18
Set
2013

Beni culturali: se l’intervento dello Stato deresponsabilizza i cittadini

Nei giorni scorsi il Corriere della Sera ha dedicato spazio all’esperienza del National Trust: una emerita istituzione britannica che protegge e salvaguarda beni culturali e paesaggistici (ville, monumenti, parchi, giardini, coste, collezioni d’arte, ecc). Nata sul finire dell’Ottocento, è servita da esempio al FAI (Fondo Ambiente Italiano) per far nascere anche nel nostro paese un soggetto capace di radunare un vasto numero di persone per valorizzare il patrimonio culturale sparso per l’Italia. Sull’esperienza del National Trust è intervenuto oggi, sempre sul quotidiano milanese, Salvatore Settis.

Nel suo intervento, Settis scrive che occorre tenere separati i contesti: quello italiano e quello britannico. Nel Regno Unito, il National Trust nasce in assenza di una legislazione statale volta a conservare il patrimonio. In Italia, invece, tali norme sono in vigore da parecchio tempo, anzi: la penisola italiana sarebbe sempre stata all’avanguardia per la sua legislazione in materia di tutela. Tesi questa contestata ad esempio da Luca Nannipieri (qui). Quella di Settis sarebbe pertanto una sorta di “invenzione della tradizione”: l’individuazione della presenza di un filo rosso che lega la delibera di salvaguardia della Colonna Traiana (1162) con l’articolo 9 della Costituzione repubblicana. Il soggetto pubblico, garante supremo del bene comune, avrebbe nel corso dei secoli mostrato una spiccata sensibilità verso la tutela del nostro patrimonio, dimostrando come solo lo Stato (in senso lato: considerata la storia del nostro paese fatta di ducati, granducati, stati pontifici, ecc.) possa e debba farsi carico di tale compito.

La legge Bottai (della fine degli anni Trenta) è alla base dell’attuale Codice dei beni culturali. Se da una parte il regime trovava logico – vista la sua retorica nazionalistica – farsi tutore della salvaguardia del “passato”, cioè dei simboli identitari del paese; nello stesso tempo, però, provvedeva a riplasmare le nostre città sventrandone i centri storici. Una dittatura, per giunta con aspirazioni totalitarie, persegue un proprio disegno, e fa della discrezionalità la propria stella polare, non essendovi argini per contenere chi detiene le leve di comando. Ma anche uscendo dalle vicende del Ventennio, la storia ci dice che tra il contenuto di quei documenti e la realtà dei fatti le discrepanze sono state ampie.

Oggi è in vigore una legislazione ferrea, che sancisce il monopolio statale della tutela ed è inoltre ultraprotezionistica in merito alla circolazione degli oggetti d’arte. Non è, però, con un tratto di penna (cioè con una legge) che si creano comportamenti virtuosi. Il più delle volte si ottiene il risultato opposto. Il culto dello Stato ha in realtà allontanato i cittadini dal proprio patrimonio culturale, se ne sono in gran parte disinteressati. Si è verificato uno degli effetti negativi dell’intervento pubblico: quello di deresponsabilizzare le persone.

Attraverso soggetti come il National Trust, nel vuoto della normativa statale, è maturata una sensibilità per la conservazione del patrimonio. È ciò che accade anche oggi con il FAI, con una partecipazione di massa alle iniziative e un diffuso finanziamento delle sue attività. La “partecipazione” si determina inoltre quando vi è la percezione di dover difendere qualcosa di importante, qualcosa che ha una sua significanza per i singoli individui o per gruppi di persone. Il valore di un bene non è dato dalla sua età: una cosa antica non diventa automaticamente di valore e pertanto da tutelare. Comprimere fortemente i diritti di proprietà, come piace a Settis, per salvaguardare il passato porta solamente a un’arida “museificazione” del nostro paese.

