9
Giu
2014

Basta spalmare finti salari di produttività a tutti nella PA, Roma sia banco di prova

Ci sono due modi di considerare lo sciopero dei 23 mila dipendenti comunali romani che venerdì ha portato al blocco dei servizi municipali. Il primo è quello del colore, a cui è molto facile indulgere che spingendo sul pedale dell’indignazione, e facendo di tutt’erbe un fascio, a cominciare dai dipendenti del Campidoglio e naturalmente del sindaco Marino che ha i suoi bei guai e le sue pesanti responsabilità, ma non su questo come vedremo. Il secondo modo è di seguire la via della serietà. Cercare di capire di che cosa stiamo parlando, se sia un fenomeno patologico di Roma, e come vada affrontato in concreto: non con invettive e indignazioni contrapposte, delle quali, tanto per cambiare, pagherebbero l’ulteriore prezzo i già tartassati cittadini della Capitale.

Lo scontro è sul “salario accessorio”. Nasce come salario di risultato, cioè come componente della retribuzione non fissa ed eguale per tutti secondo qualifica e come prescritto dai contratti nazionali, di categoria, bensì legata all’ottenimento di determinati risultati. Un salario aggiuntivo di produttività, dunque. Commisurato a obiettivi stabiliti ex ante, e giudicato dai risultati concreti ottenuti secondo l’operato delle diverse unità organizzative della Pa, e individualmente.

Per gli oltre 23 mila dipendenti del Campidoglio– e per i più degli oltre37 mila dipendenti delle municipalizzate romane – non è così. I 200-250 euro di “salario accessorio” sono divenuti negli anni una componente fissa della retribuzione di ogni lavoratore.

Prima domanda. L’ha deciso il sindaco Marino? No. E’ l’effetto di una lunga deriva storica in cui giunte di destra e sinistra, in pieno accordo coi sindacati, hanno aggirato e snaturato la natura “di produttività” del salario accessorio. Per trasformarlo di comune accordo nella modalità attraverso la quale aumentare retribuzioni di base che nei contratti non aumentavano, e che anzi venivano stoppate anche negli scatti automatici per il recupero dell’inflazione, in questi anni di crisi.

Seconda domanda. E’ un andazzo che riguarda solo Roma? Anche a questa domanda la risposta è: no, nemmeno per idea. Avviene non solo in moltissimi Comuni e Regioni italiane, ma in realtà nel più della pubblica amministrazione italiana. A cominciare dalle diverse fasce di dirigenti pubblici, centrali e periferici, i primi ai quali bisognerebbe negare ogni “spalmatura per tutti” del salario di produttività, visto che dalle loro decisioni dipende il più dell’efficienza dei servizi rivolti ai cittadini, il cui miglioramento è il primo parametro da considerare nella PA.

Terza domanda. E’ un questione seria? Sì, serissima. Perché il recupero di produttività della PA è fondamentale per rilanciare la declinante produttività nazionale, visto quanto pesa la componente pubblica nei servizi. E perché la necessità è due volte urgente, visto che bisogna razionalizzare e ridurre la spesa pubblica. E il modo migliore per farlo non è quello dei tagli lineari, ma di commisurare denari a risultati e necessità.

Quarta domanda. Ma allora perché il guaio scoppia solo a Roma? Perché come è ovvio la razionalizzazione e i tagli cominciano dove l’emergenza debito e deficit è più grave. Anche se cominciano in modo che resta incomprensibilmente difforme nel territorio nazionale: vedi il caso della recentissima cosiddetta “spending review” della regione Sicilia, che continua ad assicurare ai propri stenografi un tetto retributivo di 200 mila euro l’anno. Sta di fatto che la bocciatura venuta dal Ministero dell’Economia per lo “spalma-tutti” del salario di risultato a Roma vincola il sindaco Marino, per gli obblighi derivanti dal decreto salva-Roma.

A questo punto il bivio, per la politica e per i sindacati nazionali – ripetiamo “nazionali”, non solo romani – sta ora tra il fare a scaricabarile fingendo di ignorare le responsabilità comuni di anni e anni, oppure seriamente trattare e varare una soluzione che faccia di Roma un banco di prova nazionale per il recupero di una efficienza pubblica vera, cioè quantificabile come avviene in ogni azienda e rapporti di lavoro privati.

