazione scientifica dei Paesi di tutto il mondo nel campo delle biotecnologie, secondo sette categorie fondamentali.
Lo studio misura innanzitutto il numero e i risultati commerciali delle aziende biotech dei diversi Paesi, sia a livello assoluto (productivity) che rispetto a fattori come popolazione, Pil e totale dei brevetti (intensity). Inoltre, vengono presi in considerazione criteri come la tutela della proprietà intellettuale (IP protection), la quantità e qualità di studenti e lavoratori nel settore della ricerca scientifica (Education/workforce), la facilità di fare business e ottenere finanziamenti (Enterprise support), la presenza e la qualità delle infrastrutture e degli investimenti pubblici e privati in ricerca e sviluppo (Foundations), la stabilità politica e il rule of law (Policy&stability).
Secondo i punteggi attribuiti ai diversi Paesi dallo studio, il Paese più avanzato nel settore delle biotecnologie sono gli Stati Uniti, seguiti da Danimarca, Nuova Zelanda, Australia, Singapore e Finlandia. L’Italia occupa la 37^ posizione sui 54 Paesi considerati, ben al di sotto di Spagna, Portogallo, Repubblica Ceca, Porto Rico e Slovacchia, fra gli altri. Un risultato determinato soprattutto dai (prevedibilmente) bassi punteggi nelle categorie Enterprise support (2.4/10, 50^ posizione), Intensity (0.78/10, 34^ posizione) e Policy&Stability (5.17/10, 39^ posizione). Il che, provando a trarne qualche conclusione di ordine generale, mostra un dato chiaro: non è certo il settore biotech, di per sé, a non essere competitivo (anzi: a ben vedere, in quanto a productivity, l’Italia è 16^, con più di 400 imprese attive); ciò che manca, inutile dirlo, è un clima, se non proprio di sostegno, perlomeno neutrale.
Dalla ricerca pubblicata sullo Scientific American emerge un altro dato interessante: la grandissima importanza rivestita, nel settore delle biotecnologie, dal venture capital. Una circostanza che si spiega facilmente con la difficoltà di veicolare investimenti in settori altamente innovativi e rischiosi – come quello della ricerca scientifica – tramite i tradizionali canali d’investimento (banche e fondi d’investimento in primis). E che spiega molto bene il ritardo italiano: del totale degli investimenti annui in venture capital nel campo delle biotecnologie in Europa (e quindi al netto dello strapotere americano, che copre il 70% degli investimenti mondiali), la quota destinata al nostro Paese è del tutto marginale, con Regno Unito e Francia a farla da padroni.
Paradigmatica, in questo, senso, è l’endemica difficoltà di accedere a finanziamenti, privati ma anche pubblici; la quota di spesa pubblica dedicata alla ricerca si attesta intorno all’1.3% del Pil, ben lontana dagli standard di Germania (2.8%), Francia (2.3%) e Regno Unito (1.8%). Una situazione che si aggrava ulteriormente in riferimento al settore specifico delle biotecnologie, dove le nostre istituzioni pubbliche investono circa quaranta volte meno di quelle tedesche e nove volte meno di quelle spagnole. Al contrario, gli investimenti privati nel biotech sono in linea con la media europea.
Lo studio dello Scientific American, naturalmente, non può che “limitare” la propria indagine a dati empirici e oggettivi. Purtroppo, però, nel raccontare i perché di un’Italia che anche da questo punto di vista sembra perdere il treno delle opportunità e dei benefici offerti dalla tecnologia, non si può fare a meno di prendere in considerazione la diffidenza e i pregiudizi che ancora ostacolano il settore delle biotecnologie. Battaglie ideologiche che, facendo leva su istinti primordiali e un rifiuto ex ante del metodo scientifico, restano immuni alle rassicurazioni della scienza. E che rallentano un processo sempre più importante a livello globale non solo dal punto di vista degli investimenti e della crescita economica, ma anche da quello delle ricadute occupazionali, della competitività del nostro settore agricolo e della sostenibilità ambientale.
Twitter: @glmannheimer