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3 Responses

  1. luciano pontiroli

    In realtà, la legge Bottai non fu del tutto innovativa: i principi fondamentali, identificabili nell’attribuzione allo Stato della tutela dei beni culturali (allora però si parlava di beni d’interesse storico, artistico, antropologico ecc.) anche appartenenti ad enti pubblici minori, la possibilitià di vincolare anche i beni appartenenti a privati, le restrizioni alla loro circolazione erano già presenti nelle leggi del 1902 e del 1909, promosse da uno Stato che si conisderava liberale ma era soprattutto accentrato, sul modello francese. La legge Bottai, entro certi limiti, allentò la disciplina previgente.
    La Costituzione compì un passo ulteriore verso la funzionalizzazione del patrimonio culturale, pubblico e privato, all’interesse collettivo: ovviamente interpretato dallo Stato. Quel patrimonio è proclamato strumento per la diffusione della cultura, sotto la guida del potere pubblico, assoggettandola agli interessi delle maggioranze politiche: tendenza non isolata in Europa, basti pensare ai fasti ed ai nefasti del ministero della cultura un Francia.
    Settis è il portavoce autorevole di questa concezione della cultura e della tutela del patrimonio culturale: la sua recente nomina nella commissione ministeriale incaricata di proporre riforme al codice dei beni culturali – che risale solo al 2004 ed ha già subito ritocchi importanti – preannuncia un irrigidimento della normativa.

  2. Dario

    Per il rilancio dei beni culturali e del turismo, ci vuole una rivoluzione, culturale, appunto.
    I soprintendenti dovrebbero delegare la funzione gestionale a dei manager misurati sulla base dei risultati.
    Le fondazioni culturali (oggi feudo di politici in pensione) dovrebbero lasciare il posto a operatori di mercato di qualita’, misurati sui risultati.
    Il Ministero MIBAC dovrebbe completamente cambiare il modello ottocentesco di gestione dei musei, passando dallo spazio espositivo (statua n.1, Statua n.2, ecc. Senza alcuna possibilità di comprendere cosa si sta guardando) al percorso illustrativo. I musei sono oggi considerati solo posti di lavoro per gli addetti e fonte di piccoli affari per piccoli operatori, ed il visitatore non è il primo degli obiettivi (mancando così anche il secondo ma non meno importante obiettivo dei ricavi=euro, soldi) che permettano la manutenzione delle opere esposte.
    Occorre quindi una vera rivoluzione in grado di far superare il triangolo delle bermuda della diffidenza: ministero – soprintendenze – operatori di mercato.
    Occorre perciò inserire i privati in modo aperto e trasparente (non come adesso, sottobanco, con proroghe e piccoli appalti).
    Occorre quindi bandire gare trasparenti (ci vorrebbe la consip, perche finora le gare sono state dei fallimenti) per la piena gestione di uno o più siti, affidando concessioni di diversi anni, che permettano di far investire per valorizzare, oltre che di gestire in maniera integrata, con economie di scala, i diversi luoghi dei musei, ovvero il museo stesso, la biglietteria, il bookshop, il ristorante-bar.
    Ma il ministero MIBAC e la curia dei soprintendenti non sono pronti a passare da un ruolo GESTIONALE (i cui risultati sono sotto gli occhi di tutti….) ad un ruolo di promozione, indirizzo degli investimenti dei ricavi generati, vigilanza e controllo.
    Solo una vera rivoluzione potrebbe riuscire in questa grandiosa opera.
    AAA rivoluzione culturale cercasi.

  3. Marco Malavasi

    Caro Filippo,
    Come ben sai, viviamo nel Paese delle “Giornata del ….”, ovvero dei soliti appuntamenti annuali dedicati alle buone intenzioni e agli annunci roboanti su come “d’ora in poi” tutti dovremmo comportarci in materia di …. (salute, ambiente, solidarietà, e molto altro). Il nostro bene amato Stato, mentre dovrebbe limitarsi a diffondere un’educazione civica nei cui contenuti vi sia anche qualche “traccia” di concetti privatistici, ancor prima che liberisti, ci illude con annunci e iniziative patinate che nulla migliorano della disgraziata situazione del nostro raro, credo unico, patrimonio culturale. Se la nostra memoria deve per forza correre a leggi degli anni trenta, peraltro in piena dittatura statalista, un motivo ci sarà. Il colpo di grazia viene sferrato da una tendenza subdola ma strisciante di limitazione, o almeno di un suo tentativo, dell’unico pilastro sano di una società che voglia avere ancora un briciolo di speranza, ovvero il diritto di proprietà (libera e privata).

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