Non c’è bisogno di alcun riforma di legge. Nella realtà, le norme che presiedono all’attribuzione del salario di risultato pubblico, alla sua misurazione, alla vigilanza sulla sua aggiudicazione, ai compiti spettanti al direttore generale o – se manca – al segretario generale del Comune –  e ai dirigenti a capo delle singole funzioni, sono tutte scritte da anni. Con tanto di blocchi di dettagliate circolari interpretative e attuative da parte della vecchia Commissione di Vigilanza sulla Trasparenza e Integrità delle Amministrazioni pubbliche, la vecchia CIVIT che diventa oggi Autorità Anticorruzione guidata dal dovunque arci-invocato Raffaele Cantone. Non c’è proprio niente da scoprire, né da aggiungere. Basta attuarle, tutte quelle norme. E per attuarle, appunto, politica e sindacati devono insieme capire che si tratta di girare pagina per sempre, rispetto alle fette di merendina – dire “torta” sarebbe troppo, e mancare di rispetto ai lavoratori pubblici romani – uguali per tutti a prescindere dai servizi offerti.

E’ esattamente questo, che a Roma può e anzi deve oggi accadere. Poiché siamo in Italia, com’è forse inevitabile bisognerà pensare a un meccanismo di transizione, per evitare che quei 200 euro scompaiano da un mese all’altro dalle tasche di dipendenti non in linea coi risultati prefissi, ma comunque del tutto incolpevoli del fatto che giunte e sindacati abbiano deciso per anni di rimpinguare così gli stipendi di tutti. L’essenziale è che non si perda un’occasione che potrebbe essere addirittura storica. Che i sindacati non pretendano di rinviare la palla in tribuna, come sembra vogliano fare. E che, soprattutto, sia una soluzione da additare al resto d’Italia come l’inizio di un nuovo capitolo, di una PA fiera finalmente di far meglio, e capace di pagare meglio chi lo fa. Lo so, forse è solo un sogno. Del resto, l’Impero Britannico amministrò l’India attraverso l’Indian Civil Service, che non superò mai se non di pochissimo e solo alla fine i mille dipendenti, 60 volte meno dei dipendenti del Campidoglio e delle sue municipalizzate.

 

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2 Responses

  1. adriano

    Sarà ma non ci credo.Quando controllati e controllori hanno gli stessi interessi perchè spendono denari di tutti e quindi di nessuno,parlare di produttività e di regole per misurarla non ha senso.L’unica maniera per aumentare l’efficienza dell’amministrazione pubblica è di trasformare le strutture operative in private.Non servono le norme ma l’interesse di chi paga.Se coincide con chi incassa il sistema può funzionare solo sulla buona volontà di cui però da tempo non c’è più scorta a magazzino.

  2. ALFA

    Assolutamente d’accordo con il commento qui sopra !
    Questo “salario accessorio” dei dipendenti pubblici mi sembra di capire sia l’equivalente di quello che per i dipendenti del settore privato si chiama “premio di produzione”.

    Quindi bisogna innanzitutto decidere su quali criteri calcolare gli obiettivi da raggiungere per elargire tale premio di produzione per i dipendenti pubblici.
    Non possono essere gli stessi dirigenti della PA a stabilire tali criteri…..altrimenti sarebbero tutti premiati.
    Così come nessun dipendente della PA viene mai licenziato, nonostante le leggi che regolano il licenziamento anche nella PA esistono.

    Bisogna confrontare Roma con le altre capitali europee a lei simili e vedere queste ultime città quanti dipendenti comunali hanno in organico e qual’è il livello di efficienza dei servizi che erogano ai cittadini. Partendo da questo raffronto allora si che si determinano gli obiettivi da raggiungere per avere il premio.

    Ovviamente, se davvero tale raffronto dovesse essere fatto, per il comune di Roma sarebbe un bagno di sangue.
    La metà dei dipendenti comunali dovrebbero essere licenziati in quanto in esubero e quelli rimanenti dovrebbero mettersi davvero a lavorare secondo criteri di efficienza e produttività .

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